Addio al “Welfare all’italiana”?
A che punto siamo dopo trent’anni di riforme
Matteo JessoulaMarcello Natili | 10 Giugno 2025
L’articolo che segue sintetizza alcuni degli esiti del lavoro pubblicato sul numero 3/2024 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: M. Jessoula e M. Natili, «Welfare all’italiana» addio?, in «Politiche Sociali/Social Policies», 3/2024, pp. 441-459.
Tra distorsioni e lacune
A metà anni Novanta, il welfare state italiano presentava alcuni elementi caratteristici che ne limitavano tanto l’effettività quanto l’equità nel fornire protezione contro i diversi rischi sociali: un’allocazione sbilanciata delle risorse tra i settori della protezione sociale (distorsione funzionale) a favore delle pensioni in contrasto con il sottofinanziamento delle politiche familiari, del lavoro e dell’assistenza sociale; una distribuzione iniqua delle risorse tra i vari gruppi (distorsione distributiva) a vantaggio di alcune categorie più garantite (“insider”) a fronte di altre meno (“mid-sider”) o per nulla tutelate (“outsider”). A questi due elementi si aggiungevano la mancanza di uno schema nazionale di reddito minimo per la lotta alla povertà ed esclusione sociale, e il sottosviluppo dei servizi sociali rispetto alle prestazioni monetarie. Faceva da corollario il persistente ruolo della famiglia come istituzione erogatrice di welfare, in contrasto con i modelli de-familizzati (o in procinto di de-familizzarsi) dell’Europa nordica e centrale.
Trent’anni di riforme
Com’è cambiato il welfare state italiano in trent’anni di riforme? I numerosi interventi adottati sono stati in grado di ricalibrare il sistema di protezione sociale, riducendo queste distorsioni?
I provvedimenti introdotti dai primi anni Novanta fino alla metà degli anni 2010 rivelano che, mentre le riforme strutturali e di (robusto) contenimento dei costi in campo pensionistico (e sanitario) hanno perseguito con decisione l’agenda della componente sottrattiva del processo di ricalibratura, pochi o nulli sono stati i risultati lungo la dimensione espansiva di quest’ultima. Con la parziale eccezione della riforma dei sussidi di disoccupazione contenuta nella riforma Fornero del 2012, l’evocata espansione delle politiche per famiglie, bambini, anziani non autosufficienti, poveri, disoccupati, lavoratori flessibili e precari rimaneva sostanzialmente al palo. È dunque con il persistere delle tradizionali distorsioni allocative lungo le dimensioni funzionale e distributiva che il welfare state italiano ha navigato le acque in tempesta della crisi del debito sovrano (2010-2012) e della Grande Recessione, quest’ultima particolarmente prolungata in Italia (2008-2014).
La crisi sociale che ne è scaturita è stata, non inaspettatamente, di ampia portata: i livelli di povertà ed esclusione sociale si sono impennati oltre la media europea, la povertà si è diffusa in aree territoriali (Centro-Nord) e tra gruppi sociali in precedenza relativamente immuni, il tasso di grave deprivazione materiale è duplicato nell’arco di pochi anni, la precarietà si è espansa non solo tra i giovani ma anche tra i lavoratori prossimi al pensionamento, e ciò nonostante la contrazione dell’occupazione sia stata temperata dall’utilizzo (anche in deroga) delle integrazioni salariali tradizionali, riscoperte in questa fase come cruciali strumenti flessibili nella gestione delle crisi occupazionali.
Usciti dalla Grande Recessione “con le ossa rotte”, è lecito interrogarsi se le riforme introdotte nell’ultimo decennio abbiano ulteriormente modificato i tratti essenziali del welfare state italiano, ed eventualmente, in che direzione: le misure adottate sono state in grado di contrastare la crisi sociale generata dalla Grande Recessione, specialmente tramite lo sviluppo dei settori di policy tradizionalmente arretrati nel sistema di protezione sociale?
Addio al welfare all’italiana?
Il focus tematico del numero 3/2024 di Politiche Sociali/Social Policies, uscito in occasione del decennale della rivista, si è proposto di rispondere a tali interrogativi, attraverso un’analisi dettagliata delle misure e degli interventi nei settori tradizionalmente dimenticati del welfare state italiano: politiche per la famiglia, politiche di contrasto alla povertà, politiche attive del lavoro, politiche per la non-autosufficienza, politiche di “investimento sociale”[1]. Si tratta di settori di policy nei quali non soltanto il welfare state italiano presenta ben noti ritardi e carenze strutturali, ma la cui rilevanza funzionale è aumentata esponenzialmente negli ultimi decenni in un contesto economico, sociale ed istituzionale profondamente trasformato rispetto alla fase espansiva del welfare state europeo.
Che conclusioni possiamo trarre? Vi sono segni di un superamento dei tratti fondamentali del welfare state all’italiana? E quali sono i driver delle trasformazioni osservate?
Volendo fare un bilancio, possiamo dire che, nel complesso, vi sono segnali di una graduale trasformazione del sistema di protezione sociale italiano verso un assetto meno sbilanciato: si osserva infatti una attenuazione delle tradizionali distorsioni funzionali e distributive. In particolare, la distorsione funzionale è stata significativamente ridotta per effetto di due decenni di severe riforme sottrattive in campo pensionistico, cui ha fatto seguito, dopo la Grande Recessione, un maggiore investimento in sussidi di disoccupazione e misure anti-povertà più generose e inclusive. L’introduzione dell’Assegno Unico e Universale per i figli a carico e i risparmi futuri derivanti dalle riforme pensionistiche possono ulteriormente avvicinare la distribuzione della spesa lungo l’asse funzionale alla media europea. Per quanto riguarda la distorsione distributiva l’espansione della copertura dei sussidi di disoccupazione, l’introduzione di un reddito minimo non contributivo e di un assegno familiare universale hanno migliorato la protezione per outsider e “mid-sider” in almeno tre settori di policy, contribuendo a ridurre gli squilibri distributivi.
A fronte di tali progressi, non mancano tuttavia le criticità. Il welfare italiano continua a mostrare forti difficoltà nello sviluppo dei servizi, in particolare per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, i servizi per l’infanzia e la non autosufficienza, e i servizi sociali territoriali, la cui spesa rimane ben al di sotto della media europea. Alcuni settori cruciali, come la sanità, mostrano segnali di sottofinanziamento, mentre altri – come le politiche abitative – soffrono da tempo di cronica marginalità. A ciò si aggiungono recenti battute d’arresto: il Governo Meloni ha interrotto o rallentato in modo significativo le riforme e gli investimenti in ambiti cruciali come povertà, reddito minimo, famiglia e non autosufficienza.
Come possiamo spiegare tale evoluzione differenziata? Il raffronto sistematico delle scelte compiute nei diversi settori analizzati e delle traiettorie evolutive seguite nell’ultimo decennio mostra che né le pressioni funzionali né i vincoli istituzionali e di finanza pubblica – fattori cornice comuni a tutti gli ambiti indagati – sono sufficienti a dar conto dell’evoluzione delle politiche. A fronte di sviluppi espansivi nel campo del contrasto della povertà e, nel complesso, del sostegno alla famiglia, le riforme delle politiche attive del lavoro e della non autosufficienza si sono al contrario caratterizzate per una limitata capacità trasformativa. L’esplorazione di fattori di politics aiuta a ricomporre il quadro, gettando luce, in particolare, sulla presenza di azioni di advocacy, sul diverso grado di politicizzazione delle varie issues, nonché sul differente profilo – redistributivo o distributivo – delle riforme in esame. In questi anni sono emerse nuove coalizioni sociali (come l’Alleanza contro la Povertà, l’Alleanza per l’Infanzia, il Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza) che hanno inciso sull’agenda politica, rendendo visibili temi prima trascurati.
Tuttavia, l’efficacia della loro azione è eterogenea, e dipende anche dalla salienza elettorale della policy, dall’ampiezza della platea dei potenziali beneficiari e dal grado di istituzionalizzazione pregressa. La (iper-)politicizzazione, come nel caso della povertà, può favorire l’adozione di riforme espansive, consentendo alle istanze dei gruppi sociali più deboli di trovare spazio nell’arena politica. Tuttavia – innescando dinamiche di powering spesso a discapito di processi di riflessione collettiva– può minare qualità e stabilità delle riforme. Dove invece la politicizzazione è più bassa, tendono a prevalere logiche di puzzling e forme di apprendimento istituzionale, ma gli esiti sono riforme limitate. Al riparo dalla competizione politica e dal conflitto, tali dinamiche ‘problem oriented’ infatti possono essere in grado di evitare che si formi un dissenso forte intorno ad alcune misure – come invece avvenuto per il Reddito di Cittadinanza – ma sono meno in grado di spostare capitale politico – e dunque risorse economiche – a favore di più consistenti progetti di riforma. Come mostra chiaramente l’evoluzione del settore delle politiche per la non autosufficienza, la probabilità di non attuare decisioni o renderle meramente simboliche o marginali, aumenta molto quando i temi appaiono poco visibili o sono percepiti in modo intermittente dall’opinione pubblica, ovvero quando, utilizzando il nostro linguaggio, sono scarsamente politicizzati. Le politiche familiari rappresentano per certi versi un caso intermedio: politicizzazione crescente e convergenza tra schieramenti politici hanno favorito riforme rilevanti, sostenute anche da attori istituzionali europei e nazionali.
Concludendo, è dunque forse troppo presto per dire “addio” al welfare state all’italiana. Senza dubbio alcune riforme e processi di mutamento nell’ultimo decennio hanno contribuito ad alterare significativamente i suoi tratti caratteristici sia lungo la dimensione funzionale che distributiva, con importanti passi avanti sul terreno della lotta alla povertà e le politiche per la famiglia. Rimangono però azioni essenziali da intraprendere nei settori dei servizi per l’infanzia, politiche per la non-autosufficienza, politiche attive del lavoro, politiche abitative.
Al fine di rispondere efficacemente a questi bisogni sarà verosimilmente necessaria una (difficile) combinazione tra diversi fattori, quali: un grado sufficiente di competizione politica nel settore (powering); la capacità di bilanciare le esigenze della prima con approfondite fasi di riflessione collettiva (puzzling) volte ad ancorare il processo decisionale alle migliori evidenze empiriche; interventi volti a superare le attuali condizioni di “governance ingovernabile” in alcuni settori di policy, derivanti sia dalle limitate capacità istituzionali, sia dal proliferare di attori coinvolti nel disegno e nell’erogazione delle prestazioni sociali, in assenza di adeguato coordinamento. .