La personalizzazione che non piace


Sergio Pasquinelli | 24 Novembre 2025

Anche nel welfare sociale non tutto funziona come ci aspettiamo. Una di queste cose è la personalizzazione degli interventi, quello sforzo di andare verso azioni sempre più cucite sull’unicità dei singoli, superando i limiti della standardizzazione. Ma è davvero quello che la gente vuole? Domanda lecita a fronte di evidenze emergenti, in tre ambiti.

Primo, la lotta alla povertà. Con l’Assegno di inclusione, una prestazione ben definita nei suoi requisiti e in ciò che offre, i beneficiari possono essere “presi in carico” e coinvolti in programmi di formazione, inserimento lavorativo, utilità collettiva. Attività definite in modo evidentemente orientativo, perché soggette alle caratteristiche, alle capacità, alle disponibilità dei singoli, e alle possibilità del contesto. E tuttavia, nonostante un incentivo economico non irrilevante, l’adesione a questi programmi risulta limitata1. Giocano in questo senso fattori diversi, tra cui la difficile attivazione in condizioni di grande deprivazione, l’analfabetismo funzionale, i timori di essere stigmatizzati nel proprio contesto di vita. Il Rapporto Caritas 2025 evidenzia le tante criticità dei supporti per la formazione e il lavoro (qui). Guardando all’esperienza dell’Umbria, Andrea Tittarelli aggiunge qui che “le difficoltà organizzative e il sovraccarico degli operatori sociali si riflettono in un’esperienza per molti versi disorientante per i beneficiari, aggravata dalla frammentazione dei servizi coinvolti”.

Secondo, i Progetti di vita indipendente. Parliamo della sperimentazione nazionale (d. lgs. 62/2024) di un dispositivo per le persone con disabilità, che punta con ambizione a cambiare l’approccio tradizionale del servizio pubblico: mi chiedi, ti dò. Ad oggi, tuttavia, molte testimonianze ci parlano di difficoltà applicative, di una bassa propensione delle famiglie ad aderire, di una certa resistenza a partecipare (vedi Claudio Castegnaro qui). Dinamiche che caratterizzano, peraltro, anche i progetti sul “Dopo di noi” (l. 112/2016), con un’adesione inferiore alle attese, e la difficoltà delle Regioni a spendere le risorse stanziate. La farraginosità nelle procedure di accesso, la moltiplicazione e frammentazione dei passaggi da superare, la percezione di una eccessiva complessità a fronte dei benefici possibili allontanano il pubblico potenziale.

Terzo, la Prestazione universale (d. lgs. 29/2024), sperimentazione nazionale rivolta agli anziani non autosufficienti. A dispetto del suo nome, un bonus per pochi, molto selettivo e vincolato all’impiego di una badante. Una misura più strutturata rispetto alle due precedenti, ma dove il requisito di cercare, trovare e assumere un assistente familiare, per il target (ultra 80enni poveri in condizioni gravissime) e senza una rete di supporti dedicati, ha tenuto a distanza la platea potenziale. Il risultato è stato un flop: i beneficiari si sono fermati a 2.000 sull’intero territorio nazionale (si veda qui), a fronte di stime che arrivavano a 24.000. Flop a cui ha contribuito l’incompatibilità stabilita con assegni di cura e trasferimenti economici regionali, meno impegnativi. Ora si intende correre ai ripari alzando l’asticella della soglia Isee, quando è forse l’impianto complessivo a non funzionare, diverso da come era stato pensato in origine (qui).

Che cosa ci dicono questi tre casi? Ci parlano di persone che entrano in relazione con i servizi sociali con un’idea sull’aiuto possibile, poco disposte a mettere in discussione questa idea, a rivederla, rivalutarla. Ci dicono che le persone preferiscono il certo e lo strutturato rispetto a qualcosa che va definito. Ci dicono che una personalizzazione complicata attrae poco e che l’incertezza produce una situazione in cui, come si dice in gergo, “il cavallo non beve”. Domanda: è possibile, e a quali condizioni, accedere ai servizi senza adempimenti bizantini? Cosa possiamo fare per facilitarne l’uso da parte di coloro per i quali questi servizi sono stati costruiti?

In primo luogo occorre riconoscere il problema, senza rimuoverlo, o nasconderlo sotto vecchi paternalismi (“so io cosa è bene per te”). Che non riguarda solo l’accesso ma la struttura stessa dei servizi, perché le persone si tengono lontane da procedure complicate e da benefici che non vedono. Se la personalizzazione non piace questo accade per motivi che vanno riconosciuti, compresi.

Inoltre — lo si dice da sempre ma con scarsi risultati — dobbiamo semplificare una burocrazia respingente considerando, sempre, il punto di vista del cittadino: nelle modalità di interlocuzione, nei luoghi, nei tempi. Il rischio di una grande macchinosità si ripropone per esempio nelle dimissioni protette, un’idea interessante che funziona nel coordinamento tra soggetti che normalmente si parlano poco: l’ospedale, la sanità di territorio e i Comuni. Ma tra valutazioni multidimensionali e piani di assistenza può nascere disorientamento, e non sono rari i casi che rinunciano, anche con interventi totalmente gratuiti.

Il welfare di domani dovrà crescere in proattività, per intercettare un bisogno che si nasconde nelle pieghe di una solitudine dilagante, nell’epoca dei legami rarefatti. Non basta informare meglio, occorre costruire servizi che vadano verso chi rimane indietro: una postura ancora estranea a quella abituale. È utile per esempio ragionare in termini di one-stop-shop, luoghi dove le persone trovano un luogo protetto, e magari dei consigli, senza andare oltre. Ma serve a poco puntare sulle Case della comunità e sui Punti unici di accesso se poi tutto rimane frammentato e farraginoso, difficile da capire e da utilizzare.

  1. Sono 182mila le persone con supporti per la formazione e il lavoro, a fronte di 867mila nuclei familiari percettori dell’assegno di inclusione (dati Inps qui).