Sui molti NO alla Cittadinanza


Maurizio Ambrosini | 13 Giugno 2025

L’esito del referendum sulla riduzione dei tempi di accesso alla cittadinanza dice qualcosa d’importante sulla società italiana contemporanea, e non sono buone notizie. Anzitutto, anche tra i votanti, è passata l’idea distorta che i promotori volessero promuovere una cittadinanza facile, come se non rimanessero in vigore i requisiti della fedina penale pulita, dell’osservanza degli obblighi fiscali e della conoscenza dell’italiano. Il fronte del SI è stato svantaggiato dal poco spazio offerto da radio e TV per spiegare i contenuti del referendum, ma anche dal fatto che molti elettori sono propensi a credere alle campagne disinformative dei troll sovranisti: si sono espressi, mediante l’astensione o il NO, su un’invasione che non c’è. La maggior parte degli italiani non sanno che l’immigrazione è sostanzialmente stazionaria da 15 anni, che è prevalentemente femminile ed europea, e che viene in maggioranza da paesi di tradizione culturale cristiana. Si sono pronunciati su una percezione di insicurezza e disordine. Il rifiuto della cittadinanza è stato un rifiuto dell’immigrazione, e questo a sua volta è un respingimento della povertà visibile e disturbante. Mentre ci sono remore a biasimarla quando si tratta della povertà degli italiani, le resistenze morali si abbassano quando si può pensare che la povertà venga da fuori, dal Sud del mondo,  e che negando accesso e diritti si possa esorcizzarla.

Una seconda riflessione riguarda il fatto che circa un terzo dei votanti ha dissociato il SI ai referendum presentati e vissuti come una riaffermazione dei diritti dei lavoratori dal voto al quesito sulla cittadinanza. Dalle prime analisi emerge che il fenomeno ha coinvolto in particolare l’elettorato vicino al M5S, ma non si è di certo fermato lì. Ha rivelato il riemergere del fiume carsico della xenofobia di sinistra, quella per esempio dei sindacati che nel Centro e Nord Europa osteggiavano l’arrivo degli emigranti italiani. Ne ha parlato pochi giorni prima del voto un bel documentario, “La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri”, del regista svizzero-iracheno Samir. La contrapposizione tra ultimi e penultimi sembra oggi erodere la solidarietà tra le classi popolari, alimentata anch’essa dalla propaganda secondo cui se mancano le case o le cure mediche la colpa è degli immigrati, che avrebbero troppi diritti.

L’idea di diritti differenziati, di una superiorità sociale da preservare, di una cittadinanza limitata e condizionata per gli immigrati si traduce nell’idea di un’integrazione subalterna. Gli immigrati sono necessari, ma non accolti. Richiesti, ma tenuti ai margini. Il loro lavoro serve (2,4 milioni di occupati regolari, e altri ne occorrerebbero), non solo alle imprese ma anche alle famiglie: il 70% delle collaboratrici e assistenti familiari sono straniere. Ma quanto a riconoscere pari diritti, il passo è lungo, e per molti impensabile. L’integrazione subalterna fa rima con sottomissione: gli immigrati sono bene o male tollerati quando si accollano i lavori sgraditi, ma non se avanzano rivendicazioni, accedono al welfare o pretendono di avere voce nelle decisioni che riguardano anche loro.  Devono rimanere cittadini dimezzati, figli di un dio minore.

In questo plumbeo post-referendum, la buona notizia è che circa dieci milioni di elettori italiani sono disposti a riconoscere un accesso più rapido alla piena cittadinanza. Questo patrimonio di apertura civica richiede di essere saldato con le forme di cittadinanza dal basso già oggi possibili: la partecipazione associativa, ancora gracile in Italia, quella sindacale, già più robusta (oltre un milione d’iscritti alle diverse sigle, e un certo numero di operatori e dirigenti, locali e nazionali), quella che si esprime nel volontariato e nelle iniziative locali di solidarietà e cura del territorio, quella religiosa ed ecclesiale, per gli immigrati cattolici. L’esito referendario ha allontanato la speranza di norme sulla cittadinanza più inclusive, ma non può cancellare l’esigenza di dare più voce e spazio agli immigrati che fanno già parte della società italiana e che contribuiranno a scriverne il futuro.

 

L’articolo è stato pubblicato anche su www.chiesadimilano.it