Amministrazione condivisa: prima, dopo e a fianco del procedimento
Gianfranco Marocchi | 18 Giugno 2025
Il rischio del riduzionismo
Per quanto la consapevolezza che l’amministrazione condivisa richieda un cambiamento culturale radicale, il rischio di ricercare soluzioni semplificate ma parziali è sempre presente. Ciò si verifica quando, a fronte di una questione di per sé complessa – far evolvere lo sguardo con cui i diversi soggetti in campo si considerano reciprocamente – si sceglie di intervenire (pur anche, talvolta, con un impiego di risorse significativo) su aspetti specifici e puntuali, nella speranza che grazie a ciò le complessità di cui sopra possano disciogliersi in un istante.
Un esempio è dato dalla convinzione che l’estensione di atti del procedimento (l’avviso pubblico, la bozza di convenzione, ecc.) formalmente ineccepibili, oppure la presenza di un eccellente facilitatore dei tavoli di lavoro, garantiscano un percorso di amministrazione condivisa positivo. Ovviamente, atti del procedimento scritti bene e tavoli di lavoro ben gestiti sono un valore aggiunto decisivo e la presenza di errori gravi in uno di questi due ambiti può effettivamente compromettere l’esito del percorso; ma questo è ben diverso dall’affermare che essi garantiscano, laddove ben strutturati un esito positivo: sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, si direbbe con il linguaggio della logica.
Prima e dopo il procedimento
Alla base della questione vi è il fatto che spesso si identifica il complesso dell’esperienza collaborativa con il procedimento di coprogrammazione o di coprogettazione.
Il procedimento – quello che si apre con una determinazione dell’ente che approva un avviso pubblico e si chiude con un documento finale (coprogrammazione) o con un progetto definitivo (coprogettazione) – dura da pochi giorni (e generalmente non è una bella cosa) ad alcune settimane o alcuni mesi; ma si situa in una storia di relazioni che generalmente ha, alle spalle, diversi anni o decenni ed è seguita da un periodo di alcuni anni in cui quando insieme è stato convenuto va effettivamente messo in atto. C’è un “prima” del procedimento e un “dopo” il procedimento, che non possono essere ignorati; e c’è anche quanto avviene “a fianco” del procedimento a pesare, nel bene e nel male, su quanto avviene nel procedimento stesso.
Prima del procedimento
Prima del procedimento vi è una lunga storia di relazione tra gli ETS e tra ETS e pubblica amministrazione. Una storia fatta di collaborazioni e di contrapposizioni, di soggetti reciprocamente legati da reciproca fiducia o da diffidenza atavica. E vi è inoltre una struttura delle relazioni che può avere geografie molto diverse: ad esempio può esserci un forte radicamento territoriale degli ETS che gestiscono i servizi, che collaborano quotidianamente con le associazioni, con le famiglie, con i gruppi informali, che promuovono, unitamente alla pubblica amministrazione, momenti di ascolto pubblico, ricerche che coinvolgono beneficiari e altri cittadini, ecc.; o, al contrario, contesti meno partecipati, dove chi presta servizi assume un ruolo prettamente professionale. Nel bene e nel male, tutto questo patrimonio di esperienze passate sarà presente nel procedimento, lo faciliterà o renderà impervio il percorso e poco innovativi gli esiti. È certo possibile, durante i tavoli, da una parte valorizzare gli elementi positivi, dall’altra riconoscere gli elementi ostacolanti, affermando che essi appartengono ad un passato che va superato; se chi lo afferma, per autorevolezza e storia personale, è considerato affidabile e autorevole, potrà ottenere credito, ma se per qualsiasi motivo la fiducia viene tradita l’esito può essere ancora più negativo.
(Poco) prima del procedimento
Quale che sia la storia pregressa, ci si avvicina al procedimento, la pubblica amministrazione ha chiaro che intende adottare una strada collaborativa e si appresta a farlo. Ma di qui alla redazione degli atti del procedimento ci sono ancora dei passaggi intermedi spesso sottovalutati. In primo luogo, l’intento collaborativo va tradotto in un disegno collaborativo e quindi in uno o più strumenti collaborativi. È, in altre parole, la fase in cui si sceglie se fare una coprogrammazione, una coprogettazione (o una coprogrammazione seguita da una coprogettazione), se promuovere patti di collaborazione, se adottare uno schema di social bonus legato ad un immobile, o altro. La scelta non è quasi mai banale e richiede attenzione e capacità di valutare le alternative possibili.
Ma, anche una volta scelto lo strumento, prima di intraprendere la redazione degli atti è necessario approfondire diversi aspetti del tutto non scontati. Quanto durerà la collaborazione e come la durata si rapporta con la finalità di cambiamento che ci si sta ponendo? Si immagina di collaborare con un soggetto, eventualmente aggregato, o con una pluralità di soggetti che sui tavoli cercano un accordo? Si auspica di avere al tavolo soggetti strutturati e affidabili, o un ampio insieme di enti, anche piccoli e ai limiti dell’informalità, per meglio rappresentare le istanze della comunità? Per individuare gli ETS che si siederanno al tavolo si chiede e si valuta un progetto o altro? È opportuno coinvolgere altre pubbliche amministrazioni? E in che termini? Le domande potrebbero continuare, ma tanto più si investirà sul fare chiarezza su questi punti, tanto più il percorso successivo sarà lineare.
A fianco del procedimento
A fianco del procedimento, i soggetti coinvolti nel procedimento possono essere collaborativi o, al contrario, impegnati in azioni reciprocamente ostili. Si può ragionevolmente prevedere che, in un tavolo di coprogettazione, gli enti condividano le proprie idee migliori se al tempo stesso sono impegnati in casi di competizione, dove quelle stesse idee costituiscono, nella redazione degli allegati progettuali, un fattore che può significare la vittoria o la sconfitta? Si può pretendere che questi soggetti condividano i propri punti di forza, ma anche le proprie debolezze, con un competitor, candidamente dichiarando anche le proprie debolezze? Si può davvero pensare che, dove vi è un’aspettativa di competizione presente o futura, sia così facile “fare un passo indietro” e lasciare che uno spazio sia occupato dal proprio concorrente, che userà tale esperienza come leva per estromettere il soggetto responsabile e generoso dal mercato? Questo non significa che non si possano trovare accordi di interesse, ispirati ad un principio di spartizione delle risorse e degli ambiti di influenza – come di fatto è sempre avvenuto – ma che non si conseguirà mai quel valore aggiunto di integrazione e di innovatività per cui si è scelto un procedimento collaborativo.
Per cui, pur essendo ineccepibile, dal punto di vista della legittimità amministrativa, adottare in taluni casi strumenti basati sulla collaborazione e in altri strumenti basati sulla competizione, questa “collaborazione part-time” difficilmente porta i vantaggi attesi della collaborazione a dispiegarsi effettivamente. Tanto più se, come spesso succede, la collaborazione viene sperimentata su progetti magari creativi e stimolanti, ma di ordine economico infimo, mentre al contempo, laddove sono in gioco risorse significative, si continua a chiedere agli ETS di competere.
Dopo il procedimento
È dopo il procedimento che, di norma (e nei casi virtuosi), succedono le cose più interessanti. Dopo, cioè, che il progetto definitivo è stato redatto e quando ci si impegna insieme nella gestione quotidiana degli interventi. È qui che succedono le cose più interessanti perché – se è effettivamente di cambiamenti e di trasformazioni che parliamo, e non soltanto di gestione quotidiana dei servizi – sarebbe illusorio pensare che schemi consolidati possano essere superati in un numero limitato di tavoli di lavoro. Le grandi innovazioni non si realizzano in 5-6 riunioni da due ore, ma in prassi quotidiane che, sulla base di indirizzi originali, evolvono nel corso del tempo, grazie a quella dialettica continua tra istanze trasformative, prassi concrete, valutazione, riprogettazione.
Cosa consegue, da tutto ciò?
Si è consapevoli che, in alcuni casi, questi ragionamenti possono indurre a fatalismo e rassegnazione. Si tratta di reazioni che talvolta si incontrano in sedi formative o nel confronto con ETS e pubbliche amministrazioni, laddove i protagonisti evidenziano l’assenza delle condizioni necessarie per collaborare: “tra gli ETS non c’è fiducia, non c’è collaborazione”, si dice, per evidenziare l’impossibilità, in un territorio, di adottare approcci collaborativi, magari invidiando la situazione di altri territori che vengono proposti come buone prassi.
La corretta lettura dei fenomeni, però, è un’altra. La fiducia, la collaborazione, non sono innate, si costruiscono: con un percorso che sarà tanto più lungo e impegnativo quanto la situazione di partenza è disgregata e conflittuale. Si costruiscono con la necessaria gradualità, sperimentando reciprocamente aperture di fiducia che, se non tradite, generano ulteriore fiducia e collaborazione. La costruzione di contesti collaborativi può prevedere, tra le altre cose, la progressiva sostituzione di stili di leadership (o talvolta di leader in quanto tali) muscolari e aggressivi, frutto delle stagioni pervase dalla competizione con altri aperti e orientati alla relazione. Ogni atto può rappresentare un passo verso la diffusione di rapporti collaborativi o al contrario distruggere il capitale di fiducia che si sta faticosamente costruendo.
Da tutto questo si deriva quanto segue: anche laddove i presupposti non sono tra i migliori, dove il Terzo settore è litigioso e contrappositivo, non bisogna rinunciare ad adottare opzioni collaborative; semplicemente bisogna avere aspettative realistiche rispetto ai risultati, sapendo che ciò che non è conseguibile oggi potrà esserlo nel corso del tempo, laddove che si sia costanti e coerenti nel promuovere la diffusione della collaborazione; e sapendo che sarà necessario un supplemento di investimento per ricostruire i legami degradati.
Riequilibriamoci!
È abbastanza frequente che le pubbliche amministrazioni più avanzate e coscienziose investano risorse per essere supportate nel procedimento, per redigere gli atti o per facilitare i tavoli. Non capita quasi mai di assistere a investimenti sul “prima” o sul “dopo” o a vedere riflessioni compiute su ciò che avviene “a fianco” del procedimento.
È un indicatore di quanto sia necessario diffondere la consapevolezza circa il fatto che la collaborazione e la fiducia non si costituiscono come frutto di scelte estemporanee, ma richiedono chiarezza e determinazione; e la capacità di considerare il fattore “tempo” come una dimensione condivisa per il cambiamento sociale.