Il governo Meloni e il decreto anti-ONG

Un messaggio identitario dell’ideologia nazional-populista


Maurizio Ambrosini | 25 Gennaio 2023

Tra i primi atti del governo Meloni, ha trovato grande rilievo la guerra contro le ONG che salvano le persone in mare. Non è una sorpresa, perché da anni ormai il contrasto verso le organizzazioni umanitarie è un marchio di fabbrica dei nazional-populismi europei, e non solo. Soggetti indipendenti dal potere statale, spesso basati all’estero, in grado di finanziarsi grazie a donazioni e raccolte di fondi, sono diventati un bersaglio dichiarato per governi che fanno dei confini e della sovranità statuale un valore inscalfibile, superiore alla tutela dei diritti umani, alle convenzioni internazionali, alla Carta delle Nazioni Unite. Di solito sono Stati autoritari, come la Russia di Putin o l’Iran degli ayatollah a perseguitare le ONG, obbligandole a chiudere o a spostarsi all’estero, ma anche governi a guida sovranista come quello di Orbán in Ungheria hanno messo nel mirino le organizzazioni internazionali indipendenti: in quel caso un’università di eccellenza come la Central European University, sotto il pretesto del patrocinio di George Soros.   In Italia, dopo lo scontro con la Francia per il rifiuto di accogliere la nave Ocean Viking, quasi un manifesto inaugurale del nuovo governo, è arrivato il decreto che ha l’obiettivo di regolamentare le attività di salvataggio delle navi messe in mare dalle ONG. Un dato può servire a cogliere la natura essenzialmente ideologica dell’iniziativa: sui circa 100.000 sbarcati in Italia dalle sponde meridionali del Mediterraneo, appena l’11,2% è stato tratto in salvo dalle navi umanitarie. Tutti gli altri sono arrivati in altro modo: con i propri mezzi anzitutto, poi perché soccorsi da navi mercantili, per finire con i salvataggi operati -in silenzio forzato per ragioni politiche- da Marina militare e Guardia Costiera. In sostanza il governo ha individuato un bersaglio politicamente visibile e ben identificabile, ma sostanzialmente marginale sul punto in questione. In difficoltà nel marcare l’annunciata discontinuità dal governo Draghi, basti pensare alla tassazione dei carburanti, ha sparato sulle ONG per lanciare un messaggio identitario ai propri elettori e a un pubblico sensibile alle campagne anti-accoglienza. L’approccio che il governo ha voluto far passare è quello di un’attività di salvataggio intrinsecamente riprovevole e dannosa per il paese: come se si trattasse di un sistema di trasporto dal profilo oscuro e sospetto, da sottoporre a una regolamentazione stringente. Già Minniti, va ricordato, all’epoca del governo Gentiloni e del picco degli sbarchi dalle coste africane, aveva varato un codice di regolamentazione che aveva allontanato le navi umanitarie dal canale di Sicilia. Ora le norme introdotte dal governo Meloni hanno puntano a rendere più complesso e costoso il soccorso in mare. Serve a questo l’obbligo di raggiungere “senza ritardi” il porto assegnato dalle autorità italiane, innescando un dibattitto tuttora irrisolto: se dopo aver compiuto un primo salvataggio il capitano riceve un nuovo SOS per soccorrere altri naufraghi, deviando dalla rotta e procrastinando l’approdo, come dovrebbe comportarsi? Dovrebbe abbandonare le persone al loro destino per rispettare l’obbligo dell’immediato rientro in porto? Lo stesso dilemma si pone per l’insistenza sull’idoneità tecnico-nautica: se un salvataggio dovesse soccorrere più persone di quelle autorizzate a salire a bordo, quelle in eccesso dovrebbero essere lasciate affondare?   Un altro vincolo si riferisce all’assegnazione di porti lontani dalle coste meridionali per lo sbarco, sotto il pretesto di decongestionare i porti siciliani o meridionali solitamente utilizzati. In realtà i naufraghi, una volta sbarcati, presentando domanda di asilo vengono rapidamente distribuiti in altre regioni. Il vero obiettivo è dunque quello di accrescere i tempi e i costi delle operazioni di salvataggio a carico delle ONG.   La norma potenzialmente più insidiosa è però un’altra: il decreto prescrive l’obbligo di informare i naufraghi “della possibilità di richiedere la protezione internazionale”, raccogliendo “i dati rilevanti”. Traspare l’intento di scaricare la responsabilità dell’accoglienza sugli Stati di bandiera delle navi, come peraltro più volte annunciato dai ministri competenti e dai loro supporter mediatici. Qui si rischia il paradosso: se una nave batte bandiera panamense, i richiedenti asilo dovranno essere inviati a Panama? Come minimo, si proocheranno tensioni con paesi amici, che accolgono fra altro più rifugiati dell’Italia (25 ogni 1.000 abitanti in Svezia, 14 in Germania, 6 in Francia, meno di 4 in Italia). Sorgono poi problemi sul piano legale: le richieste di asilo vanno presentate alle autorità statali, che hanno il potere di verificare l’identità delle persone e l’autenticità delle loro dichiarazioni. E’ alquanto problematico che possano esserne incaricati dei soggetti privati, sprovvisti di una veste giuridica idonea e concentrati su complesse attività di salvataggio e di prima assistenza.   L’inosservanza delle norme  comporta severe sanzioni pecuniarie. Può apparire un progresso rispetto alle conseguenze penali introdotte dal primo governo Conte, su iniziativa dell’allora ministro Salvini: basti ricordare l’arresto e il successivo processo contro Carola Rackete, sebbene concluso con la vittoria dell’accusata. In realtà però con le nuove norme le sanzioni sono irrogate dai Prefetti, quindi tramite loro direttamente dal governo, evitando il ricorso alla magistratura e procedendo con tempi molto più rapidi. È un altro modo di criminalizzare la solidarietà, altra tendenza da tempo riscontrabile nel teatro del controllo dei confini. Vi hanno fatto ricorso per esempio le autorità greche, arrestando attivisti e soccorritori sull’isola di Lesbo, in modo da conseguire l’obiettivo di allontanare le ONG impegnate nei soccorsi e nel monitoraggio dei comportamenti delle guardie di frontiera. Tra i 24 accusati, la nuotatrice siriana Sarah Mardini, divenuta celebre come protagonista di un film, “Le nuotatrici”, che ha passato tre mesi in carcere preventivo nel 2018.  Per loro si è mossa anche l’ONU, chiedendo di ritirare le accuse a chi ha salvato la vita di molti profughi. E’ di questi giorni la notizia di una prima vittoria processuale, l’annullamento di uno dei processi per vizi procedurali, ma restano in piedi contro di loro accuse tanto gravi quanto incredibili: traffico di persone, frode, concorso in un’organizzazione criminale e riciclaggio di denaro. Neppure la Francia si è tirata indietro, mandando a processo l’agricoltore-attivista Cédric Herrou che accoglieva in val Roya sui suoi terreni i profughi in transito dal confine italiano: in quel caso però la Corte Costituzionale transalpina ha solennemente affermato che il principio di fraternità  meritava lo stesso grado di tutela di quelli di libertà e uguaglianza, liberando le attività umanitarie dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. In Italia gli episodi non sono mancati: oltre ai vari processi contro le ONG, si possono ricordare le azioni giudiziarie contro gli attivisti romani di Baobab che accoglievano i migranti in transito alla stazione Tiburtina e li aiutavano a proseguire il viaggio verso il Nord Europa, o gli anziani coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, che accoglievano chi arrivava dalla rotta balcanica, e persino contro un religioso, il prete eritreo padre Mussie Zerai Yosief, che riceveva sul suo telefono gli appelli delle persone in mare e li smistava ai soccorritori. Finora i processi si sono sempre conclusi con l’assoluzione degli imputati, ma  l’obiettivo delle autorità non è quello di arrivare a delle condanne che esalterebbero dei martiri, quanto piuttosto quello della deterrenza, di scoraggiare e disperdere volontari, attivisti, organizzazioni solidali. La persecuzione delle ONG e dell’attivismo solidale si salda infatti con la criminalizzazione degli stessi richiedenti asilo, definiti “arma ibrida” al confine tra Polonia e Bielorussia, o “animali” da Donald Trump. Meno violenta, ma ugualmente priva di umanità, la definizione di “carico residuale” adottata dal ministro Piantedosi. Le persone scompaiono, la loro appartenenza al genere umano diventa evanescente, l’obbligo di soccorrerle è ridefinito come secondario. Difatti, se il governo volesse salvare i naufraghi senza lasciare spazio alle ONG che tanto aborrisce, potrebbe organizzare un’altra operazione Mare Nostrum, mobilitando la Marina Militare. Ma un’ipotesi del genere non è stata neppure accennata.   L’accoglienza dei richiedenti asilo non è dunque un problema circoscritto a una componente sfortunata dell’umanità: è una questione che coinvolge l’identità europea e i suoi valori fondanti.