Il Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi sociali 2024-2026 e il ruolo degli ETS
Alceste Santuari | 21 Maggio 2025
Nei giorni scorsi, il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha approvato il Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi sociali 2024-2026. Il Piano, tra l’altro, dedica uno spazio affatto marginale al principio di sussidiarietà e, conseguentemente, al ruolo che gli Enti del Terzo settore possono svolgere, in specie nel contesto della riforma degli Ambiti Territoriali Sociali (ATS).
Nello specifico, nel Piano si legge che:
“la “buona” capacità di governance degli ATS si sostanzia anche nella capacità di evitare ogni indebita forma di sostituzione e/o di delega di funzioni pubbliche agli ETS e ogni strumentalizzazione per garantire piuttosto la piena attivazione di un equilibrato processo di partenariato fra ETS e PA, in maniera uniforme in tutto il Paese.” (p. 17).
Questo passaggio merita particolare attenzione, atteso che in esso è identificabile, da un lato, una interpretazione genuina del principio di sussidiarietà e, dall’altro, l’altrettanto ruolo genuino che gli ETS sono chiamati a svolgere nell’ambito degli interventi e dei servizi sociali.
In ordine al principio di sussidiarietà, appare opportuno, anche in questa sede, ribadire che il termine sussidiarietà deriva dal latino subsidium ed evoca l’idea di riserva, di rinforzo, di soccorso. Si tratta di un concetto da tempo conosciuto, le cui radici culturali sono rintracciabili in correnti filosofiche, teologiche e nel pensiero politico dei secoli scorsi. In particolare, muovendo dalla realtà di una società divisa in gruppi e ordini sociali, che tuttavia rimane caratterizzata da una generale solidarietà, che costituisce un legame di natura, Althusius ha proposto una regolazione pattizia fra i diversi gruppi secondo la quale il gruppo o l’istanza sociale di rango inferiore accetta di essere sostituita da quella di rango superiore soltanto nello svolgimento dei compiti che essa ritiene non rientrare nelle proprie possibilità.
Nei secoli successivi, in specie dopo l’affermazione del giacobinismo quale forza ostile al pluralismo sociale, il principio di sussidiarietà trova epigoni e promotori in diversi filoni di pensiero. Un’accezione in senso negativo del principio di sussidiarietà è rintracciabile nel pensiero liberale, che ne elabora un approccio finalizzato a ridurre il più possibile l’intervento (rectius: ingerenza) delle istituzioni pubbliche nei rapporti economici, escludendo, conseguentemente, una dimensione comunitaria della società e del bene comune. Nel pensiero di Proudhon, invece, la sussidiarietà è interpretata alla stregua di un’idea contrattualistica attraverso la quale legittimare l’intervento sussidiario dell’istanza superiore, accompagnata da una valorizzazione del federalismo come sistema di rapporti che può valorizzare il principio di sussidiarietà.
Una concezione maggiormente valorizzatrice delle istanze personalistiche e pluraliste, unitamente ad una preferenza per il livello comunitario più vicino ai bisogni dei cittadini sono rinvenibili nella dottrina sociale della Chiesa a partire dall’enciclica Quadrigesimo anno del 1931 di Papa Pio XI. Dall’Enciclica si desume che il principio di sussidiarietà può scomporsi in due componenti, una negativa e una positiva. Da un lato, la sussidiarietà può essere interpretata alla stregua di un criterio di apertura e favore nei confronti delle varie manifestazioni degli individui singoli e delle formazioni sociali e delle attività che da questi sono esercitate autonomamente. E ciò, conseguentemente, comporta anche un dovere in capo ai decisori pubblici di non intervenire laddove l’azione dei corpi sociali sia rivolta a realizzare gli stessi fini perseguiti dagli enti pubblici. Dall’altro, la sussidiarietà implica un intervento sostitutivo delle istituzioni pubbliche nei casi in cui i singoli cittadini e le collettività minori non riescano a svolgere in modo adeguato i compiti di cura degli interessi collettivi.
Da questi due profili del principio di sussidiarietà discende che il sussidio che l’entità maggiore deve dare a quella minore subisce delle limitazioni: quando la prima abbia portato la seconda a un livello tale che la stessa possa proseguire con le proprie forze al fine di soddisfare i propri bisogni, la maggiore deve ritirarsi e intervenire solo quando la minore si trovi nuovamente nelle condizioni di essere aiutata.
Il principio di sussidiarietà orizzontale presuppone, in definitiva, che la società, nelle sue varie forme, si ponga al servizio della persona umana considerata sia singolarmente sia nelle varie formazioni sociali in cui può esplicarsi la sua personalità (secondo la massima: civitas propter cives, non cives propter civitatem).
In questa prospettiva, si coglie pienamente il collegamento tra la sussidiarietà e il principio del pluralismo sociale, espresso all’art. 2 Cost., che identifica i corpi intermedi ovvero le istituzioni della società civile. Principio di solidarietà e di sussidiarietà, pertanto, definiscono un nuovo paradigma in cui collocare i rapporti di natura cooperativa e collaborativa tra pubbliche amministrazioni e soggetti non profit nel perseguimento di finalità di interesse generale, escludendo, conseguentemente le regole di mercato, che, invece, caratterizzano le relazioni sinallagmatiche a prestazioni corrispettive.
Ed è – ad avviso di chi scrive – che deve collocarsi l’inciso richiamato in apertura, che stigmatizza, correttamente, forme di deleghe e di de-responsabilizzazioni degli enti pubblici “a favore” degli enti non lucrativi. Questi ultimi, infatti, non sono chiamati a supplire alle carenze degli interventi istituzionalmente obbligati, ma a cooperare con le pubbliche amministrazioni nel perseguimento di finalità di interesse generale, che caratterizzano il loro operare (cfr. per tutti, l’art. 1, d. lgs. n. 117/2017). La cooperazione che può realizzarsi tra enti pubblici ed enti del terzo settore sottende dunque l’attivazione di forme di partenariato, strutturate, soggettivizzate, contrattuali ovvero convenzionali, attraverso le quali possano risultare maggiormente e più efficacemente garantiti i livelli essenziali delle prestazioni.
Da quanto sopra discende l’importanza di modelli, strumenti, procedure e forme che non contemplino deleghe di funzioni o mere esternalizzazioni di prestazioni, in una logica binaria di committenza-erogazione. Al contrario, anche il Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali 2024-2026, riconosce la “bontà” di forme collaborative pubblico-private non lucrative, orientate al perseguimento di finalità di interesse generale. La realizzazione di forme adeguate di cooperazione pubblico-privata non lucrativa dovrebbe invero consentire agli enti locali, alle aziende sanitarie e agli ETS di condividere responsabilità, risorse e obiettivi nell’ambito della programmazione, progettazione e gestione delle attività e degli interventi che si rendono necessari allo scopo precipuo di garantire l’esigibilità dei diritti sociali, in specie delle persone più fragili.
Ed è proprio il “principio-obiettivo” di assicurare la fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, sanitarie e civili, a definire l’azione sia delle istituzioni pubbliche preposte per competenza sia degli enti non lucrativi, chiamati a collaborare attivamente alla realizzazione di quell’obiettivo. In quest’ottica, gli istituti giuridici della co-amministrazione, segnatamente, la co-programmazione e la co-progettazione, possono considerarsi come le procedure che naturalmente sono in grado di realizzare concretamente il dialogo e il confronto collaborativo tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore. Co-programmazione e co-progettazione, dunque, quali strumenti da utilizzare per contribuire ad assicurare una adeguata governance degli ATS e, quindi, un’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni socio-sanitarie.