Violenza di genere e migrazione: quando le politiche riproducono esclusione


Rosa GattiArmando Vittoria | 6 Agosto 2025

La pandemia da COVID-19 ha determinato un significativo aumento della violenza contro le donne (d’ora in poi VAW, acronimo di violence against women) e della violenza di genere (d’ora in poi GBV, acronimo di gender-based violence) (WHO, 2020), evidenziando il legame tra difficoltà economiche e vulnerabilità sociale, in particolare per donne migranti e richiedenti asilo. Le restrizioni fisiche hanno accentuato la violenza domestica, mentre i meccanismi di protezione, come rifugi e linee di emergenza, si sono dimostrati insufficienti. Per rispondere efficacemente a questa crisi, gli Stati hanno adottato una duplice strategia: la criminalizzazione della violenza e l’attuazione di politiche di prevenzione adeguatamente finanziate. Se, da un lato, la riduzione delle politiche nazionali di welfare incide negativamente sulle risposte alla violenza contro le donne, dall’altro misure di protezione sociale mirate emergono come un possibile approccio efficace per la prevenzione e la risposta alla GBV.

Guardando all’Italia, la pandemia da COVID-19 ha amplificato le disuguaglianze sociopolitiche, accentuando il divario di genere e la vulnerabilità delle donne – in particolare quelle migranti – alla violenza di genere (GBV). Le politiche restrittive in materia di immigrazione e le protezioni inadeguate hanno contribuito a rendere questo gruppo particolarmente esposto ai rischi di violenza sessuale e domestica. Dopo il 2020, le segnalazioni di violenza e molestia contro le donne sono aumentate e il rapporto tra la violenza subita dalle donne autoctone e dalle donne straniere è più che raddoppiato, colpendo particolarmente queste ultime.

Al tempo stesso, la crisi ha anche stimolato un ripensamento dell’approccio al contrasto alla GBV, in particolare alla violenza domestica, stimolando l’introduzione di nuove misure. In Italia questo è stato il caso del Reddito di Libertà (RDL), mirato alla fuoriuscita delle donne vittime di violenza domestica dal domicilio condiviso col partner violento e basata sul cash benefit. Sebbene questa iniziativa abbia segnato un cambiamento significativo nel panorama nazionale, essa si è rivelata – come vedremo – una misura insufficiente ad affrontare il problema della GBV in Italia.

Riprendendo i risultati delle nostre analisi (Gatti, Perna e Vittoria, 2023; Gatti, Vittoria 2025), questo contributo si focalizza sui primi quattro anni di attuazione del Reddito di Libertà (RDL) evidenziando come esso ha rappresentato principalmente una misura emergenziale legata alla pandemia, piuttosto che un intervento strutturale contro la violenza di genere (GBV). I finanziamenti insufficienti ne hanno limitato l’efficacia, rendendo la sua applicazione disomogenea tra donne italiane e donne migranti. Le politiche anti-immigrazione e le strutture patriarcali, infatti, acuiscono la vulnerabilità delle donne migranti. L’esclusione dal RDL a carico delle donne straniere colpite da GBV rischia di ampliare il divario di genere su base etnico-nazionale.

Le analisi condotte su dati quantitativi provenienti da fonti ufficiali (ISTAT, INPS, ISTAT-Minint) evidenziano che il RDL opera come una politica ‘sentinella’, rispondendo in modo limitato alle esigenze delle vittime, e mostrano anche un problema di progettazione della misura, che non si adatta alle specifiche necessità delle donne immigrate.

Violenza di genere (GBV), violenza nelle relazioni di intimità (IPV) e migrazione

L’Unione Europea e il Consiglio d’Europa hanno riconosciuto le sfide specifiche della violenza di genere (GBV) che colpisce le donne migranti, il cui status migratorio ne modella direttamente l’esperienza. La letteratura scientifica sottolinea che la migrazione può essere sia causa che conseguenza della GBV. Le donne migrano spesso per sottrarsi a violenze sistemiche — come persecuzioni, matrimoni forzati, mutilazioni genitali o abusi domestici — ma continuano ad affrontare rischi durante il viaggio e dopo l’arrivo. La classificazione amministrativa dei migranti in categorie giuridiche crea rapporti di subordinazione che rafforzano la vulnerabilità delle persone più marginalizzate. Le politiche di frontiera e sicurezza, adottate dai governi nazionali e dall’UE, sono intrise di disuguaglianze intersezionali (di genere, etnia, nazionalità, religione) e rispecchiano strutture ereditate da una lunga storia coloniale. Sebbene formalmente fondate sulla Convenzione di Ginevra, le misure attuate discriminano richiedenti asilo e rifugiati secondo criteri etnico-nazionali, religiosi e di genere. Le donne migranti, specialmente quelle in situazioni irregolari, affrontano elevati rischi di violenza sessuale e strutturale, alimentata da sistemi patriarcali. Stati e comunità ospitanti contribuiscono a creare contesti istituzionali e culturali che favoriscono la perpetuazione della violenza. Le crisi geopolitiche (es. pandemia da Covid-19 e guerra in Ucraina) evidenziano disparità nei regimi di accoglienza, che si basano su relazioni selettive e logiche eurocentriche. Tali politiche generano un continuum di disuguaglianza intersezionale, variabile in base al contesto. Il dibattito pubblico tende a “culturalizzare” la violenza, focalizzandosi su dinamiche interne alle comunità migranti e oscurando la violenza domestica perpetrata da uomini autoctoni. Le donne migranti vengono spesso rappresentate come figure passive e omogenee, intrappolate in culture patriarcali, mentre le cause strutturali della violenza vengono invisibilizzate. Anche nella ricerca accademica si riscontra un gap conoscitivo: infatti, la violenza domestica in contesti post-arrivo riceve meno attenzione rispetto ai fenomeni della tratta o della violenza collegata alla migrazione forzata.

Le nostre analisi tentano di colmare almeno in parte questo gap, concentrandosi sul fenomeno della violenza sulle donne sia autoctone che straniere da parte di partner intimi.

L’impatto diseguale della pandemia sulla violenza di genere e i limiti delle politiche

Nonostante l’eliminazione della violenza contro le donne sia un obiettivo dichiarato dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile, la pandemia da Covid-19 ha evidenziato il fallimento delle politiche di contrasto, sia a livello italiano che internazionale, nonostante le diverse risposte di policy adottate dai Paesi (Gatti-Vittoria, 2025, pp. 182-183).

Con riferimento al caso italiano, la pandemia ha ulteriormente messo in luce l’incoerenza del ciclo di politiche antiviolenza, sia in termini di iniziative legislative che di priorità dell’agenda sociale. Dal punto di vista del sistema complessivo di risposta – istituzionale e di politiche pubbliche – al fenomeno della violenza sulle donne, il welfare italiano – di tipo familistico e patriarcale – unitamente ad un regime di policy migratorio restrittivo, favorisce l’innalzarsi di ulteriori barriere per la protezione delle donne migranti. A questo quadro si aggiungono anche politiche di ricongiungimento familiare che contribuiscono a rafforzare la dipendenza delle donne migranti dai partner, limitandone l’autonomia e ostacolando la loro fuoriuscita dalla violenza.

In questo quadro, il Reddito di Libertà è stato istituito dal governo Conte II in risposta all’emergenza pandemica. Approvato nel dicembre 2020 e implementato nel 2021 con il governo Draghi, il RDL era pensato come una misura di sostegno che prevedeva l’erogazione di un contributo economico di 400 euro mensili, per un massimo di 12 mesi, destinato a sostenere l’autonomia abitativa delle donne che intendessero sottrarsi a situazioni di violenza domestica. La misura era riservata a donne tra i 18 e i 67 anni, sia italiane che straniere in possesso di regolare permesso di soggiorno, ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 251/2007. Il finanziamento complessivo – negli anni qui considerati – è stato di 3 milioni di euro nel 2021 e 9 milioni nel 2022, corrispondenti a circa 2.400 beneficiarie, a fronte delle oltre 34.396 denunce di violenza nel periodo 2020 – 2022, di cui 8.476 da parte di donne straniere (ISTAT-Minint 2023).

Pur pensata come strumento di sostegno, i vincoli di residenza e i requisiti burocratici richiesti hanno finito per escludere molte beneficiarie potenziali – donne migranti senza permesso di soggiorno – mostrando i limiti strutturali della sua progettazione e accessibilità.

La ricerca sulla violenza domestica nei confronti delle donne migranti è ancora insufficiente e gli studi esistenti rilevano gravi carenze nella programmazione degli interventi e nei servizi sociosanitari territoriali. Lo status giuridico condiziona in modo significativo la possibilità di sottrarsi alla violenza: le donne con permessi regolari hanno accesso a maggiori risorse, mentre le donne prive di documenti incontrano ostacoli strutturali nei servizi di protezione. L’accesso ai servizi segue una logica di esclusione fondata sulla cittadinanza e sulla residenza, lasciando escluse le donne con status irregolare. La presa in carico delle vittime straniere è compromessa, in particolare a seguito delle misure restrittive introdotte dai decreti Salvini. Pur con il supporto occasionale di attori della società civile, le misure istituzionali (come il RDL) continuano a escludere le donne prive di documenti, sia per vincoli normativi sia per carenza di risorse.

In mancanza di dati sulle vittime irregolari, le nostre analisi si sono concentrate sulle donne con permesso regolare, interrogandosi sulla capacità effettiva della misura di colmare le disuguaglianze oppure di riprodurle, contribuendo di fatto ad ampliare il divario di genere etnico-nazionale.

Tra dicembre 2021 e aprile 2023, sono state presentate 5.039 domande di accesso al Reddito di Libertà, ma solo il 53% (2.673) è stato accolto (INPS 2022; INPS 2023). L’efficacia della misura risulta limitata non solo dalla copertura, ma anche dal basso livello di utilizzo. A fronte di una media annuale di 17.198 denunce di violenza da partner (IPV) tra il 2020 e il 2022 (ISTAT-Minint 2023), il RDL ha raggiunto appena il 29,3% del target sociale stimato. Se si considera invece il numero stimato di vittime effettive nello stesso periodo (1.862.370), l’impatto della misura si riduce allo 0,002% della popolazione potenziale. Pur considerata una politica ‘sentinella’, questi dati ne evidenziano i limiti strutturali, accentuati dalle diseguaglianze territoriali legate alle differenze nella governance locale e nei sistemi di welfare regionali. Tra le quattro regioni con più alta prevalenza di IPV (Basilicata, Emilia-Romagna, Molise e Sicilia), solo l’Emilia-Romagna presenta livelli elevati di applicazione della misura (Gatti e Vittoria, 2025), distinguendosi per una gestione locale efficace e per un minor divario burocratico nell’accesso alla misura da parte delle donne immigrate, rispetto ad altre aree del Paese. Questo dato conferma l’ipotesi che, al di là della impostazione normativa della misura, le condizioni locali e la capacità amministrativa territoriale contribuiscono significativamente a determinarne l’effettiva applicazione.

Una inclusione selettiva: i limiti del Reddito di Libertà

Nonostante i progressi nella prevenzione della violenza contro le donne, le risposte istituzionali rimangono insufficienti, in particolare per i gruppi sociali più vulnerabili. Le donne migranti, soggette a discriminazioni intersezionali, accedono con maggiore difficoltà alle misure di protezione, ottenendo benefici inferiori rispetto alle donne italiane. Il quadro politico italiano e il sistema istituzionale antiviolenza si rivelano inadatti a rispondere alla complessità del fenomeno. La misura RDL, nata in emergenza pandemica, avrebbe potuto rappresentare un’opportunità se finanziata, resa strutturale e inclusiva. Tuttavia, la sua inefficacia è riconducibile a problemi di accessibilità, selettività burocratica e soprattutto all’esclusione delle donne migranti in condizione di irregolarità dalla progettazione dell’attuazione. L’assenza di residenza legale rappresenta una barriera strutturale che le pone al di fuori del campo di applicazione. I dati del triennio 2021–2023 mostrano che la RDL ha escluso una parte consistente delle donne migranti vittime di IPV e GBV.

La misura del Reddito di Libertà, pensata come supporto economico per le vittime di violenza, opera di fatto come dispositivo selettivo, alimentando meccanismi di esclusione sistemica e riflettendo — seppur in modo non intenzionale — dinamiche patriarcali e razziste radicate e intrecciando il contrasto alla violenza di genere con logiche di controllo delle frontiere e della cittadinanza.

Le nostre analisi evidenziano che le politiche di contrasto alla violenza di genere non possono essere efficacemente progettate né attuate senza tener conto della complessità intersezionale del fenomeno. La violenza contro le donne è infatti plasmata da una molteplicità di fattori—istituzionali, culturali, etnici, economici e giuridici—che si intrecciano e ne influenzano la manifestazione, la rilevazione e la prevenzione. Pertanto, riteniamo sia necessario rivedere le politiche antiviolenza in chiave intersezionale, riconoscendo come genere, etnia, classe e status giuridico si sovrappongano nel determinare il rischio di esclusione e la difficoltà di accesso ai diritti. Una chiara ed esplicita visione intersezionale dovrebbe guidare l’intera fase di formulazione delle politiche antiviolenza, promuovendo strumenti che garantiscano protezione anche alle donne migranti in condizioni di irregolarità giuridica. Senza questa riconfigurazione, il rischio è quello di perpetuare una violenza istituzionale che esclude sistematicamente le soggettività più vulnerabili dalla tutela e dai percorsi di fuoriuscita.

Nonostante le sue criticità, il caso italiano offre spunti interessanti per approfondire l’intersezione tra violenza di genere (GBV) e migrazione nell’Europa meridionale, evidenziando debolezze sistemiche nella risposta istituzionale alla violenza di genere. Il nostro lavoro evidenzia la necessità di politiche più inclusive ed efficaci, invitando ad includere una prospettiva intersezionale nel disegno delle politiche di contrasto alla violenza di genere.