Sguardi in bilico

Riflessioni sull’impatto sui minori di  sfratti e ricollocamenti dei nuclei familiari. Ipotesi progettuali di interventi preventivi


Sofia Fornaroli | 5 Giugno 2020

Parto dagli sguardi dei bambini perchè sono quelli che feriscono di più. Sono gli sguardi dei bambini che arrivano con le loro famiglie ai Servizi Sociali territoriali dopo che un ufficiale giudiziario ha dato esecuzione allo sfratto e che non hanno un posto dove andare. Lo sfratto può tradursi in un evento dai tratti drammatici in particolare per i bambini: prima dell’assegnazione dell’alloggio popolare a cui molte famiglie ambiscono passano mesi e a volte anni di precarietà  e spesso di grande sofferenza.

 

Partiamo con l’esempio di un caso concreto di una famiglia che sta per subire uno sfratto. Ipotizziamo che si tratti di un nucleo non italiano con minori, in cui la giovane madre non parla italiano e  il padre lavora al mercato ortofrutticolo e non è presente perchè non può, visto che non sa bene come la prenderebbe il datore di lavoro.

Accade allora quello che non dovrebbe mai succedere: sono i bambini che iniziano a parlare con gli  assistenti sociali dei Servizi territoriali;  abbassano lo sguardo e raccontano che non sanno dove andare. Parlano loro perchè sanno parlare l’italiano e spesso  i loro genitori lo parlano a fatica o non lo parlano affatto. Allora si aprono dialoghi surreali, con ragazzini che dovrebbero essere a scuola e che invece devono tradurre, raccontare e spiegare, di solito con grande imbarazzo.

 

È evidente che, dopo una prima sommaria fase di raccolta di informazioni, gli assistenti sociali interrompono i colloqui e spiegano agli adulti che non è opportuno parlare attraverso i loro figli. Non possono consentire  che i ragazzi vengano usati per colmare lacune che gli adulti non sanno colmare; mi riferisco agli adulti che stanno da entrambe le parti della barricata: quelli che non sono riusciti ad evitare di subire lo sfratto e quelli che non sono riusciti ad intervenire prima per evitarlo. La costruzione del progetto quindi viene rimandata a momenti in cui sarà presente un mediatore che permetta ai ragazzi di restare dove dovrebbero: a scuola.

 

Quali sono allora gli elementi che potremmo iniziare a mettere in campo o continuare ad usare, per arrivare ad un intervento più tempestivo e più rispettoso di tutti?

Partiamo da alcuni aspetti che nel tempo sono risultati evidenti a chi lavora nei servizi sociali delle grandi città: per molte famiglie  è essenziale vivere in un grande agglomerato urbano, dove la diversità, l’appartenenza a un’etnia diversa risaltano meno e dove si fa gruppo; a Milano nelle zone intorno alla vecchia moschea di viale Jenner le famiglie si conoscono e si aiutano.

Abitare in una città è importante per chi sa che in paesi dell’hinterland la solitudine e la lontananza dal proprio gruppo etnico sono  più forti e gli sguardi intolleranti a volte si sentono di più. Inoltre facilita chi deve alzarsi per raggiungere il posto di lavoro, mentre tutti gli altri stanno ancora dormendo: prendere i mezzi è più facile se vivi in città.

 

In alcune esperienze di migrazione e in particolare in quelle che non hanno prodotto il risultato atteso, da sradicamento si produce altro sradicamento. È importante quindi tenere in considerazione che la continuità nella vita dei bambini è davvero fondamentale. Lasciare la propria casa significa vivere una serie di esperienze di lacerazione che lasceranno il segno: le famiglie dovranno essere ricollocate in strutture di varia tipologia, prima di ottenere la casa popolare; questo  implica lasciare la propria zona e spesso la propria città, per essere trasferiti, anche se temporaneamente lì dove ci sono posti liberi. A catena si produce un altro effetto che può avere  un impatto dirompente nella vita di un bambino: la necessità di cambiare scuola. In alcuni casi poi è possibile ricollocare solo madri e figli e questo aggiunge l’enorme problema di dividere anche se temporaneamente le famiglie

Sembra urgente quindi affinare e utilizzare in tempo utile strumenti che sono già disponibili, ma che spesso vengono messi in campo quando il disagio è scoppiato in modo eclatante.

 

Possibili linee di intervento preventivo

La vita delle famiglie più  fragili è spesso scandita da caratteristiche comuni: si tratta di nuclei familiari stranieri con molti figli; i genitori di solito non possono contare su un bagaglio formativo sufficiente: a volte uno di loro, più spesso la donna, non solo non ha potuto studiare, ma in alcuni casi non ha potuto godere di un processo di alfabetizzazione adeguato. Di solito lavora solo il maschio adulto: per cultura alla donna è riservato il compito di accudire i figli,  in molti casi in assoluta solitudine.

Evitare lo sfratto o renderlo meno traumatico implica un progetto: il primo passo è informare le famiglie su  come l’Ente locale interviene. Capita ancora anche se con minore frequenza, che le famiglie arrivino allo sfratto pensando di accelerare l’assegnazione della casa popolare attraverso il collocamento in strutture pubbliche. Occorre informare questi nuclei che rischiano di fraintendere le indicazioni, di non riuscire a collocare mentalmente le informazioni e di arrivare ai Servizi sociali solo  quando la situazione èi irreversibilmente compromessa, aspettandosi soluzioni inesistenti.

Serve una rete di  operatori (insegnanti, educatori dei nidi, delle materne e delle scuole primarie e secondarie di primo grado, operatori dei centri per l’Impiego, pediatri e assistenti sociali dei servizi territoriali) a cui le famiglie possano accedere non appena intuiscono di essere in difficoltà economica, attraverso informazioni ricevute dalle scuole o reperite nei luoghi di aggregazione delle loro comunità.  Si tratta di avviare un lavoro serrato che evidenzi  come le fragilità abbiano portato al disagio conclamato.

 

Un possibile strumento utilizzabile nel corso dei colloqui di valutazione della situazione è il modello multidimensionale “il Mondo del bambino’1 che lavora su una triplice dimensione: i bisogni dei bambini, quelli della sua famiglia e le risorse o le criticità dell’ambiente. Dal momento che aiuta molto  gli adulti a visualizzare gli elementi che vanno a costituire il “mondo del bambino”, questo strumento consente di fare emergere in modo chiaro che a un bambino serve stabilità e che la casa è un elemento fondamentale di questa condizione necessaria.

Permette di visualizzare che a un bambino serve una madre felice e realizzata, per quanto possibile, e questo comporta la necessità che quella mamma impari meglio l’italiano, per relazionarsi con il mondo che la circonda, perchè  l’isolamento sociale porta l’impossibilità di seguire il proprio figlio attraverso scuole, pediatri, specialisti cui si aggiunge l’impossibiltà di contribuire al sostegno economico della famiglia.

Il modello lascia esprimere alle famiglie quello che ritengono sia importante nella vita del bambino, evidenziando per esempio la necessità che il loro figlio non sia costretto a cambiare luogo di vita e a    rinunciare agli amici e alle relazioni sociali.

Si deve poi formulare un progetto: l’ente locale dovrebbe sostenere la famiglia nel pagamento dell’affitto per un numero di mesi che deve dare un tempo di lavoro sufficiente.; vanno coinvolti sin dalle prime fasi i centri di formazione e avviamento al lavoro perché la fragilità nasce dall’accesso a lavori precari, poco qualificati, discontinui e spesso con pochissima tutela del lavoratore.

Per lavorare sull’inserimento sociale e sull’erosione dell’isolamento le donne devono accedere a corsi di lingua italiana che tengano conto, come già avviene in molti casi del bisogno di fare comunità e di accudire i bambini, attraverso un servizio di baby sitting per ovviare alla prima opposizione che viene mossa : “non posso studiare italiano perché non ho tempo e nessuno si occupa dei  miei figli più piccoli”.

Alle famiglie va garantito il posto al nido gratuito e deve essere spiegata con chiarezza, e attraverso in confronto con altre donne, l’opportunità di iscrivere i bambini alle scuole dell’infanzia per consentire alle loro madri di lavorare, scardinando un modello di vita che producendo isolamento.

 

Queste misure possono sembrare economicamente svantaggiose, ma assumersi l’onere del pagamento di alcune mensilità di affitto e fornire gratuitamente corsi di italiano e nidi (come peraltro in molti casi avviene già), è significativamente più conveniente del pagamento della retta di una comunità e forse anche di un appartamento di Residenzialità Sociale Temporanea e offre  l’enorme vantaggio, non esprimibile in termini economici, di promuovere la capacità di attivazione delle famiglie usando risorse intrafamiliari  che potranno essere rigenerate e riattivate ogni volta che sarà necessario, innescando anche il coinvolgimento  di altri nuclei in difficoltà perché se un progetto funziona, anche altre famiglie vorranno farne parte.

Si tratta quindi di mettere meglio a sistema risorse già esistenti, promuovendo e  sostenendo le capacità delle famiglie di affrontare momenti di criticità senza farli diventare eventi potenzialmente traumatici e producendo invece benessere sociale.

  1. Milani P., Ius M., Serbati S., Zanon O., Di Masi D., Tuggia M., 2015, Il Quaderno di P.I.P.P.I.. Teorie, Metodi e strumenti per l’implementazione del programma, BeccoGiallo, Padova, nuova edizione riveduta e ampliata. 

Commenti

E’ interessante la proposta di affrontare il problema abitativo focalizzandolo sul punto di vista del bambino, promuovendo una maggiore consapevolezza genitoriale sui bisogni del figlio con cui far leva per attivare dei cambiamenti.