Referendum sulla cittadinanza

Una prova di apertura al futuro


Maurizio Ambrosini | 29 Maggio 2025

Il quesito referendario

Tra i quesiti referendari su cui siamo chiamati a esprimerci l’8 e 9 giugno, insieme alle questioni sollevate in modo particolare dalla CGIL sulla regolazione dei rapporti di lavoro, compare anche una domanda relativa alla durata della residenza sul territorio nazionale richiesta per acquisire la cittadinanza italiana: abolendo la rettifica introdotta nell’ormai lontano 1992, si scenderebbe dai dieci anni attuali per i cittadini di paesi terzi, non appartenenti all’UE, ai cinque anni della normativa precedente, che risaliva al 1912 ed era rimasta immutata per 80 anni, anche sotto il regime fascista. Ai dieci anni, tra l’altro, bisogna aggiungere il tempo che le autorità italiane si prendono per verificare la validità della domanda, che oggi supera i tre anni. Inoltre il Ministero degli interni gode di un potere discrezionale, confermato da una sentenza del TAR del Lazio, e può respingere la domanda, per esempio a motivo di un incidente stradale anche non grave. Problemi banali incontrati lungo il percorso, come i cambi di residenza e i problemi d’iscrizione anagrafica, rendono più incerta e accidentata la strada della naturalizzazione per residenza. Molto più rapido ottenerla per matrimonio, a conferma di una visione ristretta e diffidente dell’ammissibilità degli stranieri nella comunità dei cittadini.

Il referendum lascia invece immutato il percorso delle nuove generazioni: se nate e sempre vissute in Italia, possono presentare domanda per un percorso amministrativo semplificato di accesso alla cittadinanza, una volta compiuti i diciotto anni, ma entro il diciannovesimo anno di età. Lo ius soli in Italia esiste già, ma ha un decorso molto lungo, più di quanto avviene nella maggior parte degli altri paesi dell’Europa Occidentale1. Bastano inoltre pochi mesi di allontanamento, per esempio perché affidati ai nonni da piccolissimi, per ricadere nella norma dei dieci anni.

Il significato della cittadinanza

La cittadinanza è l’istituto normativo centrale nella regolazione dei rapporti dello Stato con gli individui, che grazie alle rivoluzioni di fine ‘700 sono passati dalla condizione di sudditi a quella appunto di cittadini: la cittadinanza li emancipa, facendone dei soggetti abilitati a concorrere con il voto alle decisioni relative al funzionamento della casa comune, la repubblica. La cittadinanza fissa diritti e doveri reciproci, favorendo l’identificazione dei singoli con la comunità nazionale. Con il tempo, specialmente nel secondo dopoguerra, si è arricchita di contenuti sociali, come il diritto alla salute, alla previdenza, all’educazione. La cittadinanza, con i diritti civili, politici e sociali che comporta, è diventata il perno dell’appartenenza e della solidarietà nazionale: il collante che tiene insieme i membri della nazione, li fa sentire solidali fra loro, e li distingue dai non-cittadini. Di qui deriva anche l’ambiguità della cittadinanza, che funziona come un confine interno: include chi fa parte della nazione, mentre esclude chi non ne fa parte. L’adozione di una lingua comune e propria, possibilmente distinta dalle altre, l’educazione e la coscrizione obbligatorie, le liturgie e i simboli nazionali (la bandiera, l’inno nazionale, la memoria dei caduti per la patria, la celebrazione delle feste civili), a cui si sono aggiunti nel ‘900 i programmi radiotelevisivi che hanno diffuso e popolarizzato la lingua comune: tutto questo ha contribuito a consolidare il legame tra lo Stato-nazione e i suoi cittadini.

La sfida dell’immigrazione dall’estero alla cittadinanza nazionale

L’immigrazione pone una sfida a questa architettura socio-politica. Chiamati dai governi e dalle forze economiche dei paesi ospitanti per colmare le carenze di manodopera, o comunque tollerati come risorsa necessaria per l’economia, gli immigrati internazionali rimangono infatti dei cittadini appartenenti a un altro Stato. Di solito dotati di una lingua diversa, spesso fedeli di una religione diversa da quella prevalente e riconosciuta nell’ambito nazionale, a volte seguaci di costumi e pratiche diverse da quelle dei cittadini nazionali, s’insediano stabilmente sul territorio della nazione. Sorgono interrogativi a riguardo della loro lealtà, appartenenza, solidarietà con la comunità nazionale. Per di più, prima o poi ricongiungono le famiglie o ne formano di nuove, generano dei figli, li mandano a scuola. Peggio ancora, dal punto di vista dei propugnatori di un’identità nazionale nitida e indiscussa: possono unirsi con persone del luogo, e dare vita a delle famiglie miste. Avanza la mescolanza, si offusca la distinzione tra cittadini non cittadini. Inevitabilmente, almeno sotto regimi democratici, gli immigrati accedono a diversi diritti: in primo luogo quelli sociali, derivanti dal lavoro dipendente. Poi quelli civili, come il diritto di culto e di associazione. Rimangono invece esclusi dai diritti politici, finché non riescono a ottenere quella che con un termine curioso si definisce “naturalizzazione”: come se la cittadinanza fosse appunto un attributo naturale delle persone, e non una convenzione politica.

La mancanza dei diritti politici pone un problema, che sotto regimi democratici è diventato piuttosto ingombrante: sul territorio nazionale vivono insieme, soggetti alle stesse leggi ed esposti -fra l’altro- allo stesso prelievo fiscale, individui che hanno un diverso grado di potere nei confronti di quelle leggi e di quelle norme fiscali: gli uni, dotati della cittadinanza nazionale, possono modificare con il voto, le leggi a cui devono sottostare, gli altri possono solo subirle, o eventualmente trasferirsi altrove. Secondo Michael Walzer, si tratta della più comune forma di tirannia: quella per cui alcuni decidono per tutti. Il fatto che gli immigrati stabilmente insediati possano accedere a vari diritti sociali non incide su questa condizione di minorità politica. Finisce anzi per esporli al risentimento dei cittadini nazionali, soprattutto in tempi di crisi e di restrizione della spesa sociale: questi possono essere indotti a vedere negli immigrati i “colpevoli” della mancata o carente risposta ai loro bisogni. Tra l’altro, in materie più discrezionali, come il welfare regionale o locale, è ricorrente la tentazione d’inserire norme discriminatorie, come è avvenuto più volte in Italia, per esempio in materia di edilizia sociale. A queste ingiustizie gli immigrati non possono opporsi con il voto.

Il panorama europeo

Gli Stati hanno elaborato condizioni e procedure più o meno inclusive per regolare questo squilibrio. Esaurita negli anni ’70, almeno in Europa, la stagione dei lavoratori-ospiti, autorizzati a entrare per lavoro per un tempo limitato, ma esclusi in linea di principio dall’accesso alla cittadinanza, si è fatta gradualmente strada una visione più liberale, non senza contraddizioni e ripensamenti negli ultimi decenni.

Va notato però che anche in uno spazio politico per vari aspetti integrato come quello dell’UE non ha fatto grandi passi avanti la linea dell’armonizzazione dei criteri (e dei tempi) per la naturalizzazione dei residenti stranieri. Tanto l’ammissione di nuovi immigrati, quanto la loro successiva integrazione e inclusione nella comunità dei cittadini rimangono fermamente nelle mani dei governi nazionali, salvo una base limitata di regole comuni su cui Bruxelles è riuscita a fare breccia, come quelle relative alla proibizione di discriminazioni e all’accesso -almeno teorico- alla maggior parte dei diritti sociali. Sotto l’ombrello del persistente primato della regolazione nazionale, nell’accesso alla cittadinanza si è diffusa nella maggioranza dei paesi dell’UE a 15 la condizione dei cinque anni di residenza, su cui si è recentemente allineata la Germania, raggiungendo Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Svezia, Irlanda, Lussemburgo. Appena più restrittive sono Austria e Finlandia, che richiedono sei anni. Fuori dall’UE, la regola dei cinque anni vale nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Anche laddove i tempi sono superiori – come in Spagna, in Danimarca e in Grecia-, vigono significative eccezioni: in Spagna per esempio i tempi sono ridotti a due anni per gli immigrati che provengono da antichi possedimenti spagnoli, (dall’America latina alle Filippine), nonché per i discendenti degli ebrei sefarditi espulsi nel lontano 1492. Si applicano inoltre pressoché ovunque condizioni più favorevoli per i minori, specialmente quando sono nati sul territorio.

L’asimmetria sul piano politico tra cittadini nazionali e immigrati è poi mitigata in diversi paesi dal fatto che le norme riconoscono agli immigrati stabilmente residenti il diritto di voto attivo e passivo in ambito locale, dando loro la possibilità d’incidere almeno nelle questioni che li toccano più da vicino.

Questa tendenza moderatamente liberale trova un contrappeso nelle richieste d’integrazione civica: dagli inizi di questo secolo si osserva una tendenza a domandare agli immigrati di dare prova di adesione politica e culturale alle norme delle società ospitanti. La conoscenza della lingua e di aspetti basilari della storia, delle istituzioni e delle leggi fondamentali ne è il banco di prova. Gli esami per misurare queste conoscenze vengono applicati a diversi stadi del percorso d’integrazione (in Italia per esempio bisogna superare un test per ottenere il permesso di lungo soggiorno), ma trovano il coronamento nelle verifiche necessarie per ottenere la cittadinanza. Per lo stesso motivo, questo passaggio è più solennizzato del passato, sull’esempio statunitense, con apposite cerimonie.

Perché le acquisizioni di cittadinanza sono numerose in Italia

Se il confronto europeo lascia pochi margini agli oppositori della proposta referendaria, uno degli argomenti più utilizzati è quello dell’alto numero di acquisizioni di cittadinanza registrato in Italia negli ultimi anni. I numeri parlano ogni anno di un cospicuo contingente di nuovi cittadini (214.000 nel 2023, 217.000 nel 2024). Il motivo risiede però non in un presunto liberalismo, ma nella spinta demografica di oltre cinque milioni di residenti, molti dei quali entrati in Italia nella prima decade di questo secolo e regolarizzati grazie alle sanatorie dei governi a guida Berlusconi (quella varata a seguito della legge Bossi-Fini nel 2002 e quella dovuta a Maroni nel 2009). Questi nuovi residenti

prima o poi, magari dopo aver subito ritardi e dinieghi, alla fine maturano i requisiti e se lo desiderano riescono a intraprendere il percorso di acquisizione della cittadinanza. Ci sono arrivati nel terzo decennio di questo secolo, ma in gran parte dell’Europa Occidentale avrebbero potuto giungere al traguardo molto prima.

Concludendo, quali che siano gli esiti di una consultazione referendaria condizionata dal problema del quorum, un’ampia partecipazione dei cittadini lancerebbe comunque alle istituzioni politiche un messaggio di apertura: di volontà di configurare la cittadinanza guardando al futuro di una società inevitabilmente multietnica, su basi di uguaglianza e di pari dignità per tutti.

  1. Vedi anche, dello stesso autore, l’articolo pubblicato su welforum.it il 2 ottobre 2024: “L’accesso alla cittadinanza per gli immigrati. Che cosa succede in Europa”