Biennale della Prossimità 2017 a Bologna


A cura di Maurizio Motta | 25 Maggio 2017

In questa intervista Gianfranco Marocchi, co-direttore della Biennale della Prossimità, descrive non solo l’iniziativa ma anche il senso delle pratiche sociali di prossimità

 

Che cosa è la Biennale della Prossimità e quali obiettivi si propone quest’anno?

La Biennale della Prossimità è uno spazio aperto di confronto e scambio che chi realizza azioni di prossimità può contribuire a costruire. Ci ritroveremo a Bologna dal 15 al 18 giugno e ci saranno associazioni ed enti pubblici, cooperative sociali e gruppi informali di cittadini, soggetti che provengono da storie culturali molto diverse e l’elemento della prossimità rappresenta il fattore unificante. Non vi sono “guest star”, il programma, sia nei momenti di confronto che negli spazi artistici e iniziative di aggregazione, è frutto dell’impegno di chi ha scelto di essere parte di questa esperienza.

 

Come è partita questa iniziativa?

Alcuni anni fa ci siamo resti conto di una dimensione emergente dell’agire sociale. Gli esempi sono moltissimi: esperienze di co-housing, e  forme di solidarietà condominiale, con il reciproco sostegno tra gli abitanti rispetto a bisogni quali la cura dei figli, la vicinanza a persone anziane o comunque in fragilità; supermercati solidali in cui chi è in difficoltà può trovare generi alimentari e sostegno per percorsi di reinserimento; gruppi di acquisto autogestiti; comitati di cittadini che prendono in carico la porzione di territorio in cui risiedono, ne ristabiliscono il decoro, la abbelliscono e stabiliscono tra loro nuove forme di socialità e di mutuo aiuto; immobili destinati a degrado, che vengono ristrutturati e diventano la sede di attività aggregative e di servizio alla cittadinanza, gestite con l’impegno diffuso di cittadini e loro associazioni; pedibus per accompagnare i bambini a scuola; orti urbani in cui i cittadini soddisfano una parte del proprio bisogno alimentare e instaurano nuove relazioni; e molto altro!

E queste iniziative cosa hanno in comune? E quindi: cosa intendete per prossimità?

Siamo partiti dal fenomeno per cercare di arrivare ad una definizione, che abbiamo via via articolato maggiormente. Ad oggi ci sembra che vi siano tre criteri (più uno) che contraddistinguono l’azione di prossimità:

  1. Alla base vi è una lettura collettiva di un problema, di un bisogno, di un’aspirazione condivisi con altre persone (spesso vicine, ma altre volte come comunità ideale). Un soggetto collettivo quindi si riconosce come accomunato da un bisogno o aspirazione. Esemplificando: un gruppo di cittadini che vuole riqualificare un’area del proprio territorio, un piccolo paese di provincia dove non c’è un cinema e dove un gruppo vuole poter vedere film senza dover andare nella città più vicina.
  2. A tale lettura segue una altrettanto collettiva ricerca di soluzioni. In sostanza, cosa fare di fronte alla volontà di riqualificare il proprio quartiere? Feste di piazza? Apertura di un centro di incontro? Patto con i commercianti per l’apertura di nuovi esercizi? Le risposte possono essere tante, ma ciò che qualifica la prossimità è che siano definite attraverso un processo collettivo e non in via gerarchica o sulla base di poteri asimmetrici di un numero limitato di attori.
  3. La soluzione, qualunque sia, prevede che almeno in certa misura i cittadini protagonisti del processo si rimbocchino in prima persona le maniche. Ciò non esclude che una parte delle azioni chiami in causa responsabilità delle istituzioni – che anzi nei casi migliori sono sin da subito parte del processo – ma un intervento istituzionale è comunque accompagnato da un impegno diretto dei cittadini. Il Comune mette gli spazi, ma la festa la organizzano gli abitanti; il Comune acquista l’impianto di amplificazione, ma il cineforum lo organizzano i cittadini.

Tre caratteristiche più una, si diceva. Perché l’esperienza evidenzia che processi come questi non sono esenti dal rischio di involuzione verso orizzonti particolaristici e di chiusura: riqualifichiamo il nostro territorio, deturpato dalla presenza di stranieri; e quindi organizziamo festa, concerto e altre iniziative che riaffermino la nostra identità contro altri “invasori”. Ecco, accanto alla costruzione collettiva, è necessario che le tre fasi sopra richiamate siano intese in senso inclusivo, cercando di definire nuovi legami piuttosto che rimarcando e cristallizzando l’assenza di quelli che mancano.

 

La prossimità è una risposta alle risorse calanti destinate al welfare?

È scorretto pensare alla prossimità con il solito ritornello “Visto che non ci sono più risorse sufficienti per il welfare, allora i cittadini…” La prossimità non nasce dalla debolezza del welfare, ma da un’evoluzione culturale che porta i cittadini a sentirsi parte della sfera pubblica, e a “sentirsi bene” in dimensioni di vita collaborative. E ciò non riguarda, come si è visto dagli esempi, la sola area del welfare, ma una molteplicità delle dimensioni della propria esistenza.

Certo chi ha la responsabilità delle politiche di welfare bene farebbe a valorizzare e sostenere queste forme di prossimità, ma il punto di partenza è un altro!

 

E ciò avviene? O al contrario è ostacolata?

Assistiamo ad un paradosso: da una parte mai come ora vi è un’enfasi culturale e politica sulle valenze positive della comunità e della prossimità; dall’altra l’universo normativo è pervaso da fenomeni di iper regolazione che tendono a fagocitare anche spazi di azione sino a pochi anni fa considerati estranei all’ambito formale e quindi a restringere il campo agibile per le iniziative di comunità e prossimità.

Il punto fondamentale è che mancano le fondamenta di un “diritto di prossimità” che delinei caratteristiche, diritti e doveri quando si opera in questa sfera di azione.

Ciò comporta che un’azione di prossimità (come la cena in strada che faremo a Bologna aprendola a tutti i cittadini che vorranno unirsi a noi) comporta il porsi “border line” su un’infinita serie di normative fiscali, lavoristiche, di sicurezza, sanitarie, ecc. Insomma: tutti vogliono la partecipazione dei cittadini, poi un genitore non può portare una torta a scuola per Natale perché se a qualcuno viene mal di pancia il dirigente scolastico finisce nei guai!

Quindi, in questo panorama, in che misura la prossimità può intrecciarsi con il nostro sistema di welfare?

La situazione è sicuramente in evoluzione. Intendiamoci: qualsiasi intervento sociale dell’ultimo ventennio prevede il “coinvolgimento del territorio e della comunità locale” e sicuramente ciò denota un’assonanza culturale con quanto si sta sviluppando. Ma sarebbe riduttivo non vedere, insieme alle analogie, anche i mutamenti rispetto a quanto è stato sino ad ora familiare a chi opera nel sociale.

Provando ad affrontare in poche parole un tema complesso: oggi la prossimità è una dimensione positiva ma accessoria nel welfare. Esemplificando: un centro diurno per disabili esiste ed opera; poi, se opera bene, secondo logiche di rete, la sua azione è potenziata e valorizzata dalla collaborazione con le famiglie, con associazioni del territorio, ecc.. Se ciò non accadesse il servizio forse funzionerebbe peggio, le persone inserite probabilmente sarebbero meno soddisfatte, anche se i suoi aspetti fondamentali rimanessero gli stessi.

Al contrario la gran parte delle azioni di prossimità, pur sostenute da soggetti pubblici, senza una partecipazione e un impegno diffuso dei cittadini, semplicemente non esisterebbero. E quindi il territorio (e in esso il cittadino attivo e non professionalizzato) non è un mero destinatario dell’intervento: è destinatario e protagonista al tempo stesso.

Ma con questo vuoi dire che i servizi di welfare che oggi conosciamo potrebbero essere realizzati in ottica di prossimità?

Alcuni aspetti del benessere del cittadino, come abbiamo visto, sono già oggi realizzati in ottica di prossimità; rispetto ad altri servizi – pensiamo ad una struttura residenziale per anziani – non si tratta di ipotizzare la sostituzione di una gestione professionale con una gestione di prossimità, ma pensare che:

  1. i meccanismi comunitari diventano decisivi nel modificare chi accede alla residenza, perché abbattono in modo significativo i casi di istituzionalizzazione impropria dovuta all’isolamento degli anziani;
  2. la gestione delle strutture, pur contendo una base professionale, evolve verso un’organizzazione strutturalmente mista, in cui convergono elementi professionali e comunitari;
  3. cambia il ruolo dei soggetti di terzo settore perché la capacità di attivazione delle risorse comunitarie diventa importante quanto quella di tipo professionale;
  4. cambia infine l’immagine stessa della struttura, che si apre al territorio, mette a disposizione i suoi spazi a momenti di relazione e di incontro tra generazioni, diventa base per una molteplicità di servizi rivolti ai cittadini.

Insomma un mutamento genetico tale per cui un servizio privo di elementi di prossimità verrebbe percepito come arretrato e spersonalizzante, come sarebbe oggi un orfanotrofio rispetto ad una casa famiglia.

 

E cosa rappresenta quindi la Biennale della Prossimità in questo quadro?

A partire dalla prima edizione, due anni fa a Genova, la Biennale è un luogo dove riconoscersi e riconoscere la dimensione della prossimità. Un cambiamento sociale è tale nel momento in cui chi vi prende parte, dopo averlo intuito e praticato prima ancora di riuscire a dargli un nome, prende consapevolezza del fatto che quanto sta facendo ha in sé un potenziale di cambiamento sociale; riconosce di non essere l’unico ad esserne portatore, ma si percepisce come parte di un movimento più ampio, con cui confrontarsi, avviare azioni comuni. Questo è il cammino ed è il significato del ritrovarci a Bologna.