Aumentano i rifugiati nel mondo. Ma non siamo noi ad accoglierli


Maurizio Ambrosini | 19 Giugno 2020

Il 20 giugno è la giornata mondiale dei rifugiati e richiedenti asilo, e ogni anno l’UNHCR, Alto Commissariato dell’ONU incaricato della loro protezione, pubblica un rapporto su questa drammatica emergenza umanitaria. Quest’anno una lettura attenta dei dati è particolarmente necessaria, giacché la questione sembra essere scomparsa dai radar del dibattito pubblico, essendo drasticamente diminuiti gli sbarchi dopo gli accordi con la Libia del 2017, la persecuzione delle ONG impegnate nei salvataggi in mare e ultimamente la chiusura dei porti italiani, dichiarati “non sicuri” a causa dell’emergenza Covid-19.

 

Se molti probabilmente pensano che il numero dei profughi stia scemando, i dati raccolti dall’UNHCR testimoniano il contrario. Anche a causa dell’inserimento nel conteggio delle persone in fuga dal Venezuela, il totale mondiale a fine 2019 è salito a 79,5 milioni, mai così tanti da quando vengono raccolte statistiche sistematiche in merito.  Sono quasi il doppio rispetto a dieci anni fa e quasi nove milioni in più del 2018 (70,8 milioni). A questa cifra si arriva sommando le diverse categorie di migranti forzati: 26 milioni di rifugiati internazionali, tra cui 5,6 milioni di palestinesi tutelati da un’altra agenzia delle Nazioni Unite; 4,2 milioni di richiedenti asilo in attesa di una risposta dai governi a cui hanno chiesto protezione; 3,6 milioni di venezuelani riparati all’estero, perlopiù privi di uno status giuridico ben definito; 45,7 milioni di sfollati interni, ossia in qualche modo accolti in altre regioni del loro stesso paese.

Il fatto che la maggioranza dei rifugiati ricadano in quest’ultima categoria non deve indurre a pensare che in fondo si trovino in una condizione meno disagiata. Rimangono infatti sotto la sovranità dei loro governi, che possono decidere arbitrariamente di trasferirli, costringerli a tornare nelle località di provenienza, tagliare gli aiuti loro destinati o sospenderli del tutto. Non sono tutelati dalle convenzioni internazionali, come dovrebbe avvenire, almeno in teoria, per i rifugiati che chiedono asilo oltre confine.

 

Le nuove richieste di asilo nel 2019 hanno toccato quota due milioni, palesando la comparsa ufficiale nelle statistiche di una nuova area di crisi umanitaria, l’America Latina. La graduatoria vede infatti al primo posto tra gli Stati riceventi gli Stati Uniti (301.000) casi, a motivo soprattutto degli ingressi dall’America centrale, seguiti dal Perù con 260.000. A notevole distanza si collocano tre paesi dell’UE: la Germania con 142.000, la Francia con 124.000, la Spagna con 118.000.

Il drammatico panorama dei principali paesi di origine dei flussi di rifugiati si è quindi allargato (tab.1): alle zone di guerra, tutt’altro che pacificate malgrado la coltre di silenzio caduta a livello internazionale, si è aggiunta la crisi venezuelana. Il Myanmar, come lo scorso anno, ricorda invece la persecuzione della minoranza mussulmana dei royingia.

 

Tab.1. I cinque principali paesi di origine dei rifugiati nel mondo

Paese Cifra (in milioni)
Siria 6,6
Venezuela 3,7
Afghanistan 2,7
Sud Sudan 2,2
Myanmar 1,1

 

 

La distanza tra le nostre rappresentazioni e la realtà (tendenzialmente) obiettiva dei dati statistici risalta in modo inquietante a proposito di un altro dato, quello relativo ai paesi ospitanti (tab.2). Al netto degli sfollati interni, che gravano sulle regioni funestate da conflitti armati, l’85% dei rifugiati internazionali è accolto in paesi in via di sviluppo, perlopiù quelli confinanti con i paesi di origine dei profughi stessi (73% dei casi: circa tre su quattro). Come regola, i migranti forzati non si sono preparati a partire, sono spesso accompagnati dalle famiglie, e non sono in grado di portare con sé risorse adeguate: di conseguenza non riescono a fare molta strada. Vengono da paesi poveri o impoveriti dai conflitti e cercano scampo in altri paesi poveri. In otto casi su dieci sono insediati in paesi afflitti a loro volta da malnutrizione e insicurezza alimentare.

 

Tab.2 I dieci primi paesi di accoglienza di rifugiati internazionali e richiedenti asilo nel mondo

Paese Cifra (in milioni)
Turchia 3,9 (di cui 0,3 richiedenti asilo)
Colombia 1,8
Pakistan 1,4
Uganda 1,4
Germania 1,4 (di cui 0,3 richiedenti asilo)
Sudan 1,1
USA 1,1 (di cui 0,8 richiedenti asilo)
Iran 1,0
Libano 0,9
Perù 0,9 (di cui 0,4 richiedenti asilo)

 

 

Un altro dato impressionante riguarda il rapporto statistico tra i rifugiati accolti e la popolazione residente (tab.3): un indicatore che serve a inquadrare almeno in termini generali il carico sociale rappresentato dall’accoglienza dei profughi. Qui il Nord del mondo scompare del tutto. Sono paesi intermedi o a basso reddito a dominare le prime posizioni della graduatoria, con la novità quest’anno dell’impatto della crisi venezuelana sui paesi limitrofi: cinque tra i primi dieci accolgono profughi dal Venezuela, con le isole caraibiche di Aruba e Curaçao in evidenza, sommandosi a quelli coinvolti nella guerra in Siria (tre su dieci) e nei conflitti africani, quello del Sud Sudan in primo luogo (due su dieci). Anche da questo punto di vista, le nostre rappresentazione dei rifugiati come torme di diseredati che si dirigono in massa verso il Nord del mondo sono lontane dalla realtà dei dati. In parte sono i profughi stessi a voler rimanere vicini alle loro zone di origine nella speranza di ritornare indietro. Molto e sempre più sono le politiche dei paesi dominanti del Nord del mondo a fermarli, negli ultimi anni soprattutto ingaggiando i paesi di transito, come Turchia, Niger e Libia, nel ruolo di guardie di confine esterne,  al fine di “regionalizzare” le crisi umanitarie.

 

Tab.3. I primi dieci paesi per rifugiati accolti ogni 1.000 abitanti1

Paese Cifra
Aruba 156
Libano 134
Curaçao 99
Giordania 69
Turchia 43
Colombia 35
Uganda 31
Guyana 28
Panama 28
Ciad 28

 

 

Altre cattive notizie arrivano dal fronte dei ritorni. Come  già ricordato, si tratta in parte della soluzione a cui aspirano gli stessi rifugiati, che sognano di tornare alle proprie case o almeno ai luoghi che conoscono. Ma soprattutto è la soluzione maggiormente auspicata dai governi, che non lesinano gli sforzi per spingere i rifugiati a rimpatriare. Gli stessi i campi profughi erano stati istituiti pensando a crisi umanitarie temporanee, destinate a risolversi in breve tempo  con il ritorno degli sfollati alle proprie case. In effetti negli anni ’90  in media  1,5 milioni di rifugiati all’anno riuscivano a rientrare nei luoghi di origine. Negli ultimi dieci anni invece la media è scesa sotto quota 400.000 all’anno. Un numero crescente di rifugiati vive ormai da molti anni in situazioni di precarietà, di dipendenza da aiuti esterni, di confinamento in spazi angusti e sorvegliati, di incertezza protratta e impossibilità di progettare un futuro. Quel che è peggio, tra i 30 e i 34 milioni di rifugiati sono minorenni. Vivere da rifugiati, all’estero, con un accesso limitato all’istruzione, senza certezze, esposti al rischio costante di essere rimpatriati, spesso nella necessità di cercare un qualche tipo di lavoro per contribuire alla stentata economia familiare (o a elemosinare, o peggio), getta ombre inquietanti sul loro futuro.

 

La principale alternativa al ritorno consiste nel reinsediamento in paesi più attrezzati per accogliere i rifugiati e integrarli nella società: di solito paesi occidentali sviluppati. Qui si registra un lieve miglioramento, con 107.800 rifugiati reinsediati in 26 paesi, malgrado la drastica riduzione dell’impegno degli Stati Uniti, che per diversi anni avevano accolto da soli intorno al 70-80% dei rifugiati reinsediati. Nel 2019 il primato è passato al Canada, con 30,100 rifugiati reinsediati, seguito dagli Stati Uniti con 27.500 e dall’Australia con 18.200. Tra i reinsediamenti va ricordato il programma italiano dei corridoi umanitari, promosso da istituzioni religiose cattoliche e protestanti, che ha promosso negli ultimi anni l’arrivo in condizioni sicure e l’insediamento diffuso sul territorio di circa 2.000 rifugiati accolti in precedenza in Libano ed Etiopia.

Ancora più complicata del reinsediamento si rivela la naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza del paese ospitante: nell’ultimo decennio ha riguardato soltanto 322.400 rifugiati in 65 paesi.

La situazione dei rifugiati nel mondo si è quindi aggravata. Nuove aree di crisi, come quella venezuelana, si sono aggiunte a quelle già coinvolte. Mentre i migranti forzati continuano a essere ospitati in maniera preponderante in paesi in via di sviluppo, il Nord del mondo si chiude sempre più. Le soluzioni alle crisi umanitarie di conseguenza risultano sempre più difficili e lontane.

Ora con la bella stagione e la fuoriuscita almeno parziale dall’emergenza Covid-19 gli attraversamenti del Mediterraneo sembrano conoscere una certa ripresa. Non facciamoci ingannare dalle apparenze, né dalle enfatizzazioni mediatiche e politiche: nessuna invasione di rifugiati è alle porte.

  1. I dati non comprendono i rifugiati palestinesi