Immigrazione e pluralismo religioso

Dati e motivazioni di un cambiamento d’epoca


Maurizio Ambrosini | 20 Marzo 2019

Una delle grandi questioni che le migrazioni pongono alle società riceventi riguarda l’aumento del pluralismo religioso, con le sue implicazioni culturali e istituzionali. Gli sguardi si appuntano sul ritorno dell’Islam in Europa, in realtà minoritario nel panorama dell’immigrazione: in Italia si tratta di 1,7 milioni di fedeli (stimati) su 5,3 milioni di immigrati. Su numeri di poco inferiori si attesta ormai il cristianesimo ortodosso (1,5 milioni), che sta istituendo parrocchie e centri religiosi in tutto il paese. La chiesa ortodossa rumena, quella più rilevante nel caso italiano, sta estendendo in modo capillare la sua presenza sul territorio grazie ad oltre 200 parrocchie già costituite, ad altre venti in via di costituzione, a più di 100 filiali presso cui viene celebrato il culto di tanto in tanto. Ora non si accontenta più degli edifici religiosi concessi parzialmente o completamente dalla chiesa cattolica, ma ha cominciato a edificare propri luoghi di culto, secondo i canoni dell’architettura religiosa ortodossa.

Ma si verifica anche l’insediamento di altre religioni, come il sikhismo, l’induismo, il buddismo, oltre che di diverse versioni del cristianesimo, con la disseminazione di nuove denominazioni della galassia pentecostale. I protestanti nel complesso sono stimati in 220.000 circa. Si assiste poi a una crescente articolazione interna dello stesso cattolicesimo (oltre 900.000 nuovi fedeli), con la formazione di cappellanie “etniche” o la condivisione dei luoghi di culto tra i tradizionali parrocchiani e le aggregazioni degli immigrati che tendono a sviluppare proprie liturgie e attività comunitarie.

 

Un recente volume, Il Dio dei migranti (ed. Il Mulino), ha approfondito questi fenomeni.  Il dato di partenza è che nella separazione dai diversi ancoraggi sociali e morali della loro vita precedente molti immigrati si aggrappano alla religione come elemento di continuità che sopravvive al trasferimento in un contesto alieno. Nelle istituzioni religiose trovano uno spazio accogliente e amichevole, che assomiglia almeno un po’ alla madrepatria, “una piccola porzione di Sion nel bel mezzo di Babilonia”.

Anche in religioni che non hanno appuntamenti settimanali o mensili per il culto collettivo, una delle principali ragioni per lo sviluppo di gruppi a base religiosa fra immigrati è il bisogno di comunità. L’immigrazione separa gli individui, ed eventualmente la loro famiglia, da parenti e amici. Gli incontri religiosi allora diventano importanti, perché rappresentano una preziosa occasione per incontrare dei compatrioti. Il ritrovamento di elementi che richiamano la patria e la memoria del passato,  insieme all’opportunità di coltivare rapporti sociali e di frequentare altri connazionali, sono fattori che alimentano la partecipazione. Questa scelta, per un immigrato che spesso abita lontano dal luogo di culto che meglio risponde alle sue esigenze, comporta l’investimento in uno spostamento che può essere lungo e disagevole, e quindi il sacrificio di buona parte del giorno della settimana normalmente dedicato al riposo.

 

Le religioni degli immigrati non sono però semplicemente trapiantate dai contesti di origine a quello di destinazione. Ieri come oggi, gli immigrati e i loro leader religiosi tendono ad adattare le loro forme di vita religiosa ai nuovi contesti. Cominciamo ad avere per esempio quelli che chiameremmo “cappellani” mussulmani negli ospedali e nelle carceri. Soprattutto nel secondo caso il loro intervento è favorito dalle stesse autorità pubbliche, previa verifica dei requisiti dei candidati, per contrastare il fenomeno della radicalizzazione dei detenuti mussulmani.

Interessante è poi il caso delle cappellanie cattoliche. Trattandosi della religione largamente maggioritaria in Italia, dovrebbe essere normale per degli immigrati cattolici entrare a far parte delle comunità parrocchiali locali, ma questo raramente accade. Come è avvenuto nel passato (e ancora avviene in altri paesi) per molti emigranti delle diverse denominazioni cristiane, i fedeli di origine straniera preferiscono ritrovarsi tra di loro, celebrare il culto nella lingua per essi più familiare, richiamare devozioni, pratiche cultuali, canti e preghiere che li collegano alla madrepatria. Gli immigrati sono disposti anche a percorrere parecchia strada e a investire tempo e risorse, pur di ritrovarsi tra connazionali, per celebrare la «loro» messa, nella «loro» comunità, che rimane ben distinta e autogestita anche quando condivide gli spazi di culto con la comunità storica autoctona. Gli sforzi dei responsabili ecclesiastici cattolici per condurli verso l’assimilazione nella comunità ecclesiale istituzionalmente incardinata sul territorio generalmente falliscono, ieri come oggi, in Italia come in altre parti del mondo.

 

Molte comunità religiose si assomigliano inoltre per il rilievo attribuito alle occasioni di socialità e alle attività comunitarie che seguono o precedono il culto. Molto sentiti sono gli appuntamenti imperniati sulla convivialità e sulla musica: il culto è seguito dal pranzo domenicale, preparato a turno da gruppi e referenti incaricati, a cui seguono spazi per i bambini e per le famiglie o attività più strutturate, come le corali o i gruppi di ballo. Il fervore comunitario, l’impegno nei servizi richiesti, la visibilità assunta nei confronti dei correligionari, contrastano con la marginalità sociale e la posizione subordinata che gran parte degli immigrati sperimentano lungo la settimana nel contesto lavorativo.

Emergono poi forme di impegno sociale poco visibili all’esterno, ma ben radicate nelle comunità meglio organizzate. Si tratta di immigrati che aiutano come possono altri immigrati alla ricerca di cibo, lavoro, riparo, ascolto, sostegno morale.  Stanno assumendo di fatto un ruolo attivo nei confronti delle componenti più deboli dei correligionari: sia nella fornitura di aiuti immediati, sia nel sostegno nella ricerca del lavoro. Un attivismo che ancora si vede poco in ambito politico e sociale, comincia a emergere nell’ambito caritativo, nella forma di una sorta di “welfare dal basso”, informale e volontaristico.

La società ricevente con le sue istituzioni, spesso diffidente o anche spaventata dalla religiosità degli immigrati, è posta di fronte alla necessità di scegliere come misurarsi con questa realtà. La speranza è che ne colga le potenzialità, favorendone gli sviluppi nel senso del dialogo e della coesione sociale, anziché frapporre ostacoli e divieti che separano e seminano contrapposizioni.

Molto interessante a questo proposito è il caso dell’islam: le moschee nei paesi a dominante mussulmana generalmente non si dedicano ad attività sociali, ma nell’immigrazione tendono a trasformarsi in centri poli-funzionali, in cui l’aiuto ai confratelli occupa un ruolo speciale. Non manca chi ha elaborato teologicamente questo aspetto, vedendovi un ritorno all’islam delle origini.

Altrettanto importante è poi la dimensione culturale. Lottando contro svariati svantaggi strutturali, gli immigrati cercano nelle comunità religiose una risposta al desiderio di restare collegati con il passato ma anche di proiettarsi nel futuro: integrandosi ma non perdendosi, acquisendo nuove competenze e abiti mentali ma non rinunciando alla propria identità culturale, imparando a confrontarsi con una società secolarizzata ma continuando a trovare un rifugio spirituale nella propria comunità.

 

La società ricevente con le sue istituzioni, spesso diffidente o anche spaventata dalla religiosità degli immigrati, è posta di fronte alla necessità di scegliere come misurarsi con questa realtà. Ne dipenderanno serie conseguenze per le forme e i tempi d’integrazione degli immigrati, la qualità della convivenza, la coesione sociale del prossimo futuro.