La crisi del personale nel sociale


Georges Tabacchi | 21 Marzo 2023

La voce del sociale di oggi è la voce di chi lavora nei servizi, che si racconta agli amici, ai parenti, che racconta le fragilità e le incoerenze dei nostri mondi. È chiaro che meno gli operatori sono curati e valorizzati nei loro percorsi professionali, e accompagnati al lavoro dalle varie organizzazioni, e meno saranno capaci di esprimere una narrazione del sociale costruttiva, evolutiva e attraente. Quindi la domanda è “cosa dicono oggi gli operatori del lavoro nel sociale”?

Partiamo dagli elementi del lavoro sociale che si sono sostanzialmente modificati e stanno influenzando negativamente la voglia di approdare alle nostre professioni. C’è un cambio di cultura che parte dagli anni Ottanta della deistituzionalizzazione dei servizi, anni della personalizzazione degli interventi, e che arriva agli anni nostri con la rinascita dei servizi a grandi numeri, nuovi istituti. Uno dei nodi cruciali è legato alla cultura pervasiva emergenziale, che sente necessario intervenire solo a problemi percepiti nel loro momento topico, sottovalutando la prevenzione e l’accompagnamento post emergenza e questo si ripercuote sul personale. Come la storia del Covid insegna, dove il personale sanitario è passato dall’essere invisibili eroi, a tornare ad essere l’anello debole della catena dei servizi, a problema: lo rivediamo chiaramente sui servizi per migranti e in tutti i servizi per i gruppi più facilmente identificabili e marginali.

Molti servizi, lavorando su grandi numeri, sono effettivamente economicamente redditizi. Hanno il vantaggio immediato di fare sentire gli operatori importanti e appagati, ma sono servizi cha alla lunga producono alcuni effetti di impoverimento professionale, di minor consapevolezza di sé, di abbassamento dell’autostima, acuiscono la frustrazione. In concomitanza gli utenti rischiano di essere passivizzati e di diventare resistenti al cambiamento. La loro identità si sposta da persona con un nome e un cognome a essere utente di tale servizio. A questo si deve aggiungere che molte persone seguite dai servizi sono stranieri. E questo implica nuovi codici valoriali e di comportamenti, crea contradizioni, incomprensioni, paradossi, difficile ancora oggi da trasformare in risorsa, in contaminazione arricchente. È tutto molto recente e non è ancora culturalmente completatamene accettato.

Reimparare a stare insieme

Non ci sono più le famiglie con quattro cinque figli dove il come stare insieme anche in luoghi angusti ti veniva indotto. Oggi ci troviamo con persone sempre più con la sindrome del figlio unico, alla ricerca del proprio fratello, tra desiderio di stare insieme e le scarse competenze sociali acquisite in famiglia o a scuola. A fronte di questo il lavoro sociale chiede sempre più di lavorare in prossimità, con gruppi e nuclei, e molto meno con il singolo individuo. Richiede agli operatori una disponibilità a cambiare i propri modi di affrontare le questioni in una logica individuale. Questo cambiamento di approccio è lento e va allenato di continuo. Un lavorare a più mani necessita di meno personalismo e in parte di meno protagonismo. Ci troviamo a collaborare ad un lavoro parcellizzato tra più servizi. Sempre di più l’approccio necessario per venire incontro alla necessità delle persone richiede un lavoro concertato tra più attori portatori di punti di vista e di competenze diverse. Acquisire la consapevolezza e la capacità di fare sistema richiede tempo e dedizione. In parte toglie la spinta salvifica in chi nel lavoro sociale cercava il bisogno di sentirsi importante, determinante.

Come ho potuto raccogliere da una testimonianza sul campo:

“Capita spesso durante le supervisioni d’equipe di sentire la difficoltà degli operatori ad esporsi nel gruppo di lavoro come se ne temessero il giudizio. Spesso, quando lo fanno, lo fanno in malo modo. La critica diventa tabù o un processo, raramente costruttivo. Da lì ne deriva che viene prediletto da parte di molti il rapporto uno a uno, in un setting protetto. Quindi si preferisce incontrare le persone in ufficio e meno in situazioni conviviale o a gestione collettiva. Di fatto si fa fatica a trovare del personale disponibile a lavorare in alcuni servizi, in particolare quelli h24.”

Una cassetta degli attrezzi leggera e poco adeguata

I bisogni sociali espressi, e ancora di più quelli non espressi, richiederebbero uno sforzo che ad oggi non si riesce a fare. La casa, il lavoro, i bisogni fondamentali come il cibo, le cure mediche e ancora le pratiche di inclusione, i diritti, sono un miraggio dichiarato ma di difficile attuazione. Ci sono pochi attrezzi per una “missione impossibile”. Sicuramente Il lavoro sociale non può e non deve essere misurato esclusivamente su questi parametri. Vanno ricontrattate con le varie committenze gli obiettivi possibili e raggiungibili, da perseguire e monitorare. Lo stesso va fatto con l’editoria di settore e la comunità scientifica, ovvero concordare delle strade praticabili. Oggi assistiamo ad una ricerca esasperata di soluzioni, quando serve invece la capacità di creare percorsi. “Ok ma come si fa?” È una domanda ricorrente: come indurre, modificare comportamenti dannosi, abitudini radicate, convinzioni e sistema valoriali non adeguati? Su questo c’è un bisogno formativo che va al di là di come gestire i propri vissuti, c’è bisogno di supervisione, di accompagnamento e crescita professionale. Il lavoro sociale richiederebbe “manutenzione” costante della forza lavoro.

La percezione di una disumanizzazione dei servizi non incentiva la voglia e il desiderio di intraprendere una carriera nel sociale. Il minutaggio dentro le RSA è la peggior pubblicità all’impegno sociale.

La novità più significativa degli ultimi anni viene rappresentata da un aumento esponenziale dell’attività burocratica e rendicontativa. Tutto va “flaggato”, tutto va misurato! C’è meno tempo per il fare e ancora meno per pensare. Questo crea servizi erogatori di prestazioni che difficilmente sono in grado di generare del nuovo o semplicemente di individuare bisogni, e farsene carico. Questa contrapposizione tra un approccio storico prevalentemente relazionale di contatto e un approccio descritto come efficientistico, perché misurato, crea disaffezione al lavoro.

“Alcune assistenti sociali, in base al carico di lavoro, non hanno il tempo materiale per incontrare le persone. Capita che dei minorenni siano inviati in comunità senza avere incontrato la loro AS. Il tempo della relazione, che sappiamo quanto sia determinante, viene a meno.”

Tutte le forme di accreditamento dei servizi rilevano prestazioni ed esiti numerici, spesso lontane dalla qualità erogata ma soprattutto incapaci di rilevare gli elementi evolutivi o involutivi. Abituarci alle soluzioni e ai loro esiti e non ai percorsi riduce la complessità esistente e atrofizza la progettualità.

Titoli di studi richiesti, bassi salari, condizioni di lavoro disagevoli: vali quanto sei pagato?

Il potere d’acquisto degli operatori si è eroso negli anni, colpa di contratti collettivi di categoria che non si sono rinnovati con la dovuta forza. A questo si deve aggiungere una politica di gare al ribasso che non ha fatto altro che svalutare il lavoro riducendo il personale al minimo necessario per svolgere quasi esclusivamente le incombenze burocratiche. Gli accreditamenti richiedono sempre di più esclusivamente figure professionali laureate per salari non proporzionati. Non c’è un altro settore merceologico con queste contraddizioni. Lavoro frammentato, lavoratore spalmato su più servizi anche differenti tra di loro, con il rischio di rimanere solo con competenze trasversali generiche creando una professionalità generalista che nel tempo si impoverisce. Abituati a lavorare con chi fa fatica ad essere competitivo, almeno con regolarità, si capisce che la competitività estremizzata non può essere l’orizzonte da perseguire, ma questo difficilmente lo si sa raccontare in modo che risulti vincente per il contesto. Spesso il lavoro degli operatori sociali viene percepito tra il lavoro di baby-sitter e il missionario, equiparato ad un’attività di puro volontariato. Questo stigma rafforza l’idea comune che chiunque possa fare il lavoro sociale e che basti avere buona volontà. In una logica prestazionale, competitiva, il lavoro sociale è sempre più visto come un lavoro dasfigati”.

Se è vero che si manifesta l’interesse per una carriera professionale in giovane età anche in base agli stimoli ricevuti, ci dobbiamo chiedere quali sono le istituzioni ad oggi che riescono a stare vicini alle nuove generazioni e ad aiutarle a costruirsi delle basi solide sulle quali sperimentarsi e crescere nel fare di tutti giorni. Gli scout, la scuola, gli oratori, lo sport, gli influencer, il servizio civile e qualche organizzazione di grande respiro. La famiglia non è sufficiente. Di queste realtà quante sentono e si assumono una responsabilità educativa?

Dove sono finiti maestri? Scuole, servizio civile, associazionismo… luoghi di pensiero. Ai ragazzi si chiede di perdere la dimensione “romantica” del lavoro sociale, siamo sicuri che sia la strada giusta. Ci sono parole come accoglienza, inclusione, mediazione, solidarietà, impegno civile e sociale, come tante altre, che hanno bisogno di essere metabolizzate. Da sole sono solo slogan incapaci di produrre una cultura solida sul quale poggiare il proprio futuro lavorativo.

Direzioni di lavoro

Occorre ripartire dalla co-programmazione e la co-progettazione per assumere una visione del lavoro sociale che va oltre l’emergenza. Rivedere i criteri retributivi, quindi il sistema degli appalti e gli aggiornamenti contrattuali in corso d’opera. Occorre investire su servizi che sanno evolversi in base al contesto, interagendo con esso e per questo è necessario lavorare per creare nuove figure professionali capaci di attivare i territori per renderli luoghi inclusivi. Infine, vanno rivisti negli accreditamenti i titoli necessari per la gestione dei servizi e allargare il numero di titoli equipollenti.

Queste sono solo alcune delle piste di lavoro su cui è urgente lavorare, e che vanno sostenute anche in termini di politiche pubbliche.


Commenti