L’Italia senza reddito minimo universale
Il bilancio dell’Assegno di Inclusione realizzato da Caritas Italiana
Nunzia De Capite | 10 Novembre 2025
Con il passaggio dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione (Adi), il sistema di contrasto alla povertà in Italia ha subito una trasformazione profonda.
Nel solco del lavoro decennale di monitoraggio delle politiche contro la povertà che Caritas Italiana realizza dal 2014, si è voluto indagare su alcuni degli aspetti della riforma del 2023. Alcune domande hanno animato il lavoro di studio e ricerca condotto da Caritas Italiana: quante persone sono rimaste prive di un supporto pubblico in questo passaggio? E chi sono costoro? Come tutto questo si riflette? Che impatto hanno avuto queste misure sul lavoro degli operatori dei servizi sociali e sull’operato quotidiano delle Caritas che intercettano e si fanno carico delle situazioni di bisogno delle persone sui territori? Alla luce di questo cambiamento come si colloca l’Italia rispetto al resto d’Europa? E infine quali prospettive si delineano all’orizzonte per garantire un aiuto adeguato alle persone in povertà oggi nel nostro Paese?
Il Rapporto Caritas Italiana 2025 Assegno di inclusione. Un primo bilancio tra dati, esperienze e possibili scenari futuri analizza dati, testimonianze e ricadute del nuovo impianto di welfare, restituendo una fotografia nitida delle trasformazioni in corso e delle loro conseguenze sulla povertà.
Dall’universalismo selettivo alla logica categoriale
L’introduzione dell’Adi e del Supporto Formazione Lavoro (SFL) nel 2023 non è consistita sono nella sostituzione di uno strumento con un altro: ha modificato la filosofia di fondo del sostegno alla povertà, spostando il baricentro da un principio di universalismo selettivo – cioè di accesso per chiunque si trovi al di sotto di una determinata soglia di reddito – a una logica categoriale, che vincola l’accesso alla presenza di specifiche caratteristiche all’interno del nucleo familiare.
Possono infatti accedere all’Adi soltanto i nuclei con minori, persone con disabilità, anziani o componenti inseriti in percorsi socio-sanitari certificati. Gli adulti tra i 18 e i 59 anni senza tali requisiti vengono invece considerati “occupabili” e destinati al SFL, un sostegno economico temporaneo (500 euro mensili per un massimo di 12 mesi) subordinato alla partecipazione a corsi di reinserimento lavorativo.
Questa scelta ha avuto conseguenze immediate sulla platea dei beneficiari, ma sta anche generando impatti sul lavoro degli operatori sociali pubblici e sulla rete di aiuto delle Caritas, e sulla percezione che di sé hanno le persone che sono rimaste escluse dagli aiuti pubblici e coloro che, pur ricevendo un sostegno pubblico, incontrano comunque difficoltà nel far fronte ai bisogni quotidiani essenziali.
Una misura che privilegia la famiglia, ma non i poveri
Le analisi condotte da Caritas Italiana e da altri istituti di ricerca mostrano come la riforma non abbia rafforzato il sostegno alle persone in povertà assoluta, ma abbia invece ridefinito le priorità, privilegiando i carichi di cura familiari rispetto alla condizione economica.
L’obiettivo dell’Adi non è più garantire un reddito minimo alle persone povere in quanto tali, bensì tutelare nuclei familiari considerati meritevoli di protezione (con figli, disabili o anziani). Il risultato è stato un ridimensionamento netto della platea dei beneficiari: tra il 40% e il 47% degli ex percettori del Reddito di Cittadinanza non ha più diritto all’Adi.
L’effetto redistributivo appare poi contenuto: l’incidenza delle povertà assoluta, secondo le simulazioni, si riduce solo dall’8,9% all’8,3%. Si accentuano inoltre gli squilibri territoriali che già erano emersi con il Reddito di Cittadinanza: circa il 69% dei beneficiari risiede nel Mezzogiorno, dove tuttavia la quota di poveri assoluti è inferiore rispetto al Nord, che concentra il 45% dei poveri ma solo il 15% dei beneficiari.
A risultare maggiormente penalizzate sono le famiglie piccole, le persone sole, i lavoratori poveri, gli stranieri e le famiglie del Centro-Nord. Questa impostazione, di fatto, subordina la lotta alla povertà alle politiche familiari, con il rischio di compromettere il diritto universale all’assistenza, tutelato dall’articolo 3 della Costituzione.
L’Italia torna così a essere l’unico Paese europeo privo di una misura di reddito minimo garantito a tutte le persone povere, indipendentemente dalle caratteristiche familiari.
Gli stranieri: un’esclusione di fatto
Uno dei punti critici più evidenti riguarda la condizione degli stranieri. Tra il 2023 e il 2025 il numero dei beneficiari stranieri è diminuito del 40%, contro il -35% degli italiani. Pur avendo ridotto da dieci a cinque anni il requisito di residenza, la riforma ha introdotto una scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose senza carichi di cura – tipicamente straniere – annullando di fatto l’effetto inclusivo dell’allentamento.
In altre parole, si è passati da una esclusione basata su requisiti legali di residenza a una esclusione di fatto, generata dai criteri di accesso.
La rete Caritas come paracadute sociale
Caritas Italiana ha realizzato un approfondimento qualitativo per comprendere come la riforma sia stata attuata nei territori e come funzioni concretamente l’Adi.
L’indagine ha coinvolto operatori e operatrici delle Caritas diocesane, attraverso tre focus group che hanno riunito complessivamente circa cinquanta partecipanti provenienti da diverse Regioni italiane.
Nuove esclusioni e fragilità in aumento
Le testimonianze raccolte mostrano come la riforma abbia prodotto nuove sacche di esclusione. “In molti territori la copertura è scesa dal 60% al 40% delle famiglie seguite: circa un 20% che prima riceveva sostegno ora non ha più nulla”.
A risultare più penalizzati sono gli adulti soli, le persone con invalidità medio-grave, i nuclei senza minori o disabili e gli stranieri con documentazione incompleta o in corso di rinnovo. Costoro “sono arrabbiatissimi perché si vedono tagliati fuori dalla burocrazia”, racconta un operatore.
Il venir meno del Reddito di Cittadinanza ha dunque aperto un vuoto di protezione che si è riversato sui servizi ecclesiali e sociali locali.
Un ritorno ai bisogni primari
Quello che le Caritas osservano e vivono è il ritorno massiccio ai propri Centri da parte di persone e famiglie rimaste senza sostegno. “Persone che fino al 2023 contavano sul Reddito di Cittadinanza ora si riversano nuovamente nei centri Caritas”, con un aumento “esplosivo delle richieste di aiuto materiale”.
In molte Caritas si torna a rispondere a bisogni essenziali: alimenti, affitti, bollette, materiale scolastico. “È matematicamente impossibile vivere con 500 euro, anche in casa popolare, quando bisogna pagare utenze e tutto il resto”, afferma un’operatrice.
Accanto al disagio economico, cresce anche il disagio psicologico: “In diverse zone è cresciuta la domanda di supporto psicologico: c’è chi cade in depressione perché non sa come andare avanti; aumentano i casi di disagio mentale borderline”. Le Caritas che offrono sportelli di ascolto o consulenza “faticano a far fronte a tutti i casi”, con richieste “triplicate rispetto al periodo del RdC”.
Un welfare assistenziale
La rete Caritas si trova oggi a svolgere un ruolo di supplenza di ultima istanza. Le Caritas sono tornate a essere un presidio di prima linea, ma con il rischio di uno schiacciamento verso un’assistenza meramente materiale e burocratica.
Dall’accompagnamento educativo e relazionale (“trampolino sociale”) si rischia di scivolare verso il solo sostegno materiale e informativo. Il bilancio dei territori è quello di un sistema di welfare che, pur riorganizzando criteri e procedure, non ha rafforzato la protezione delle persone più povere. La conseguenza è che, in assenza di una rete pubblica capillare, la rete Caritas diventa di fatto un paracadute sociale.
Il Supporto Formazione Lavoro: un esperimento debole
Uno dei temi che è emerso con forza dai focus group realizzati è stato quello dell’efficacia del Supporto Formazione Lavoro. Gli operatori hanno tutti sottolineato come esso si è dimostrato, nei fatti, una misura di ridotta utilità finora.
Dalle indagini qualitative condotte sui territori emergono problemi legati al meccanismo di funzionamento della misura: i corsi di formazione sono pochi, non sono partiti in tempo, sono poco coerenti con il fabbisogno locale, di scarsa qualità o assenza di percorsi di inserimento stabile. Molti beneficiari lo percepiscono come un “mini-RdC”, utile solo per un breve periodo, senza reali prospettive occupazionali.
La conseguenza è una crescente sfiducia verso le politiche attive e una riduzione della motivazione tra le persone coinvolte. Le esperienze di tirocinio o lavori di pubblica utilità rimangono episodiche e non producono occupazione stabile.
Il lavoro sociale sotto pressione
Anche il lavoro degli assistenti sociali è stato fortemente condizionato dalla nuova architettura della misura.
L’impatto dell’Adi sul lavoro degli assistenti sociali è stato profondo e complesso. L’indagine condotta su una comunità di pratica di oltre 700 operatori – riuniti in una chat WhatsApp attiva dal 2023 al 2025 e analizzata attraverso una metodologia innovativa di tipo qualitativo e lessicometrico – offre un quadro vivido e realistico del modo in cui la misura è stata vissuta e interpretata nei servizi sociali. Dai 22.000 messaggi raccolti emerge una sorta di “diario collettivo” che racconta il lavoro quotidiano tra adempimenti, incertezze e strategie dal basso.
Il punto di vista degli assistenti sociali è quello di professionisti che cercano di dare senso a una misura percepita come frammentata e contraddittoria. La categorialità dell’Adi è la criticità più evidente: penetra in ogni fase del lavoro – dai criteri di accesso alla definizione degli obblighi – e lascia scoperte molte situazioni di povertà “non certificabile”. Come scrive una partecipante: “Ho in carico un uomo di 56 anni, senza invalidità, che vive in una cascina fatiscente: posso fargli un certificato di svantaggio per fargli prendere l’Adi?”.
A questo si aggiungono le difficoltà legate alle piattaforme informatiche, spesso bloccate o lente (“GePI è lenta come se non ci fosse un domani”), che trasformano il lavoro in una corsa a ostacoli, e un monitoraggio che tende a ridursi a un adempimento burocratico più che a un’occasione di revisione reale dei percorsi.
Gli operatori segnalano inoltre due fragilità di sistema: la disomogeneità territoriale, che genera trattamenti diversi da Comune a Comune, e la perdita di autonomia professionale, perché l’Adi impone procedure rigide e una “cultura del controllo” che limita la valutazione personalizzata dei bisogni.
Eppure, in questo contesto, emerge anche la forza del loro impegno: nonostante vincoli e incertezze, gli assistenti sociali difendono la relazione e la progettualità come cuore dell’intervento sociale, cercando di mantenere la dimensione umana e di accompagnamento che dà senso al loro lavoro.
L’Italia nel contesto europeo
L’Italia risulta più restrittiva e selettiva rispetto al resto d’Europa nelle politiche di reddito minimo. Mentre altri Paesi – come Germania, Spagna e Bulgaria – hanno rafforzato i propri sistemi rendendoli più inclusivi, generosi e aggiornati al costo della vita, la riforma italiana del 2023 con l’introduzione dell’Adi ha segnato un passo indietro: la platea dei beneficiari si è ridotta e i criteri di accesso sono diventati più rigidi, escludendo intere fasce di persone povere considerate “occupabili”.
In contrasto con il principio europeo dell’universalismo selettivo, l’Italia è oggi l’unico Paese che limita il sostegno solo a determinate categorie (famiglie con minori, disabili o anziani), lasciando senza tutela molti nuclei vulnerabili, inclusi i working poor, risultando essere più distante dagli obiettivi della Raccomandazione UE del 2023, che invita a garantire redditi minimi adeguati, accessibili e integrati, evidenziando l’urgenza di riallineare le politiche nazionali ai principi europei di dignità, equità e inclusione.
Verso una nuova strategia di contrasto alla povertà
Gli stessi operatori e operatrici che hanno partecipato alla rilevazione hanno lucidamente individuato una serie di pilastri che dovrebbero caratterizzare l’intervento pubblico sulla povertà:
- Un reddito minimo universale, garantito a tutte le persone e famiglie in povertà, indipendentemente da età, cittadinanza o composizione familiare;
- Accessibilità e informazione diffusa, per ridurre il non take-up attraverso sportelli territoriali unici e campagne multilingue;
- Semplificazione digitale e accompagnamento umano, con operatori formati e procedure uniformi tra INPS, Comuni e servizi sociali per evitare discrezionalità;
- Presa in carico multidisciplinare, con équipe integrate di assistenti sociali, educatori, psicologi e mediatori culturali e associazioni del territorio che si occupano di povertà;
- Cumulabilità tra reddito minimo e redditi da lavoro, per favorire transizioni occupazionali sicure e la creazione di una base per conquistare l’autonomia economica;
- Politiche attive radicate nei territori, che partano dai bisogni occupazionali dei territori e che devono essere elaborate in collaborazione con imprese, cooperative e terzo settore, per un’inclusione lavorativa stabile e dignitosa.
Conclusione
La riforma del 2023 ha ridisegnato la geografia del welfare italiano, ma ha anche riaperto la questione del diritto universale all’assistenza. Le evidenze raccolte da Caritas Italiana mostrano che una parte consistente della popolazione povera è oggi priva di tutela pubblica.
Rimettere al centro il principio di universalità, semplificare l’accesso e integrare politiche sociali e del lavoro non è solo una scelta tecnica, ma una questione di giustizia. E va affrontata subito.