Vogliamo braccia, ma non persone

Il decreto flussi 2026-2028 e i suoi limiti


Maurizio Ambrosini | 6 Ottobre 2025

Se ne è parlato poco, ma a inizio settembre il governo Meloni ha varato un documento di grande importanza per leggere le politiche migratorie effettive, al di là di quelle dichiarate a gran voce: il decreto-flussi che disciplina i nuovi ingressi per lavoro per il triennio 2026-2028. In questo contributo intendo analizzarne il significato, la portata e le contraddizioni.

Serve manodopera

Per circa vent’anni, tra la caduta della cortina di ferro e la crisi pandemica, l’immigrazione dai nuovi Stati membri dell’Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – ammessi nel giro di alcuni anni alla piena libertà di movimento all’interno dell’Unione–, ha soddisfatto gran parte della domanda di manodopera dei Paesi della UE a 15, Italia compresa.  Nel nostro paese i rumeni, con 1,1 milioni di residenti, sono di gran lunga la più numerosa nazionalità immigrata.

Da qualche tempo però, nel contesto post-pandemico, i datori di lavoro un po’ ovunque nell’Europa occidentale lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno: non solo tecnici qualificati e professionisti di settori critici, come quello sanitario, o lavoratori stagionali per le campagne, ma normali lavoratori manuali per una lista di settori e occupazioni sempre più lunga. Dall’Est dell’Europa non arrivano più candidati in numero sufficiente. Molti lavoratori sono già arrivati negli anni scorsi, depauperando il mercato del lavoro dei paesi di origine. Altri non si spostano più, perché ormai riescono a trovare occupazioni dignitose in patria, senza dover emigrare. Anzi, la Polonia è diventata importatrice di braccia dai paesi vicini, come pure in certa misura dall’Asia, e persino i profughi ucraini stanno diventando una risorsa. La Romania ne sta seguendo le orme. Da questi paesi, salvo cataclismi economici o bellici, non c’è più da aspettarsi granché, in termini di braccia per i mercati del lavoro dell’Europa occidentale.

I governi europei stanno così tornando a essere “importatori riluttanti” di manodopera immigrata da Paesi terzi. Assistiamo quindi al paradosso di istituzioni europee e governi nazionali che tuonano con enfasi crescente contro i profughi e i loro arrivi spontanei, come se non si trattasse di persone atte al lavoro, mentre con qualche distinguo e pretesa di controllo aprono le porte ai potenziali lavoratori, come se questi non andassero poi a ingrossare le fila delle popolazioni insediate nelle vere o immaginarie banlieue delle loro città,  alimentando le paure dei loro elettori.

Il decreto-flussi 2026-2028

I decreti-flussi del governo italiano entrano a pieno titolo nel paradosso europeo, ma con maggiore clamore,  sia per il grande risalto delle misure di contrasto contro gli ingressi dei rifugiati, sia per i numeri senza precedenti dei lavoratori ammessi: 450.000 nel triennio 2023-2025, 497.500 (a quanto sembra, il governo non ha voluto arrivare alla cifra tonda) nel triennio 2026-2028. Oltre a questi, potranno entrare i lavoratori che hanno seguito in patria corsi di formazione promossi da istituzioni italiane e, nell’ultima versione, assistenti familiari di anziani ultra-ottantenni e di persone con disabilità certificata: le cosiddette badanti.

Non può sfuggire la distanza dai discorsi governativi che in ogni sede, compresa la recente assemblea generale dell’ONU (settembre 2025) denunciano la pericolosità dell’immigrazione. Si può parlare di paradosso del populismo illiberale:  alle campagne contro l’invasione si combina l’attrazione di lavoratori. Le chiusure gridate contrastano con le aperture tenute discretamente ai margini del dibattito pubblico. E non basta, a superare il paradosso, dichiarare “li vogliamo scegliere noi”, o “non vogliamo che li scelgano gli scafisti”. Quella della capacità di scegliere  chi far entrare è una mera illusione. I datori di lavoro non hanno nessuno strumento per selezionare un lavoratore oggi residente sulla sponda Sud del Mediterraneo, o un’assistente familiare proveniente dall’America latina. I casi sono due. Nel primo caso questi lavoratori sono già qui e lavorano in nero presso lo stesso datore di lavoro che dichiara di avere scelto proprio loro, tra migliaia di potenziali candidati: in questo frangente il decreto-flussi innesca una tortuosa messinscena per regolarizzarli (negli scorso anni di solito accadeva così).  Nel secondo caso i datori si devono affidare a qualche intermediario. Entrano in gioco di solito i parenti già insediati in Italia, magari occupati presso la stessa azienda o, se donne da assumere per compiti assistenziali, presso una famiglia amica. Talvolta entrano in scena mediatori capaci di organizzare gli arrivi, facendosi pagare dai candidati.

Resta comunque pubblicamente attestato che il governo, pressato dalle organizzazioni datoriali, è costretto ad ammettere che i nuovi arrivi sono necessari, pur continuando a insistere sulla lotta contro i trafficanti e gli arrivi non autorizzati, nonché sulla cooperazione con i Paesi africani per frenare i transiti e se possibile le partenze. Le aperture del decreto-flussi si rivolgono principalmente ai lavoratori stagionali, ma prevedono dopo alcuni anni la possibilità di una stabilizzazione. E un numero d’ingressi di poco inferiore  si riferisce a soggiornanti stabili, oltre ai lavoratori “fuori quota” già menzionati (tab.1).

Tabella 1. Quote di nuovi ingressi previsti dal decreto-flussi 2026-2028

Anno

Totale quote

Lavoro subordinato non stagionale

Lavoro stagionale

Lavoro autonomo

Riserve speciali (rifugiati, discendenti di emigranti, assistenza)

2026

164.850

76.200

88.000

650

13.970

2027

165.850

76.200

89.000

650

14.370

2028

166.850

76.200

90.000

650

14.570

La trappola delle procedure

Una volta riconosciuti i fabbisogni di manodopera, si pone il problema di dotare i datori di lavoro dei lavoratori richiesti in tempi ragionevoli e con procedure non soffocanti. Qui  si rendono evidenti i limiti dell’impostazione adottata, che hanno fin qui condizionato i propositi di apertura.  Il percorso previsto, derivante ancora dalla legge Bossi-Fini vecchia di oltre vent’anni, non ha mai funzionato. Il governo italiano ha riformato più volte i meccanismi, ma non è riuscito a rendere il sistema delle chiamate tempestivo, efficiente e trasparente. Prima di tutto non ha voluto rinunciare, nemmeno nell’ultima versione del decreto-flussi,  alla grottesca lotteria dei click-day:  un sistema unico in Europa, in cui connessione internet, rapidità d’accesso o semplice fortuna determinano l’esito delle domande.

Il persistente condizionamento delle istanze securitarie, inoltre, determina una gerarchia dei Paesi di provenienza fondata sulla collaborazione (teorica) nei rimpatri, più che sulle competenze professionali: le quote d’ingresso, infatti, vengono scambiate con la disponibilità a riaccogliere gli immigrati espulsi dal nostro paese. Fatto ancora più grave, sottopone datori e candidati  a lunghe ed estenuanti trafile amministrative, con il coinvolgimento dei consolati italiani nei paesi di origine. Il risultato è che i lavoratori non arrivano, o non arrivano quando servirebbero, mentre la tempestività è essenziale, soprattutto per le occupazioni stagionali che assorbono la maggioranza delle quote d’ingresso: agricoltura, industria turistica ed edilizia. Per di più, il sistema è congegnato in modo tale da lasciare spazio a falsi imprenditori, che scompaiono nel nulla al momento di andare a firmare il contratto di lavoro in Prefettura,  e contratti fittizi, con cui finti  imprenditori fingono di assumere gli aspiranti immigrati, dietro pagamento.

Il governo ha trasformato la scoperta di queste storture in arma di propaganda, imponendo nuove verifiche e rallentamenti. Da alcuni Paesi (Bangladesh, Pakistan e Sri-Lanka) lo scorso anno i permessi sono stati bloccati per mesi. Nel 2024, secondo la campagna “Ero straniero”, soltanto un misero 7,8% delle quote previste si è tradotto in impieghi effettivi, la metà rispetto al già basso dato del 2023. A risolvere le criticità non è bastato neppure il maggiore coinvolgimento delle associazioni datoriali, caricate anzi di compiti impropri di vigilanza.

Oltre i cancelli delle aziende

Malgrado i limiti qui richiamati, la politica di apertura verso i lavoratori potrebbe rappresentare uno dei pochi terreni d’intesa tra forze politiche che sull’immigrazione appaiono radicalmente polarizzate.

I decreti-flussi hanno però un serio limite: parlano solo di lavoratori, dando l’impressione di dimenticare – come nella Svizzera o nella Germania degli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo – che insieme alle braccia arrivano le persone, con le loro istanze incomprimibili e riconosciute dalle leggi. La principale è quella relativa al ricongiungimento familiare. A dispetto della pretesa volontà di promuovere un’immigrazione integrata, il governo Meloni ha agito in senso contrario, raddoppiando i tempi necessari, da uno a due anni, per presentare la domanda di ricongiungimento, a prescindere dalle condizioni di reddito e comfort abitativo da rispettare. Un lavoratore che la sera torna a casa dalla propria famiglia vive normalmente una vita più serena, regolare e quindi integrata di un lavoratore solo e infelice. Comportamenti come ubriachezza, risse, schiamazzi, consumo di sostanze psicotrope, ricorso alla prostituzione, sono contrastati dalla vita familiare.

Oltre alla possibilità di vivere in famiglia, un’altra esigenza basilare e storicamente ricorrente delle minoranze immigrate riguarda la libertà di culto. Anche su questo terreno, le politiche governative, e ancor più quelle degli enti locali che riproducono la stessa maggioranza, hanno operato per contrastare l’insediamento di religioni sgradite. L’Islam in primo piano. Oggi in Italia solo una modesta frazione delle sale di preghiera musulmane sono ufficialmente autorizzate, la grande maggioranza dei luoghi di culto mussulmani sono semi-clandestini o precariamente configurati come centri culturali, sempre a rischio di chiusura per lo svolgimento di attività religiose non autorizzate. L’Islam, pur essendo da tempo la seconda religione del nostro paese,  non beneficia di un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato italiano, che darebbe luogo a un accordo in cui fissare diritti e doveri reciproci.

L’idea di attrarre lavoratori senza riconoscere i loro diritti come persone, ammesso che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, non prepara un futuro sereno per i rapporti tra la nostra società e quegli immigrati di cui oggi finalmente riconosciamo di avere bisogno.