Lavoro straniero e lavoro povero

Rimuovere gli ostacoli occupazionali e promuovere l’integrazione


Tortuga | 29 Dicembre 2025

I nuovi dati Istat sulla povertà in Italia nel 2024

Istat ha pubblicato lo scorso 14 ottobre i dati sull’incidenza della povertà tra le famiglie residenti in Italia. I numeri sono drammatici e ribadiscono quanto la lotta alla povertà debba rimanere una priorità centrale nelle politiche pubbliche del nostro Paese. In particolare, l’8,4% delle famiglie vive in condizione di povertà assoluta; la percentuale sale al 35,2% se si considerano solo le famiglie composte esclusivamente da cittadini stranieri. Una simile distribuzione del fenomeno tra famiglie italiane e straniere emerge dai dati Eurostat sulla “deprivazione sociale e materiale”.

Mentre la soglia di povertà relativa è calcolata in base ai redditi medi del resto della popolazione, la soglia di povertà assoluta è definita da Istat come “il valore monetario [mensile], a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia per evitare gravi forme di esclusione sociale nel contesto di riferimento”. La soglia varia in base al grado di urbanizzazione, alla regione di residenza e all’età dei componenti della famiglia. Lo stesso istituto statistico mette a disposizione uno strumento per calcolare la soglia di povertà assoluta in base a queste variabili. Per esempio, una coppia di trentacinquenni che vive a Milano, con una figlia di 0-3 anni e un figlio di 4-10 anni, ha una soglia di povertà assoluta pari a 2.004,67 euro. La stessa famiglia, se residente in un piccolo comune abruzzese, ha invece una soglia di 1.443,64 euro.

 

 

In questo quadro già allarmante, spiccano i dati relativi alle famiglie con soli componenti stranieri e con persona di riferimento occupata: una su tre vive in condizione di povertà assoluta (34%). Tra le famiglie italiane con caratteristiche analoghe, la percentuale scende al 4,5%. Ciò significa che, per molte famiglie non italiane che vivono nel nostro Paese, il lavoro non basta a garantire una vita dignitosa per sé e per i propri figli e figlie.

Le differenze occupazionali tra popolazione nativa e straniera: quali ostacoli?

Per formulare proposte di policy efficaci, è prima necessario comprendere quali barriere impediscano alle persone straniere, pur impiegate, di uscire da condizioni economiche gravemente precarie.

 

 

Le analisi più recenti mostrano che le differenze economiche tra nativi e stranieri non si spiegano con il livello di istruzione o l’esperienza lavorativa. In media, le persone immigrate hanno un’istruzione inferiore rispetto agli italiani, ma gran parte della disuguaglianza persiste anche tra chi ha competenze e titoli simili. L’ottavo report dell’Osservatorio Migrazioni del Centro Studi Luca d’Agliano e del Collegio Carlo Alberto di Torino rivela che l’Italia è il secondo Paese dell’Unione Europea, dopo la Grecia, per divario nella probabilità di svolgere un’occupazione elementare (e quindi con uno stipendio basso) tra persone immigrate e native: la probabilità per una persona immigrata è più alta del 17%, e rimane sopra il 15% anche a parità di caratteristiche.

Capire le ragioni per cui persone straniere con pari qualifiche e competenze ottengono lavori di qualità inferiore e minore retribuzione è un passo essenziale per progettare politiche anti-povertà efficaci. In questo articolo, ci concentriamo su tre grandi barriere: la carenza di reti sociali, la difficoltà nel parlare italiano e il mancato riconoscimento delle qualifiche.

Carenza di reti sociali

Nel mercato del lavoro, le reti sociali giocano un ruolo fondamentale nell’incontro tra la domanda e l’offerta: uno dei primi studiosi a studiare questo fenomeno è stato l’economista americano James D. Montgomery, nel 1992. Per esempio, secondo un rilevamento Ocse del 2017, in Italia più di 8 disoccupati su 10 consideravano le reti di conoscenze personali il metodo principale per cercare lavoro. È evidente, dunque, come la carenza di reti sociali rappresenti un ostacolo cruciale alla piena integrazione lavorativa delle persone straniere e una delle principali cause della loro concentrazione in occupazioni povere o precarie.

Negli Stati Uniti, ad esempio, i lavoratori rifugiati privi di una rete consolidata all’arrivo nel Paese presentano tassi di disoccupazione iniziale più elevati e salari inferiori rispetto a coloro che beneficiano di una rete preesistente. Allo stesso modo, uno studio del 2019 ha rilevato come in Cina la densità delle reti di origine e la conseguente capacità di fornire referenze e credito informale siano positivamente correlata con la qualità e la crescita delle imprese fondate da migranti interni. Anche in Canada, la presenza di almeno un amico o parente nel Paese aumenta sensibilmente le possibilità di trovare il primo lavoro e migliora lo stipendio, soprattutto per chi parte da condizioni più svantaggiate.

Uno studio del 2015 di due ricercatrici di Paris School of Economics e di Milano Bicocca ha mostrato che, tra i migranti singalesi a Milano, i legami sociali svolgono un ruolo essenziale nel reperimento di un impiego, poiché i nuovi arrivati tendono ad affidarsi a connazionali già stabiliti per ottenere informazioni e opportunità lavorative. Anche se affidarsi a questi contatti è una scelta comprensibile e spesso utile all’inizio, nel tempo può diventare un limite: restando chiusi nella propria rete, i migranti rischiano di venire a conoscenza solo di poche offerte di lavoro, spesso poco qualificate o non adatte alle loro reali competenze.

In Italia, in assenza di adeguati meccanismi di sostegno e segnalazione, molti lavoratori stranieri, pur occupati, restano confinati in lavori poco qualificati e mal retribuiti. Buone politiche migratorie dovrebbero favorire la creazione di legami sia tra persone straniere sia tra stranieri e italiani della stessa area. Come mostra lo studio del 2015 citato, chi vive in Italia da più tempo aiuta spesso i nuovi arrivati a trovare lavoro. È quindi importante evitare che le reti di riferimento degli stranieri si limitino a chi è arrivato nello stesso periodo. Vanno in direzione opposta tutte le politiche migratorie (come quelle dei Decreti Sicurezza) che tengono insieme migranti arrivati nello stesso periodo per un lungo periodo di tempo in contesti spesso slegati da altre comunità nazionali.

Un esempio emblematico della carenza di reti sociali e del fallimento delle politiche di integrazione è rappresentato dall’insediamento informale di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, dove vivono migliaia di lavoratori migranti impiegati stagionalmente nell’agricoltura (principalmente entrati in Italia attraverso il Decreto Flussi), spesso in condizioni di sfruttamento e marginalità estrema. La quasi totalità di queste persone è esclusa dai circuiti istituzionali di accoglienza e orientamento al lavoro, e l’assenza di reti miste con la popolazione locale rafforza la segregazione abitativa e lavorativa. È necessario ricordare che questo fenomeno riguarda migranti irregolari, che quindi non rientrano nelle statistiche Istat su lavoro e povertà, il cui valore quindi potrebbe essere sottostimato.

Un paese europeo che ha fatto uso delle reti sociali è l’Austria. Il progetto Mentoring for Migrants, attivo dal 2008 e tuttora in corso, ha formato oltre 2.500 coppie affiancando migranti qualificati con professionisti locali per facilitare l’accesso al mercato del lavoro. Il programma è rivolto a persone con background migratorio che abbiano completato almeno una formazione professionale o un percorso di istruzione superiore, che conoscano il tedesco e siano autorizzate a lavorare in Austria. Anche nel caso austriaco, il 78% dei disoccupati nel paese cerca lavoro tramite contatti personali, una dinamica analoga a quella italiana. Pur trattandosi di un programma limitato e destinato a categorie specifiche di migranti, senza toccare il tema della migrazione irregolare o stagionale, iniziative simili potrebbero essere realizzate anche in Italia.

La lingua

Un altro ostacolo è la difficoltà nel parlare e capire l’italiano. L’economista americano Barry Chiswick  è stato tra i primi a studiare l’effetto della conoscenza della lingua del Paese di destinazione sugli stipendi delle persone straniere. Diversi studi mostrano che la mancata conoscenza della lingua del Paese in cui si vive riduce in modo significativo le possibilità occupazionali e lo stipendio atteso (come evidenziato, ad esempio, nei Paesi Bassi e in Australia). In Italia, uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Perugia e di Roma Tre ha stimato una riduzione del salario di circa il 20%, che sale al 25% per gli uomini. Inoltre, uno studio Ocse del 2020 mostra come, nei paesi sviluppati, chi non parla la lingua del Paese in cui lavora ha il 17% di probabilità in più di ottenere un lavoro al di sotto delle sue qualifiche e competenze.

Alcuni Paesi Ocse facilitano l’apprendimento della lingua organizzando o finanziando corsi di lingua. Per esempio (questi e altri esempi sono riportati nell’International Migration Outlook 2024 dell’Ocse), in Svezia una politica simile è specificatamente dedicata alle persone che lavorano nella cura degli anziani. In Lituania, persone provenienti da paesi extra-UE possono richiedere di partecipare ai corsi di apprendimento della lingua lituana organizzati dai servizi per l’impiego, se il loro permesso di soggiorno nel Paese resta valido per almeno dodici mesi.

In Italia la direzione sembra confusa. Per esempio, da un lato, si promuovono politiche di inclusione linguistica nelle scuole, dall’altro si riducono le risorse per i corsi di italiano per gli adulti. Un passo nella giusta direzione è stato l’introduzione nel luglio 2024 di un docente di italiano per stranieri nelle classi delle scuole secondarie con almeno il 20% di studenti stranieri (che sono entrati per la prima volta nel sistema scolastico o che non hanno comunque raggiunto il livello A2 di italiano). Rispetto agli adulti, corsi di lingua italiana A1 e A2 gratuiti o facilmente accessibili per adulti stranieri vengono offerti dai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA). Tuttavia, è particolarmente pericolosa la decisione di rimuovere, con il Decreto Flussi del marzo 2023 (articolo 6-ter, Decreto-legge 20/2023), la somministrazione dei corsi di lingua italiana tra le prestazioni garantite nei centri migranti. Come evidenzia questo articolo di Gariwo Magazine, l’organizzazione dei corsi di italiano viene così lasciata interamente al terzo settore e ai cittadini che si mettono a disposizione. Questa situazione è preoccupante perché la disponibilità di corsi rischia di variare fortemente da un territorio all’altro, a seconda della presenza di associazioni e volontari. In questo modo si creano disuguaglianze nell’accesso all’apprendimento della lingua, con conseguenze dirette sui percorsi di integrazione.

Riconoscimento delle qualifiche

Infine, un ostacolo rilevante all’accesso a un’occupazione di qualità per le persone di origine straniera è la scarsa valorizzazione o il mancato riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali ottenute all’estero. Come evidenzia un recente studio dell’Ocse, in Italia circa l’8% di chi ha conseguito la propria qualifica più elevata in un Paese extra-UE considera questo aspetto il principale impedimento alla ricerca di lavoro. Sebbene la percentuale sia inferiore rispetto ad altri Paesi europei (20% in Francia, 35% in Germania e 20% in media nell’Unione Europea), tale differenza riflette anche la diversa composizione della popolazione straniera presente in Italia, dove la quota di persone con livelli di istruzione più alti è relativamente più ridotta.

Politiche ben progettate possono usare la leva del riconoscimento delle qualifiche per combattere la povertà lavorativa. Tuttavia, affinché la politica sia efficace deve permettere anche il riconoscimento di forme di istruzione professionali e competenze non certificate, ma acquisite sul lavoro. Per esempio, la Germania rimborsa fino a 600 € per sostenere le spese legate alle procedure di riconoscimento delle qualifiche professionali o dei titoli di studio esteri. Queste includono le procedure per la “skill analysis”, ovvero la certificazione di competenze professionali per le quali non è disponibile documentazione. In Italia, la certificazione delle competenze informali può avvenire tramite il Sistema Nazionale di Certificazione delle Competenze. Tuttavia, in alcune regioni (come la Sardegna, la Sicilia, le Marche e il Molise) i servizi non sono ancora attivi. Inoltre, non siamo a conoscenza di sussidi o incentivi per questo tipo di pratiche.

Le differenze occupazionali tra popolazione nativa e migrante: quali soluzioni?

Gli ultimi dati Istat mostrano una situazione chiara: in Italia il lavoro non rappresenta sempre una protezione dalla povertà. Questa condizione riguarda sia le persone native sia quelle straniere, ed è quindi un problema strutturale che interessa l’intero mercato del lavoro. Allo stesso tempo, però, emergono alcune differenze nelle cause. Per intervenire in modo efficace è utile distinguere quei fattori che colpiscono tutti dai fattori che incidono in modo più marcato sulla popolazione straniera. In particolare, la mancanza di reti sociali, le barriere linguistiche e il mancato riconoscimento delle qualifiche ottenute all’estero possono aggravare ulteriormente la condizione economica dei lavoratori stranieri.

Tra questi fattori, la mancanza di reti sociali rappresenta forse la barriera più pervasiva: impedisce l’accesso a informazioni, opportunità e sostegno reciproco, confinando molti migranti in circuiti lavorativi marginali. In questa prospettiva, misure che tendono a isolare i migranti, come quelle introdotte dai Decreti Sicurezza, rischiano di produrre l’effetto opposto, ostacolando l’integrazione e aggravando le disuguaglianze.

In generale, è importante evitare che le reti sociali di una persona migrante siano composte esclusivamente da altri arrivati nello stesso periodo, situazione che può verificarsi se le persone rimangono nei centri migranti per tempi prolungati. Per i neoarrivati, è infatti utile sviluppare sia reti con connazionali già presenti nel Paese da tempo, sia reti con persone italiane. Queste due tipologie di relazioni rispondono a esigenze differenti: le prime forniscono informazioni immediate utili per trovare rapidamente un’occupazione, mentre le seconde favoriscono un’integrazione più profonda e duratura, che può tradursi in lavori più qualificati e più in linea con le competenze possedute.

Tuttavia, implementare politiche volte a favorire la costruzione di reti sociali sia con connazionali sia con nativi può risultare particolarmente complesso. Ad esempio, le politiche di dispersione adottate in Danimarca hanno effetti incerti sulla condizione economica delle persone straniere e possono risultare potenzialmente discriminatorie. Così, un punto chiave consiste nel fare scelte oculate sul posizionamento dei centri migranti: è fondamentale collocarli in aree con basso tasso di disoccupazione e buoni collegamenti con il resto del Paese e con i centri urbani.