Quattro anni di welfare tra resistenza e occasioni mancate


Vanessa Pallucchi | 5 Novembre 2025

Il titolo scelto da Welforum – “un welfare (quasi) immobile” – descrive bene il punto in cui siamo arrivati: un sistema sociale che si muove, ma a strappi. Ci sono state innovazioni importanti, ma sono rimaste parziali, fragili, territorialmente diseguali. E questo, a venticinque anni dalla legge 328, pesa.

Negli ultimi quattro anni abbiamo visto riforme annunciate e poi rallentate, come sulla non autosufficienza; passi avanti più concreti sulla disabilità, con il riconoscimento del progetto di vita personalizzato; interventi sulla povertà (ma ora non più universali) e sui sostegni alle famiglie spesso pensati come misure emergenziali più che come diritti. Il risultato è che oggi l’accesso a un servizio domiciliare, a un sostegno educativo, a una soluzione abitativa dignitosa può cambiare da Comune a Comune. Non è accettabile: la qualità della vita di una persona non può dipendere dal CAP.

Come Forum nazionale del Terzo Settore abbiamo cercato di dirlo con chiarezza. Con il Manifesto “Verso un nuovo sistema di welfare” abbiamo proposto un cambio di paradigma: dal welfare di pura protezione al welfare dei diritti e dell’inclusione. Significa prossimità, universalismo, presa in carico personalizzata lungo tutto l’arco della vita; integrazione tra sociale, sanitario, lavoro, casa, educazione; budget di progetto come strumento per garantire davvero autonomia e dignità alle persone.

Abbiamo però misurato anche ciò che non ha funzionato. Il PNRR, che poteva essere il motore di una nuova infrastruttura sociale, è stato spesso trattato come un elenco di cantieri da rendicontare più che come un investimento sulla coesione. Sui nidi, sulla domiciliarità, sui servizi di prossimità abbiamo visto arretramenti, rimodulazioni al ribasso, rinvii. Parallelamente si è affievolita l’idea che la “sicurezza” di un Paese sia prima di tutto sicurezza sociale: pace, diritti, casa, istruzione, relazioni.

In questo quadro, il Terzo Settore ha tenuto il Paese in piedi. Le organizzazioni sociali, di volontariato e cooperative hanno garantito sostegni quotidiani dove lo Stato era distante; hanno sviluppato pratiche di amministrazione condivisa con gli enti locali; hanno portato dati, valutazioni di impatto, monitoraggio civico del PNRR. Ma non possiamo essere trattati come tappabuchi a basso costo. Essere partner significa riconoscere il valore del lavoro sociale, garantire stabilità di risorse, semplificare regole e adempimenti.

Da questa esperienza porto a casa tre lezioni politiche.

  • Primo: senza livelli essenziali delle prestazioni sociali realmente definiti, finanziati e monitorati, l’uguaglianza resta uno slogan. I LEPS devono smettere di essere promesse astratte e diventare diritti esigibili, con standard omogenei e fondi strutturali, non occasionali.
  • Secondo: serve una governance cooperativa. Stato, Regioni, Comuni e Terzo Settore devono stare allo stesso tavolo in modo permanente, nella cornice della coprogrammazione e coprogettazione. Non è una gentile concessione: è l’unico modo per disegnare politiche pubbliche a partire dalla vita reale delle persone.
  • Terzo: nessuna riforma regge se non investe sul lavoro di cura e di comunità. Assistenti sociali, educatrici ed educatori, operatori sociosanitari, volontari e cooperative sociali sono un’infrastruttura democratica. Vanno riconosciuti nei contratti, nelle tariffe, nella formazione continua.

Alla domanda: “Che cosa fare nell’ultimo tratto di legislatura?”, la risposta è semplice e impegnativa. Basta bonus, servono scelte strutturali: LEPS esigibili; una regia nazionale per non autosufficienza e integrazione sociosanitaria; stabilizzazione dell’amministrazione condivisa. Questo, oggi, significa sicurezza sociale. E la sicurezza sociale è la condizione della democrazia.