Il patto UE sull’immigrazione e l’asilo

Un passo indietro su diritti umani e accoglienza


Maurizio Ambrosini | 17 Gennaio 2024

L’accordo raggiunto il 20 dicembre scorso a livello europeo su un nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo è stato salutato dai protagonisti come una svolta storica. Dopo sette anni di tentativi e tre anni di negoziati sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, c’era bisogno di esibire un risultato concreto in vista delle elezioni europee del prossimo giugno. E non è detto comunque che ci si riesca, perché l’accordo deve ancora essere formalmente approvato dal Parlamento europeo. Proseguono le discussioni tecniche, e resta da superare la contrarietà del governo ungherese, che forse obbligherà a nuove modifiche. In mancanza di una versione definitiva, le linee guida del Patto sono comunque chiare. Il testo si articola in cinque capitoli:

  • Regolazione della selezione all’ingresso, mediante regole uniformi di identificazione di chi chiede di varcare i confini dell’UE;
  • Regolazione Eurodac, con lo sviluppo di un database comune tra i paesi membri sui nuovi entranti;
  • Regolazione delle procedure per l’asilo, con l’obiettivo di renderle più rapide ed efficaci;
  • Regolazione della gestione della migrazione e dell’asilo, stabilendo un nuovo meccanismo di solidarietà tra gli Stati membri e regole chiare sulla responsabilità di gestione delle domande di asilo;
  • Regolazione delle situazioni di crisi e di forza maggiore, facendo in modo che l’UE sia preparata in futuro a fronteggiare gli eventi imprevisti, “inclusa la strumentalizzazione dei migranti”1.

Senza entrare nei dettagli, concentriamo l’attenzione su alcuni aspetti salienti. Uno è il parziale superamento della convenzione di Dublino, quella che obbliga lo Stato d’ingresso a farsi carico delle domande di asilo, con l’introduzione di una forma di solidarietà obbligatoria, con la redistribuzione dei profughi verso altri paesi dell’UE “in caso di aumento improvviso degli arrivi”: una clausola che farà di certo discutere, e che rischia di mettere in discussione il progresso compiuto. I numeri sono comunque modesti: la redistribuzione dovrebbe partire con 30.000 posti all’anno, che diventerebbero 60.000 l’anno successivo, poi 90.000, fino a 120.000 dal quarto anno in poi. Si tratta di una quota molto minoritaria delle persone che ogni anno presentano una domanda di asilo nell’UE: oltre 960.000 nel 2022. Per gli altri continuerà a essere applicata la convenzione di Dublino, ossia la responsabilità dello Stato di primo ingresso. Semmai va ricordato che, contrariamente alle opinioni diffuse, solo nell’8% dei casi nel 2022 (come negli anni precedenti) era l’Italia, con 77.000 domande di asilo, contro 218.000 per la Germania, 137.000 per la Francia, 116.000 per la Spagna.

Inoltre, come già preannunciato dalle bozze circolate in precedenza, i governi che non vogliono accogliere richiedenti asilo sul loro territorio disporranno di un’alternativa: versare una somma di 20.000 euro per ogni persona rifiutata. Sembra una compensazione piuttosto blanda, ma il governo ungherese (e in precedenza anche quello polacco) ha recisamente rifiutato questa possibilità. Sul versante italiano, anche il ministro Piantedosi ha dichiarato di non voler accettare contributi in denaro in cambio dell’accoglienza dei profughi, anzi ha spiegato che un grande paese come l’Italia non ne ha bisogno. In nome dell’orgoglio nazionale, ha rinunciato all’argomento dei costi dell’accoglienza come motivo per la chiusura ai rifugiati.

L’accordo va però incontro alle aspettative dei paesi interni dell’UE prolungando da 12 a 20 mesi il blocco dei profughi nei paesi di primo arrivo, fatta eccezione per le persone salvate in mare (per cui rimane a 12 mesi) e introducendo procedure semplificate per rimandare i richiedenti asilo che varcano i confini interni dell’UE verso il paese di primo ingresso: Bruxelles intende contrastare più efficacemente le “seconde migrazioni” e accrescere il numero dei dublinati, ossia i profughi rimbalzati indietro dopo aver cercato d’insediarsi in un altro paese europeo. Fa parte di questo disegno il prelievo dei dati biometrici anche sui bambini, a partire dai sei anni di età, contro i 14 attuali: ufficialmente per proteggerli, ma più verosimilmente per poterli più facilmente rimandare nel paese d’arrivo.

I maggiori sforzi si sono concentrati però sulla restrizione degli ingressi, della possibilità di ottenere asilo o comunque di rimanere nell’UE. Anzitutto si procederà all’unificazione delle procedure per la presentazione e la valutazione delle domande di asilo, in luogo delle procedure nazionali finora vigenti. I profughi arrivati nell’UE saranno trattenuti per sette giorni in appositi centri d’identificazione ai confini, al fine di accertarne l’identità e sottoporli a controlli medici e di sicurezza. L’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) ha stigmatizzato al riguardo il fatto di aver introdotto “la finzione giuridica di non ingresso”, configurando le zone di frontiera come aree extra-territoriali, istituendo zone grigie dal punto di vista giuridico e rischiando di escludere i profughi da una tutela effettiva dei loro diritti. Inoltre, trattenere forzatamente i profughi entrati spontaneamente sul territorio, via terra o via mare, significa privare inutilmente della libertà a persone spesso vulnerabili e bisognose di protezione.

Il trattenimento ai confini è finalizzato soprattutto a rendere operativo un più severo vaglio delle domande di asilo e un più rapido rimpatrio delle persone diniegate. Così almeno sperano i responsabili europei e nazionali. Verrà infatti introdotta una procedura accelerata per l’esame delle domande, basata su una lista di paesi considerati sicuri, perché meno del 20% delle richieste d’asilo di profughi provenienti da quei paesi sono state in precedenza accettate.  I profughi originari di un paese della lista vedranno esaminata la propria domanda di asilo in tempi ridotti a 12 settimane, e potranno nel frattempo essere detenuti. Si pensa evidentemente che si tratti di domande infondate, destinate al respingimento, a cui dovrebbe seguire (in teoria) in tempi brevi il ritorno forzato nel paese di origine.

Sono previsti a questo scopo altri tre mesi di detenzione. Anche su questa disposizione ASGI ha richiamato l’attenzione, denunciando un sistema “non solo repressivo ma anche discriminatorio sulla base della nazionalità”. Il trattenimento in frontiera oltre le 12 settimane, in attesa del rimpatrio, significa inoltre “accanirsi nella violazione del diritto alla libertà personale”, esponendo le persone migranti al rischio di refoulement, ossia di espulsione verso paesi in cui la loro sicurezza e integrità personale sarebbero a rischio. Va aggiunto che l’accelerazione dei tempi di valutazione delle domande non richiede solo norme più agili, ma una dotazione di personale adeguata, ossia investimenti di risorse da parte dei governi. Così come i rimpatri richiedono accordi con i paesi di origine, che vanno definiti, finanziati e resi operativi.

L’obiettivo di una maggiore efficacia nell’espulsione dei profughi sgraditi viene inoltre perseguito mediante un’altra disposizione, di cui il governo italiano si è intestato la paternità: la possibilità di espellere i richiedenti asilo diniegati non verso il loro paese di origine, ma eventualmente anche verso un paese con cui abbiano comunque dei “ragionevoli legami”, per il fatto per esempio di esservi transitato. Si apre così la strada a respingimenti verso paesi del Nord Africa come Libia e Tunisia, esponendo le persone coinvolte a violenze, vessazioni, violazioni dei diritti fondamentali.

Al di là di queste disposizioni, il patto insiste sulla collaborazione con i governi dei paesi di origine e di transito: quella che tecnicamente si chiama dimensione esterna delle politiche migratorie. Gli obiettivi dichiarati sono cinque: sostenere i paesi che ospitano rifugiati e comunità di accoglienza; creare opportunità economiche vicino a casa, in particolare per i giovani; lottare contro il traffico di migranti; migliorare il rimpatrio e la riammissione, intensificare i rimpatri volontari e contribuire al reinserimento; sviluppare canali regolamentati per la migrazione legale.

Il linguaggio è molto accorto, ma la visione politica sottostante è chiara: l’UE intende operare per trattenere i profughi nei paesi di transito, finanziando l’accoglienza; meglio ancora, per promuovere lo sviluppo dei paesi di origine, ignorando le evidenze sui nessi tra la prima fase di un processo di sviluppo e l’aumento delle partenze. Insiste sui rimpatri, volontari e forzati, e sul reinserimento in patria. Rilancia la criminalizzazione dei trasportatori, assemblati sotto l’etichetta di trafficanti, nascondendo il fatto che per chi fugge da paesi in via di sviluppo non vi sono alternative: la lotta ai trafficanti è in realtà una lotta contro i rifugiati. In cambio, le istituzioni europee e i governi nazionali offrono una cauta apertura agli ingressi per lavoro, ma è assai dubbio che possa riguardare paesi in guerra o soffocati da regimi oppressivi e nemici dell’Occidente, come Siria, Afghanistan, Sudan.

Ursula von der Leyen, nel discorso in dieci punti tenuto in occasione della sua visita a Lampedusa, aveva d’altronde espresso senza reticenza la linea della Commissione da lei presieduta. Oltre a maggiori trasferimenti dei rifugiati verso altri paesi europei, più rimpatri, più lotta ai trafficanti, più sorveglianza navale e aerea, distruzione delle imbarcazioni utilizzate nelle traversate, accelerazione delle procedure per l’esame delle domande di asilo, offerta di (alcuni) percorsi legali d’ingresso, prevenzione degli arrivi mediante l’attuazione di accordi come quello con la Tunisia, esplicitamente citato nell’occasione. Non stupisce che Giorgia Meloni si sia dichiarata d’accordo, e abbia potuto sostenere che Bruxelles si è allineata con le sue posizioni.

  1. https://home-affairs.ec.europa.eu/news/historic-agreement-reached-today-european-parliament-and-council-pact-migration-and-asylum-2023-12-20_en. 20 dicembre 2023.