La Corte di cassazione e il salario minimo adeguato costituzionale


Orsola Razzolini | 6 Novembre 2023

Introduzione: i fatti e il principio affermato dalla Corte di cassazione

Con le sentenze n. 27711, 27713 e 27769 depositate il 2 ottobre 2023, la Corte di cassazione richiama l’attenzione su un punto che nel dibattito politico sul salario minimo era ad oggi rimasto sullo sfondo: non è vero che in Italia non esiste il salario minimo legale; esiste il salario minimo costituzionale e la magistratura ne è il custode.

La portata del principio deve essere calata nella particolarità della vicenda che ne è all’origine e alla quale è utile fare cenno. Alcuni lavoratori dipendenti della società cooperativa Servizi fiduciari, a sua volta appaltatrice di Sicuritalia, chiedono la disapplicazione nei loro confronti del CCNL Vigilanza privata e servizi fiduciari poiché, seppur firmato da Cgil, Cisl e Uil, prevede una retribuzione ritenuta non conforme ai principi di sufficienza e proporzionalità sanciti dall’art. 36 della Costituzione in quanto inferiore persino alla soglia di povertà assoluta calcolata dall’ISTAT (poco più di 4 euro netti all’ora per 687 euro netti mensili).

Nel caso di specie, dunque, non viene in rilievo nessuno dei problemi da tempo denunciati dalla dottrina ed emersi nel dibattito politico1. In primo luogo, il CCNL in questione, fermo al 2013 e da tempo oggetto di attenzione pubblica per il livello bassissimo dei salari previsti, non è un contratto “pirata” poiché è stato firmato dalle associazioni sindacali (Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs) e datoriali (Agci, Anivip, Assiv, Assvigilanza, Confcooperative, Legacoop, Univ, Federlavoro) più rappresentative nell’ambito della categoria. In secondo luogo, la società cooperativa applica un contratto collettivo assolutamente coerente con l’attività esercitata in regime di appalto (attività di portierato, custodia, reception, guardiania non armata), nel pieno rispetto della legge e, in particolare, dell’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007, che per il settore delle cooperative prevede l’applicazione ai lavoratori di un trattamento economico e normativo non inferiore a quello dettato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria2, e dell’art. 11 del nuovo Codice dei contratti pubblici (già art. 30, co. 4 d.lgs. n. 50 del 2016), che impone che ai lavoratori sia applicato il contratto collettivo nazionale il cui ambito di applicazione risulti strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto. Addirittura, scrive il TAR Lombardia nella sentenza del 4 settembre 20233, il CCNL in questione è preso a riferimento dal Ministero del lavoro nella predisposizione delle tabelle relative alla determinazione del costo orario delle prestazioni da applicare ai fini della verifica della congruità delle offerte presentate in sede di partecipazione agli appalti pubblici.

Nonostante ciò, secondo i lavoratori, la retribuzione non può dirsi né proporzionata al lavoro svolto né sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa come viceversa previsto dall’art. 36 Cost. A venire messa apertamente in discussione è, dunque, la capacità delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative di fungere da «autorità salariale»4 nei settori drammaticamente colpiti dal fenomeno del lavoro povero come la vigilanza, ma anche le pulizie e il multiservizi, il lavoro agricolo e il lavoro domestico5.

La Corte di cassazione segue il ragionamento dei lavoratori e si discosta nettamente dalle pronunce rese dalla Corte d’appello di Torino e dal Tar Lombardia, viceversa orientate al rispetto assoluto del ruolo di autorità salariale svolto dalla contrattazione nazionale di categoria qualificata. Per la Suprema corte sia la contrattazione collettiva, sia – ed è questo il punto più significativo – la legge che ad essa espressamente rinvia devono risultare conformi alla nozione di salario minimo costituzionale che si ricava dall’art. 36 Cost., norma immediatamente precettiva di cui il giudice, in virtù dell’art. 2099 c.c., è garante e custode.

I parametri per determinare il salario minimo costituzionale

A differenza del salario minimo legale, quantificato anche nell’ultima proposta legislativa d’iniziativa PD e Cinque stelle nella cifra secca di 9 euro lordi all’ora6, il salario minimo costituzionale è definito attraverso principi di carattere generale, il principio di proporzionalità e quello di sufficienza (art. 36 Cost.), spettando al giudice l’applicazione di tali principi al caso concreto, riempiendoli di contenuto7.

Nell’interpretazione e applicazione dello standard costituzionale al caso concreto, il giudice si avvale di parametri e criteri che nelle due sentenze sono così identificati: il trattamento retributivo previsto da altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe, indicatori economici e statistici e criteri della Direttiva UE 2022/2041 relativa ai salari minimi adeguati alla quale viene così attribuita una immediata rilevanza giuridica nel nostro ordinamento, che ne precede la trasposizione8.

Con riferimento agli indicatori economici e statistici, seguendo un’interessante e innovativa giurisprudenza di merito sviluppatasi negli ultimi anni, la Cassazione valorizza la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT, l’importo della Naspi o della Cig, l’importo del reddito di cittadinanza con la precisazione che tali parametri funzionano in negativo, non in positivo: possono cioè essere utilizzati per corroborare (come avvenuto nel caso di specie) un giudizio di non sufficienza della retribuzione a garantire al percettore una minima sopravvivenza, ma non invece per sostenere un giudizio di sufficienza e proporzionalità della stessa. A tale fine è utile invece fare riferimento, anche avvalendosi di una consulenza tecnica d’ufficio, alle tariffe previste da altri contratti collettivi nazionali, tenendo conto delle mansioni svolte, delle dimensioni e della localizzazione dell’impresa e di specifiche situazioni locali.

Ma la parte più interessante della decisione è quella in cui la Suprema corte sottolinea la necessità di utilizzare anche i criteri forniti dalla direttiva 2022/2041 invocando, a sostegno di tale tesi, il consolidato orientamento della Corte di giustizia secondo cui, nelle controversie tra privati, il giudice nazionale deve fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di diritto nazionale, anche prima del suo recepimento, con un limite preciso: il riferimento alla direttiva «non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale»9.

Tra i criteri della direttiva spicca quello secondo cui il salario minimo adeguato si determina tenendo conto delle necessità materiali ma anche di quelle immateriali, come la partecipazione ad attività culturali, educative, sociali (considerando 28 della direttiva). Inoltre, viene dato risalto al parametro, comunemente impiegato a livello internazionale, costituito dal rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio. Il CNEL, nel documento approvato il 12 ottobre 2023, ha ricordato che, stando ai dati ufficiali ISTAT, disponibili solo per il 2019 visto che mancano quelli del 2022 e che il 2020 e 2021 non sono attendibili a causa degli effetti della pandemia, il 50% del salario medio è pari a 7,10 euro mentre il 60% di quello mediano è pari a 6,85 euro. La paga oraria lorda di un lavoratore inquadrato nella categoria D del CCNL Vigilanza e servizi fiduciari si colloca al di sotto di queste soglie, anche facendo riferimento al trattamento economico orario comprensivo di 13° e quota TFR (6,25 euro).

L’utilizzo da parte del giudice dei criteri previsti dalla direttiva desta alcune perplessità. La prima è che, nella prospettiva della direttiva, i criteri citati si rivolgono soltanto agli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali e servono ad orientarne la valutazione di adeguatezza (v. art. 5, dir. 2022/2041). Dunque, non sembrano poter essere immediatamente utilizzati dal giudice nazionale per sindacare l’adeguatezza del salario minimo contrattuale: soluzione che la direttiva, come noto, privilegia e promuove rispetto a quella del salario minimo legale. Si esce dall’impasse se si ritiene che l’argomentazione della Corte prende le mosse dalla considerazione che, nel settore delle cooperative, esiste in fondo un salario minimo legale definito attraverso la tecnica del rinvio legale alla contrattazione “di qualità”: vi è infatti una norma di legge, l’art. 7, co. 4 d.l. n. 248 del 2007, che rinvia al CCNL stipulato organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria quale parametro per determinare il trattamento economico e normativo dei lavoratori delle cooperative.

La seconda perplessità è che, come dimostra il documento CNEL, i dati ISTAT relativi al salario lordo medio e mediano sono risalenti nel tempo (2019-2021) e mai aggiornati in tempo reale. Il giudice potrà farvi riferimento ma soltanto come un possibile parametro per orientare il proprio giudizio di sufficienza (non di proporzionalità) della retribuzione nel caso concreto.

Infine, nell’interpretare in modo conforme alla direttiva il salario minimo legale – nel caso di specie l’art. 7, co. 4  d.l. n. 248 del 2007 – il giudice nazionale non finisce nei fatti col disapplicarlo così andando oltre il limite tracciato dalla Corte di giustizia con il divieto di interpretazione contra legem?

I limiti del sindacato giudiziale e le implicazioni della sentenza

Il salario minimo costituzionale individuato dal giudice prevale su quello stabilito dal contratto collettivo nazionale di categoria ancorché quest’ultimo fosse stato firmato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (Cgil, Cisl, Uil) ovvero ad esso rinviasse espressamente una norma di legge (l’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007).

Secondo la Suprema Corte è senz’altro vero che la contrattazione collettiva rappresenta nel nostro ordinamento la massima autorità salariale così che i salari da essa determinati sono assistiti da una presunzione relativa di adeguatezza (come riconosciuto anche dalla direttiva). Tuttavia, i principi di sufficienza e proporzionalità sanciti dall’art. 36 Cost. sono «gerarchicamente sovraordinati alla legge e alla stessa contrattazione collettiva» e si «impongono dall’esterno nella determinazione del salario».

In giurisprudenza è da tempo acquisito che, in base all’art. 2099 c.c. e all’art. 36 Cost., la retribuzione prevista dai CCNL è il principale parametro che il giudice utilizza per determinare la retribuzione dovuta al lavoratore in caso di contenzioso: parametro da cui tuttavia egli può sempre discostarsi qualora non corrisponda ai principi costituzionali di sufficienza e proporzionalità. Assai meno scontato è che tale verifica giudiziale possa essere compiuta anche quando sia la legge stessa a rinviare alla contrattazione collettiva, sottoscritta dalle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, ai fini della determinazione del trattamento economico dovuto al lavoratore. Il contrasto tra legge e Costituzione non dovrebbe essere in tal caso risolto dalla Corte costituzionale?

Secondo la Suprema Corte no: la necessità di verifica giudiziale dell’adeguatezza della retribuzione si impone anche qualora alla contrattazione rinvii espressamente “in bianco” una norma di legge. Quando la legge, per la determinazione del salario, delega in bianco le associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative, non è altro se non un mero schermo che si interpone tra il giudice e la contrattazione: schermo che non può valere a rendere quest’ultima immune dal sindacato giudiziale di conformità ai contenuti precettivi dell’art. 36 Cost.

Sul piano tecnico giuridico, questa motivazione non soddisfa appieno, né appare condivisa dalla giurisprudenza amministrativa che si muove su diversi binari. Il richiamo all’interpretazione costituzionalmente orientata non fuga ogni dubbio sul fatto che, nel caso di specie, il sottile confine tra interpretazione e integrazione/creazione del diritto sia stato superato. Ma le sue implicazioni sono di grande interesse e contribuiscono ad offrire una soluzione (pur parziale) al problema dei bassi salari contrattuali e del lavoro povero.

L’implicazione più evidente, subito riconosciuta dalla stessa Corte di cassazione, è che anche un’eventuale futura legge sul salario minimo legale che si limitasse a generalizzare il meccanismo previsto per il settore delle cooperative, operando un rinvio “in bianco” alla contrattazione collettiva di qualità (v., ad esempio, l’art. 2 della Proposta di legge del 4 luglio 2023), non sarebbe immune dal sindacato del giudice condotto sulla base dei principi di sufficienza e proporzionalità. La Suprema corte sembra persino utilizzare tale argomento per stimolare il legislatore ad adottare soluzioni più incisive, come l’individuazione di una soglia oraria minima invalicabile uguale per tutti10.

L’affermazione in apparenza radicale si stempera se letta alla luce del monito di fondo contenuto nella sentenza: la contrattazione collettiva rimane la principale autorità salariale nel nostro paese e da essa il giudice si può discostare in casi eccezionali e limitati, «con grande prudenza e rispetto» e con l’obbligo di motivare tale scelta. In questo contesto, il legislatore potrà in futuro decidere di definire il salario minimo legale attraverso il meccanismo sperimentato per le cooperative, rinviando “in bianco” alla contrattazione qualificata senza indicare una soglia minima oraria invalicabile. Ma in quei settori (per fortuna limitati) in cui la contrattazione non riesce più a svolgere il ruolo di autorità salariale11, il lavoratore potrà invocare il salario minimo costituzionale di garanzia, un generale ombrello protettivo di applicazione giudiziale che contribuirà a rafforzare, pur indirettamente, il potere negoziale dei sindacati.

A differenza del salario minimo legale, quello costituzionale, essendo costruito sulla base di uno standard e non di una rule, non è fisso e uguale per tutti; attraverso il medium della discrezionalità del giudice, potrà variare e tenere conto, a scapito della certezza del diritto, delle diverse esigenze di giustizia sociale che emergono nelle pieghe del caso concreto. D’altra parte, per come è costruito, il salario costituzionale non è il salario minimo uguale per tutti ma è il salario giusto (o adeguato) in un determinato rapporto di lavoro.

Che questo possa essere uno scenario possibile, che deve indurre a grande cautela ma non deve procurare allarme eccessivo, lo dimostra quanto avvenuto all’indomani della pubblicazione della sentenza: Sicuritalia ha deciso di mettere fine agli appalti “al ribasso” e ha (re-)internalizzato il servizio, acquisendo l’azienda gestita dalla cooperativa Servizi fiduciari e sottoscrivendo un accordo con i sindacati per un piano di incremento delle retribuzioni del 38% per i lavoratori addetti a servizi di sicurezza non armata, con un investimento complessivo nel lavoro di 100 milioni nell’arco del prossimo quinquennio.

Per giungere a tale risultato, il lavoratore ha dovuto tuttavia rivolgersi ad un avvocato e ad un giudice. E, come ricordava Mauro Cappelletti, la giustizia è difficilmente accessibile per il povero se viene lasciato da solo.

 

Per saperne di più

CNEL (2023), Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, Parte I e II, approvato nell’Assemblea del 12 ottobre 2023.

Jessoula, M. (2023), Una questione politica (e di relazioni industriali): il salario minimo in Italia e in Europa, OCIS Social Cohesion Papers, n. 1- Febbraio 2023.

Pascucci, P. (2018), Giusta retribuzione e contratti di lavoro. Verso un salario minimo legale?, Franco Angeli.

Ranci Ortigosa, E. (2018), Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto, Francesco Brioschi Editore.

  1. Per una rassegna si veda Razzolini (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula
  2. La Corte costituzionale ha giudicato questo meccanismo legislativo compatibile con l’art. 39 Cost. (v. sent. n. 51/2015). L’art. 2 della Proposta di legge PD e Cinque stelle n. 1275 del 4 luglio 2023 lo riprende e lo generalizza a tutti i settori, integrandolo con quanto previsto dall’art. 30, co. 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, oggi art. 11, d.lgs. 31 marzo 2023, n.36 (Codice dei contratti pubblici).
  3. La sentenza, emessa in un parallelo giudizio amministrativo, annulla il verbale dell’Ispettorato del lavoro che rideterminava secondo il CCNL pulizie e multiservizi le retribuzioni corrisposte ai soci-lavoratori dipendenti della Cooperativa Servizi fiduciari.
  4. L’espressione è utilizzata da Tiziano Treu (2022), Salario minimo: estensione selettiva dei minimi contrattuali, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 456/2022.
  5. Sul punto v. anche il documento CNEL, Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, 7 ottobre 2023 (approvato in Assemblea il 12 ottobre 2023), 19.
  6. Da ultimo v. l’art. 2 della Proposta di legge n. 1275 del 4 luglio 2023.
  7. Si potrebbe utilizzare in proposito la dicotomia statunitense rules-standards per distinguere le prescrizioni normative il cui contenuto è definito interamente ex ante dal legislatore, a tutela di esigenze di certezza, da quelle il cui contenuto è definito in termini solo generali, rinviandone la precisa declinazione alla discrezionalità giudiziaria, che opera ex post. Sulla distinzione rules-standards v. Kaplow (1992), Rules vs standards: an economic analysis, in Duke Law Journal, vol. 42, 557 ss.
  8. In generale si veda Natili e Ronchi (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula.
  9. Nella sentenza viene richiamata la giurisprudenza della Corte di giustizia di cui si segnala la sentenza Cgue, 24 giugno 2010, C-98/09, Sorge, par. 52. Da ultimo, Cgue, 12 ottobre 2023, C-326/22, Z., par. 35.
  10. Afferma la Corte: «Risulta pertanto che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto» (par. 49).
  11. Si veda, in generale, Razzolini (2023) in OCIS Social Cohesion Paper n.1 – Febbraio 2023 curato da Matteo Jessoula