Se perdiamo l’inatteso


Sergio Pasquinelli | 1 Settembre 2025

C’era un tempo in cui, guidando, capitava di perdersi. Momenti silenziosi di smarrimento, un’improvvisa apertura dei sensi, la sospensione del tempo in attesa di capire il nostro destino, l’ansia di ritrovare la strada giusta. Toccava dedicarsi a cartine grandi come un lenzuolo, o sezionate in un atlante che solo il pensiero… Alla mal parata si faceva qualcosa di inaudito, oggi: chiedere a un passante. A volte ritrovavi la strada, a volte trovavi qualcos’altro: un paese che non conoscevi, un itinerario diverso, una prospettiva imprevista, una trattoria niente male.

Poi è arrivato il GPS e non ci perdiamo più. Il tragitto è sicuro, fluido, comodo. Sappiamo cosa ci aspetta, se c’è coda più avanti, quanto tempo ci metteremo, quando arriveremo. Il viaggio è diventato una linea retta, un trasferimento assistito, passo dopo passo. Non ci sono più strade sbagliate, solo aggiornamenti del tempo di percorrenza, non ci sono più errori, l’inaspettato scompare dalla scena.

Stiamo perdendo qualcosa? Sì, il viaggio. L’inatteso, il luogo che scopriamo per caso, l’autobus sbagliato che ci porta alla spiaggia giusta, forse anche la curiosità. Fateci caso: perché ci ricordiamo di quella gita fatta tanti anni fa? Per quello che è successo di imprevisto, lo scarto, la deviazione. Tutto questo svanisce, dentro un mondo in cui anche il caso diventa programmato, come quando l’algoritmo di Spotify ci propone la “riproduzione delle tracce consigliate”.

Qualcosa di simile riguarda molti ambiti della vita quotidiana, anche professionali. Quello del welfare sociale – mi sembra – non sfugge. Certo, non c’è nessun GPS, nessun pilota automatico, nessun consiglio su dove girare. Ma la riduzione dell’incertezza è diventata un requisito di sistema: nelle modalità di un lavoro per prestazioni, nell’ordine asettico delle procedure, in una rendicontazione divenuta pervasiva, nel sovrastare degli aspetti legali e burocratici su quelli riguardanti la sostanza degli interventi. Siamo circondati da servizi che si muovono nel guscio rassicurante della iper-regolazione, nello spazio saturo di permessi e di vincoli, nel trionfo dei manuali, delle linee guida, degli indicatori per misurare e verificare.

Domanda: esiste ancora la possibilità di fare scoperte, di apprendere seguendo modi e tempi diversi da quelli predefiniti? C’è ancora lo spazio per sentirsi padroni delle scelte che compiamo, trovarvi riconoscimenti, gratificazioni? Ho l’impressione sempre meno. La serendipità come un incontro fortuito che porta a qualcosa di piacevolmente inaspettato: noi. Gilles Deleuze parlava di nomadologia, ad indicare la fecondità di un processo creativo fluido, erratico. Certo, non tutto ciò che nasce dal caso è positivo a prescindere, anzi. Gli sbagli possono produrre conseguenze nefaste. Ma è dalla libertà legata al caso che sono stati scoperti i raggi X e la penicillina, sono stati inventati il pacemaker e il forno a microonde.

Nei servizi pubblici e nel terzo settore la dimensione dell’inatteso si riduce tanto più aumentano le pressioni all’uniformità, alla standardizzazione, con la richiesta di dar conto di quanto viene fatto. Ma l’uniformità – nei percorsi educativi, di vita, di cura – deve avere gioco, margini di adattamento e discrezionalità, perché la combinazione tra bisogni personali e contesti di vita genera condizioni diverse, esigenze diverse, e chiede azioni differenti. In molti ambiti: dalla lotta alla povertà (i percorsi legati all’assegno di inclusione) alle famiglie con minori (i dispositivi legati a P.I.P.P.I.), alle disabilità (i progetti di vita indipendente, i budget di progetto).

La personalizzazione sfida la capacità di gestire il non previsto, gli scarti, i cambiamenti di direzione. Sono emblematici gli interventi nell’area del disagio giovanile, dove quanto previsto viene spesso disatteso: situazioni promettenti che finiscono molto male, altre che passano da una grande deprivazione a riscatti insperati. Sbagliamo qualcosa? Forse il fatto di concepire la progressione personale secondo uno schema ancora lineare, novecentesco: la formazione, il lavoro, l’autonomia. Ma il lavoro non garantisce più l’autonomia, e la formazione che si inizia corrisponde sempre meno con il lavoro che si finisce per fare. La catena si è rotta in più punti e le biografie individuali – molto più di un tempo – sono scavate da inciampi, deviazioni, stalli, ripartenze.

Nel welfare lo sappiamo bene, lo sappiamo da molto tempo, quanto contano le competenze morbide, quelle che pochi ti insegnano, negli interventi d’aiuto e di cura. La capacità di stare nella relazione, di ascoltare, di aspettare, di cambiare punto di vista. “Un professionista riflessivo non è perfetto e può migliorare la sua pratica analizzando i propri errori. Dagli errori possono nascere nuove scoperte e dall’accettazione di un errore si può imparare a essere flessibili e a migliorare l’incontro con l’altro”. Sono le parole che usano Ariela Casartelli e Francesco Di Ciò per presentare la giornata formativa Il diritto di sbagliare… e di imparare dagli errori, proposta negli ultimi anni dalla Scuola IRS per il sociale. Ulteriori iniziative sono in cantiere su questo tema e siamo felici di partecipare, come Associazione per la Ricerca Sociale ETS, alla loro promozione. Iniziative che metteranno al centro l’inatteso e la scoperta, occasioni per aprirci a sollecitazioni che saranno di diversa natura. Ricordandoci sempre che la verità, come ci ha insegnato Jiddu Kirshnamurti, “è una terra senza sentieri”.