In discussione alla Camera il disegno di legge sullo ius scholae

Sarà la volta buona per una riforma delle norme sulla cittadinanza?


Maurizio Ambrosini | 2 Maggio 2022

È in discussione in questi giorni alla Camera il disegno di legge sul cosiddetto ius scholae: la concessione della cittadinanza italiana a minori stranieri che frequentano le scuole del nostro paese. Il ddl, proposto dall’on. Giuseppe Brescia (M5S), presidente della Commissione Affari Costituzionali, unifica in un breve testo varie proposte presentate nel corso della legislatura intorno al tema assai tormentato della riforma del codice della cittadinanza, risalente al 1992. Della questione e del dibattito sull’accesso alla cittadinanza ci siamo già occupati su Welforum. Ora approfondiamo la nuova proposta.

Il testo recita:

“il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del 12esimo anno di età, che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e che abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici o percorsi di istruzione e formazione professionale acquista la cittadinanza italiana”.

 

Si tratta di una proposta molto breve (due articoli), volutamente minimalista e pragmatica, per ridurre al minimo i conflitti interpretativi e le contese sugli emendamenti.

Ricordiamo che nella formulazione attuale i giovani nati in Italia e residenti ininterrottamente nel nostro paese (esclusi quindi coloro che per esempio in tenera età sono stati ospitati per un anno o due dai nonni nel paese di origine) possono chiedere la cittadinanza italiana al compimento dei 18 anni, e prima dei 19. In confronto, tutti i paesi dell’Europa Occidentale, pur avendo rinunciato al diritto di suolo generalizzato e automatico, prevedono norme più favorevoli per i minori, soprattutto se nati nel paese o arrivati da piccoli. Per esempio in Spagna basta un anno di residenza per chi è nato nel paese, in Germania oltre vent’anni fa è stato introdotto lo ius soli per chi nasce da un genitore residente legalmente nel paese da almeno otto anni.

 

Il ddl Brescia propone una mediazione tra i sostenitori della posizione più liberale, quella di uno ius soli più o meno temperato, e quelli della posizione più conservatrice, che vede la cittadinanza come un traguardo da meritare dopo un percorso lungo e selettivo. Lo stesso proponente ha sottolineato che la sua proposta non prevede lo ius soli. Degno di rilievo è il fatto che si sono pronunciati a favore del ddl Brescia anche gli esponenti di Forza Italia, smarcandosi dalla destra sovranista che rimane risolutamente contraria.

La proposta ha come pilastro l’istruzione scolastica, e dunque la fiducia nella scuola come fabbrica di una cultura nazionale condivisa. Non si prevedono automatismi, ma neppure un’elusione dell’importanza dell’istruzione, come avviene con la legge attualmente vigente. Trascorrere centinaia di ore all’anno nelle aule, educati da insegnanti (italiani) nominati dal Ministero dell’istruzione, insieme a compagni in prevalenza italiani, seguendo programmi di lingua, letteratura, storia, educazione civica che hanno la cultura del nostro paese come perno, dovrebbe garantire un’adeguata socializzazione linguistica e civica: non avremmo “cittadini di carta”, o “loro malgrado” -come hanno sostenuto gli oppositori alle precedenti proposte-, ma giovani non meno preparati di quelli nati da famiglie etnicamente italiane ad assumere lo status di cittadini a pieno titolo.

Lo ius scholae ha almeno un precedente, in Grecia, dove si prevede la possibilità di accesso alla cittadinanza dopo aver frequentato sei anni di scuola nel paese. In Italia sono oltre 800.000 gli alunni con cittadinanza straniera accolti nelle scuole e potenzialmente interessati alla riforma.

Il ddl Brescia, almeno nella formulazione attuale, seguendo l’impostazione greca evita uno scoglio che le associazioni delle seconde generazioni e altre organizzazioni della società civile, audite dal CNEL, avevano criticamente rilevato nei mesi scorsi: non vincola la naturalizzazione al successo scolastico, quindi al conseguimento di un diploma, ma soltanto alla “regolare frequenza”. La cittadinanza moderna ha faticosamente superato diverse restrizioni, soprattutto sul piano del godimento dei diritti politici, basate sul censo, il genere, il livello d’istruzione. Reintrodurne sarebbe problematico sul piano della parità dei diritti. È prevedibile però che sul punto in Parlamento ci sarà battaglia. Forza Italia, che ha presentato soltanto pochi emendamenti mirati, ha però precisato, per bocca del capogruppo in prima commissione Carlo Sarro: “La nostra richiesta, rispetto al testo del relatore Brescia, è che il ciclo scolastico sia effettivamente frequentato e positivamente concluso”. In altri termini, il conseguimento di un diploma sarà con ogni probabilità il principale oggetto del contendere.

Non sarà facile, soprattutto al Senato, superare la contrarietà della destra sovranista. Fratelli d’Italia e Lega hanno mostrato subito la loro opposizione frontale al provvedimento, presentando oltre 700 emendamenti: molti meramente formali e dal chiaro carattere ostruzionistico, altri più sostanziali ma anche provocatori, come il superamento dell’esame di maturità con una votazione di almeno 90/100, o la conoscenza delle sagre paesane o della musica italiana, per accedere alla naturalizzazione. Non mancano le accuse di aprire le porte della cittadinanza a tutti, compresi gli immigrati irregolari.

 

Attualmente all’esame della prima commissione della Camera, il progetto dovrebbe passare in aula, per poi approdare al Senato. Come nella passata legislatura, undici mesi potrebbero non bastare per completare l’iter legislativo. Le divisioni tra i Cinque Stelle, la formazione di un consistente gruppo di fuoriusciti dal partito e anche da altri raggruppamenti, le prevedibili tensioni all’interno di Forza Italia, i dubbi sulla compattezza del PD, seminano incertezza sul percorso del ddl. L’esperienza mostra che non è facile raccogliere il consenso necessario per varare provvedimenti così rilevanti sul piano simbolico e identitario, di cui si può prevedere la strumentalizzazione in una campagna elettorale ormai imminente.

Riformare il codice della cittadinanza significa infatti aprire una discussione sulla concezione della nazione. Sviluppata in epoca romantica, l’idea di nazione ha storicamente oscillato tra una concezione “etnica”, più legata alle comuni origini, alla storia condivisa, alle memorie culturali, spesso anche a una tradizione religiosa (il recente conflitto russo-ucraino ce lo ricorda tragicamente), e una concezione più inclusiva, repubblicana nel senso francese, ossia riferita alla partecipazione sociale, all’adesione ai valori politici fondamentali, alla costruzione di legami con altri cittadini. I paesi d’immigrazione, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, e appunto la Francia, sono di norma più favorevoli alla seconda ipotesi. I paesi che hanno conosciuto una consistente emigrazione verso l’estero tendono a privilegiare maggiormente la prima ipotesi, insistendo sui legami di sangue con i propri cittadini all’estero e con i loro discendenti. Germania e Italia rientrano in questo filone. La Germania però, sia pure in ritardo e con fatica, nel 2000 ha finalmente riconosciuto di essere diventata un paese d’immigrazione e ha adattato la propria legislazione a questa nuova realtà, mentre l’Italia nel 1992 ha rafforzato il primato del diritto di sangue, riaffermando i legami con i propri connazionali all’estero.  Ora forse, dopo vari fallimenti e reticenze, sta suonando anche per il nostro paese la campana del riconoscimento del suo nuovo profilo demografico e sociale.