Cittadinanza e “jus soli”: una scelta giusta?


Valerio Onida | 13 Luglio 2017

La cittadinanza di uno Stato si acquista per nascita o per successiva scelta. Per nascita, indipendentemente da qualsiasi manifestazione di volontà, in quanto lo Stato dispone per legge che chiunque nasce in certe circostanze è automaticamente riconosciuto come suo cittadino. In questo caso la cittadinanza non è rinunciabile liberamente: si può ad essa rinunciare solo se si acquista la cittadinanza di un altro Stato e si va a risiedere all’estero: infatti la cittadinanza non comporta solo diritti, ma anche doveri, come quello del servizio militare quando è obbligatorio; e le situazioni di apolidia (persone senza alcuna cittadinanza) sono considerate eccezioni da evitare il più possibile.

Due sono i grandi criteri di attribuzione della cittadinanza per nascita: quello secondo cui è automaticamente cittadino chi nasca da un genitore cittadino (jus sanguinis), e quello secondo cui è cittadino chi nasce nel territorio dello Stato (jus soli). Il primo è il criterio da sempre seguito dall’Italia: eccezionalmente, si riconosce la cittadinanza per nascita a chi nasca nel territorio italiano da genitori ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non acquista la cittadinanza dei genitori secondo la legge dei rispettivi Stati.

Chi non nasce cittadino può acquistare la cittadinanza chiedendola, al verificarsi di certe condizioni di legge (per esempio, in base alla nostra legge, può acquistarla lo straniero nato in Italia che vi risieda regolarmente e ininterrottamente fino al compimento della maggiore età; e può acquistare la cittadinanza chi abbia contratto matrimonio con un cittadino italiano); oppure per “concessione” da parte dello Stato, alle condizioni stabilite dalla legge. Attualmente, in via generale, la cittadinanza italiana può essere concessa allo straniero dopo dieci anni di residenza regolare in Italia (prima della legge del 1992 bastavano cinque anni).

La nostra tradizione legislativa è rimasta sempre ancorata alla cittadinanza “di sangue”. E’ cittadino italiano anche chi nasca all’estero da genitore cittadino, pur se risieda stabilmente all’estero e acquisti un’altra cittadinanza per nascita. Inoltre la nostra legge prevede la conservazione della cittadinanza da parte di chi è nato cittadino, anche se si trasferisca stabilmente all’estero, a meno che, acquistando un’altra cittadinanza, volontariamente rinunci a quella italiana. Prevede altresì condizioni di favore per l’acquisto successivo della cittadinanza da parte di chi sia nato da genitore straniero, ma abbia un genitore o un nonno che sia stato in passato cittadino italiano per nascita (gli oriundi). Anche l’acquisto di una nuova cittadinanza nel paese di immigrazione non comporta di per sé la perdita della cittadinanza italiana, salvo che non sia l’interessato a rinunciarvi: il cittadino che possiede o acquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa volontariamente rinunciare solo se risieda all’estero.

In definitiva, può essere cittadino italiano anche chi non abbia mai vissuto in Italia, e possa non avere mai condiviso, fuori dalla propria famiglia di origine, cultura e modi di vita del nostro paese.

Al contrario, l’acquisto della cittadinanza italiana da parte degli stranieri non “oriundi” è ancorato a requisiti temporali di residenza molto lunghi, e non è quasi mai automatico.

 

 

Lo status di cittadino o di straniero, mentre non può dar luogo a discriminazioni di sorta quanto al godimento dei diritti civili e, in linea di principio, dei diritti sociali, è invece decisivo per due aspetti. Il primo riguarda il diritto di entrare e rimanere nel territorio nazionale, che spetta senza limiti né eccezioni solo ai cittadini, mentre per gli stranieri (extracomunitari: per i comunitari valgono regole diverse) occorre una speciale autorizzazione (il permesso di soggiorno), subordinata a requisiti e a condizioni temporali stabilite dalla legge.

Il secondo aspetto concerne il godimento dei diritti politici (essenzialmente l’elettorato attivo e passivo) che in linea di principio spettano di diritto solo ai cittadini italiani (anche se non è detto che non posano essere estesi ad altri dalla legge).

In questo modo accade che sia cittadino italiano, e come tale abbia il diritto di voto per tutte le elezioni, anche chi non vive e magari non ha mai vissuto in Italia (infatti attualmente sei seggi al Senato e dodici alla Camera sono riservati ai cittadini residenti all’estero, che votano per corrispondenza: innovazione costituzionale introdotta nel 2000-2001, sul cui concreto funzionamento esistono molti dubbi). Per altro verso, gli stranieri che vivono da tempo in Italia, che qui lavorano, pagano le tasse, hanno famiglia e figli, non godono del diritto di elettorato attivo e passivo, non solo per le elezioni politiche, ma nemmeno per quelle amministrative locali, non avendo l’Italia mai aderito al capitolo della convenzione di Strasburgo del 1992 che contempla il diritto di voto amministrativo per gli stranieri anche extracomunitari residenti da almeno cinque anni (ciò non vale per i cittadini di uno Stato dell’Unione europea, cui è riconosciuto il diritto di voto nelle elezioni comunali e per i rappresentanti italiani nel Parlamento europeo).  E’ un paradosso, che almeno in parte si spiega con il tradizionale ancoramento del diritto di voto alla cittadinanza, oltre che col timore di alcune forze politiche circa i possibili orientamenti politici degli stranieri che acquisissero il diritto di voto.

 

 

Le regole sull’acquisto della cittadinanza sono affidate alla legge, e non sono previste dalla Costituzione (se non per quanto riguarda i generali principi di eguaglianza e di ragionevolezza che devono comunque presiedere alle scelte legislative). La stessa Costituzione si è preoccupata di affermare la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all’estero (art. 35), mentre nulla dice in ordine all’acquisto della cittadinanza italiana da parte degli stranieri immigrati, rinviando quanto alla condizione dello straniero alle norme del diritto internazionale.

Tradizionalmente, quella della cittadinanza e dei diritti ad essa collegati è materia rimessa alla “sovranità” dei singoli Stati: anche se la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosce ad ogni individuo il diritto di avere una cittadinanza e afferma che “nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza” (art. 15).

Nella storia, fenomeni di migrazioni di massa, come si sa, si sono sempre verificati, e riguardano oggi per noi largamente non solo le migrazioni all’interno del continente europeo (a cui la popolazione italiana tradizionalmente ha contribuito “in uscita”), ma anche le migrazioni da e verso altri continenti, in relazione alle profonde differenze di sviluppo esistenti e quindi alla spinta a emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. Tali fenomeni non possono non avere riflessi anche sulla disciplina dell’acquisto della cittadinanza nei singoli Stati, e quindi anche in Italia, che da paese di forte emigrazione si è ormai trasformato in paese di consistente immigrazione.

 

 

La legge ora in discussione in Parlamento prevede due nuove ipotesi di acquisto della cittadinanza in certo modo miste, in cui alla nascita nel territorio italiano o ad altre circostanze obiettive si accompagna una richiesta esplicita. La prima è quella di chi nasca in Italia da genitore straniero titolare di permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo (a questa ipotesi ci si riferisce parlando in proposito di jus soli). La seconda ipotesi è quella di chi sia venuto a risiedere in Italia prima di compiere dodici anni e qui abbia concluso un ciclo scolastico almeno quinquennale, o abbia seguito un percorso di istruzione e formazione professionale conseguendo la qualifica (si parla di jus culturae). In tutti due i casi la cittadinanza non è attribuita però automaticamente, bensì su domanda del genitore, presentata prima che il figlio raggiunga la maggiore età, oppure su domanda dell’interessato entro i due anni successivi.

In sostanza, mentre oggi lo straniero nato in Italia può acquistare la cittadinanza italiana, a certe condizioni, solo quando compie la maggiore età, e quello nato all’estero può ottenere la cittadinanza “per concessione” solo dopo dieci anni di regolare residenza, in base alla nuova legge chi nasce in Italia o studia in Italia può diventare subito e di diritto cittadino, per volontà del genitore, se ricorrono i requisiti di cui si è detto.

Il senso, positivo, di questa nuova disciplina, oltre che di una misura di giustizia, è quello di favorire l’integrazione degli stranieri che nascono o entrano in Italia da minorenni e vi restano. L’attribuzione della cittadinanza concorre certamente a rendere e a far sentire questi ragazzi parte integrante a pieno titolo della comunità in cui vivono, di cui condividono per lo più cultura e modi di vita, e a impedire che essi subiscano ingiustificate discriminazioni di fatto.

Una famiglia con figli minori, che di fatto è insediata da tempo in Italia e qui ha una situazione consolidata, e che manifesta il desiderio di far acquisire al figlio, il quale qui è nato o è cresciuto e ha studiato, lo status di cittadino italiano, manifesta una volontà di maggiore integrazione nella società italiana, che sarebbe ingiusto e miope non assecondare.

Il tema dell’integrazione nella comunità nazionale degli stranieri residenti è cruciale ai fini del governo delle migrazioni di massa, al di là delle regole sui flussi migratori e sull’accoglienza. Spesso si parla del dovere per gli immigrati di acquisire la conoscenza della lingua e degli aspetti essenziali del nostro ordinamento. Ma si dovrebbe parlare anche dei modi con i quali la comunità nazionale e le istituzioni debbono operare per integrare gli immigrati, offrendo ad essi gli strumenti necessari e prevenendo la formazione di separazioni e di ghetti che ostacolino la piena convivenza.

Ciò non vuol dire imporre forme di assimilazione che mirino a staccare le persone provenienti da altri paesi e culture dalle loro radici. Intanto, nel caso, l’acquisto della cittadinanza italiana è sempre legato a una manifestazione di volontà del genitore, ovvero dello stesso interessato quando raggiunge la maggiore età; e alla cittadinanza acquistata in base alla dichiarazione del genitore il figlio può rinunciare entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.

In ogni caso, l’acquisto della cittadinanza italiana non significa rifiuto della propria identità originaria, La convivenza nella comunità civile è e deve essere convivenza fra diversi, anche portatori di diverse eredità, di diverse identità etniche, culturali e religiose, ma accomunati dalla condivisione di valori civili comuni. Le diverse origini e identità non solo non contraddicono, ma anzi arricchiscono la convivenza, come mostrano le “mescolanze” che nell’ambito della nostra popolazione hanno da sempre caratterizzato i fenomeni di migrazione interna. Divenire cittadino italiano, per chi stabilmente risiede in Italia, non vuol dunque dire necessariamente abbandonare le proprie radici, per acquistare una identità totalmente nuova, ma vuol dire divenire pienamente e volontariamente membro a tutti gli effetti di una comunità che condivide valori comuni e rispetta la ricchezza delle diversità. Così come, si è detto, il cittadino italiano emigrato, il quale acquista un’altra cittadinanza, non perde quella italiana se non vi rinuncia volontariamente.

 

 

La scelta della cittadinanza italiana, con quel che ne consegue in termini di diritti, specie politici, oltre che di doveri, è una scelta che va dunque facilitata e incoraggiata, come significativo strumento di integrazione. La nuova legge, che risponde alle caratteristiche e ai problemi di un paese che da terra di emigrazione è divenuta ormai terra di immigrazione, va nella direzione giusta, ed è auspicabile che essa sia sollecitamente approvata.