Il razzismo cambia pelle, ma rimane inquietante


Maurizio Ambrosini | 18 Febbraio 2020

Gli allarmi sul razzismo nel nostro paese sono sempre più insistenti. Episodi come quello della mamma nigeriana insultata a Sondrio al cospetto della sua bimba morta, o le minacce a Liliana Segre, o l’allontanamento di tre ragazze con la pelle scura da una discoteca in provincia di Bergamo, o le ricorrenti notizie sul razzismo da stadio, si susseguono con allarmante frequenza. È importante però fare chiarezza sulle forme che può assumere il razzismo, per snidarlo e combatterlo anche dove è meno evidente e conclamato.

 

Il razzismo pseudo-scientifico dell’800 e della prima metà del ‘900 dopo gli orrori del nazismo è diventato improponibile, ma il pregiudizio contro i “diversi” ha adottato nuovi argomenti, apparentemente più presentabili. Sotto Natale il leader della Lega Salvini ha inalberato in pubblico un presepio, ergendosi come difensore delle tradizioni cristiane contro i nemici che vorrebbero distruggerle, identificati ovviamente con gli immigrati. La difesa della (presunta) identità culturale del territorio è una delle più riuscite reincarnazioni del razzismo, con tanto di arruolamento involontario del cristianesimo nel suo armamentario ideologico. Come altre manifestazioni del pregiudizio xenofobo, rinchiude i suoi bersagli in una categoria omogenea: ne fa i “loro”, contrapposti a “noi”. Li schiaccia in una rappresentazione negativa e minacciosa. Li fa apparire aggressivi per poterli aggredire. Respinge l’idea che gli altri siano tra loro differenziati, che non siano affatto un blocco omogeneo e immodificabile, che l’eventuale minaccia vada individuata caso per caso. Il razzismo collettivizza, non accetta la fatica di discernere confrontandosi con i singoli individui.

 

Una seconda molla delle derive razziste è l’inquietudine seminata dalla globalizzazione neo-liberista. I grandi poteri finanziari sono astratti e lontani, i “lupi di Wall Street” sono difficili da identificare e da contrastare. È molto più facile e immediato prendere di mira gli africani sbarcati sulle nostre coste negli ultimi anni, additandoli come la causa di molti problemi. Ripetendo dinamiche purtroppo già viste nella storia europea, in tempi di crisi il malcontento popolare si indirizza verso minoranze deboli, ben identificabili, isolabili. Come nel passato, non mancano imprenditori politici che soffiano sul fuoco per capitalizzare il consenso che nasce dalla paura . Formule ormai ampiamente sdoganate, come “prima gli italiani”, demarcano i confini della comunità legittima e ne rivendicano la priorità nell’accesso alle risorse dello Stato e del mercato, noncuranti delle norme anti-discriminatorie come pure dei fenomeni sociali di mescolanza e transizione da una condizione (stranieri) a un’altra (nuovi cittadini italiani, 460.000 negli ultimi tre anni).

 

Una terza matrice del razzismo contemporaneo è il desiderio di distinzione. Il razzismo è un’arma di distinzione di massa a buon mercato: chiunque può attribuirsi una superiorità morale rispetto a chi fa parte di un altro gruppo umano, iscrivendosi nella categoria dei “migliori”, in base al semplice criterio della cittadinanza o del colore della pelle. Mentre si distingue dal gruppo inferiorizzato, afferma la sua appartenenza a una comunità immaginata, quella dei bianchi, o dei settentrionali, o dei veri cittadini. Distinguersi per ricchezza, istruzione, eleganza, è più complicato e impegnativo, mentre il razzismo è alla portata di tutti.

 

Il razzismo da stadio ha delle analogie con questa grossolana affermazione di superiorità, ma si contraddistingue per la dimensione tribale e provocatoria della sua esibizione. La sua inossidabile persistenza merita qualche approfondimento. Qualcuno si è chiesto in che cosa si differenzia un coro razzista dall’insulto riferito al singolo giocatore, magari tirando in ballo sua madre. Il punto è che l’insulto riferito a una persona può essere becero, sguaiato, sanguinoso, ma resta un’offesa rivolta a un certo individuo. Colpisce lui o lei nella sua singolarità, senza implicazioni collettive. È grave e incivile, ma non coinvolge un gruppo sociale.  Non produce una categoria stigmatizzata. L’insulto razzista gridato allo stadio invece prende di mira un’intera collettività, definita in base al colore della pelle o alla provenienza, e colpisce la persona in quanto appartenente alla collettività presa di mira.

Lo stesso vale per la discriminazione territoriale. Insultando, gli aggressori gridano a gran voce, per di più nella forma collettiva dei cori da stadio, che appartenere a quella collettività, razziale o territoriale, porta con sé un disvalore, un’inferiorità intrinseca, una colpa inestinguibile. Inculcano un’idea antica e feroce, di popoli che rivendicano la propria superiorità su altri popoli, ridicolizzandoli, disumanizzandoli, additandoli al disprezzo pubblico.

Un’altra questione discussa riguarda la severità applicata negli stadi, rispetto alla tolleranza per le espressioni discriminatorie, islamofobe, antitzigane o francamente razziste che circolano liberamente in altri ambiti, social media per primi, ma senza risparmiare la stampa ufficiale e lo stesso Parlamento. Lo hanno posto in evidenza in più occasioni i rapporti della Carta di Roma e di Amnesty International.

La prevenzione del razzismo nella comunicazione pubblica è un problema serio, poiché coinvolge il tema sensibile della libertà di espressione. Meriterebbe più attenzione e più regolazione, ma non è possibile affrontarlo in questa sede. Ciò che invece richiede di essere sottolineato è il valore pubblico e comunicativo della repressione del razzismo da stadio. Il calcio raggiunge milioni di persone, non solo quelle fisicamente presenti negli stadi ma anche quelle che assistono alle partite mediante le dirette televisive. Si tratta dell’evento di massa più seguito del nostro tempo. Tollerare oppure stigmatizzare oppure reprimere determinati comportamenti ha un impatto sociale eccezionale. Per di più alle partite assistono giovanissimi e giovani che meritano di ricevere messaggi positivi, non incitamenti all’odio razziale. Bene ha fatto pertanto la Lega Calcio, a intervenire sul tema, reagendo finalmente a una lunga latitanza e a una storia di tiepide e reticenti condanne. La soluzione trovata, quella delle tre scimmie dell’artista Simone Fugazzotto, non ha convinto molti, ma l’intento è lodevole. In una lettera aperta dello scorso novembre, la Lega calcio insieme alle 20 società di serie A, ha affermato: “Dobbiamo riconoscere che abbiamo un serio problema con il razzismo negli stadi italiani, e che forse non l’abbiamo combattuto a sufficienza nel corso di questi anni.  Anche in questa stagione le immagini del nostro calcio, in cui alcuni calciatori sono stati vittima di insulti razzisti, hanno fatto il giro del mondo, scatenando ovunque dibattito. È motivo di frustrazione e vergogna per tutti. Nel calcio, così come nella vita, nessuno dovrebbe mai subire insulti di origine razzista. Non possiamo più restare passivi, aspettare che tutto questo svanisca”.

 

Molti cittadini, lontani dagli stadi e dal mondo del calcio, potrebbero sentirsi affrancati dal problema del razzismo. Esistono però anche forme di razzismo più miti, ma non meno dannose, perché s’infiltrano nel linguaggio quotidiano e nei discorsi dei benpensanti. A Milano nel linguaggio parlato si dice comunemente: “quanto prende al mese la tua filippina?”.  Le persone che vengono da un determinato paese vengono consegnate in massa a un destino di collaboratrici familiari. Magari anche rispettate e benvolute, ma pur sempre incasellate in un categoria collettivizzante che fa torto alle individualità e ne compromette il riconoscimento.

L’impegno a scoprire i nostri pregiudizi, le nostre categorizzazioni delle persone, le rappresentazioni stereotipate degli “altri” vale dunque per tutti noi, così come l’avvio  in questo nuovo anno di un serio percorso per liberarcene.