L’Assistente Sociale nei Centri di Accoglienza per migranti (Parte III)
Verso un profilo di etno-assistente sociale
Alice CelerinoGiovanni GarenaMicol Schifino | 30 Settembre 2025
In questo terzo articolo1, si vuole proporre un’ipotesi di costruzione di Comunità di pratica e di etno-assistente sociale2 (etnoAS) nei Centri di Accoglienza per migranti (CAS). Costruzione che riteniamo necessaria a concretizzare i principi espressi con la bussola A.T.E.N.A.., come illustrato nel nostro precedente articolo.
Cercheremo di delineare alcuni punti propositivi/trasformativi in un contesto, presente e futuro, composito di maggiori saperi in merito ad integrazione, inclusione, innovazione.
Come noto, quando parliamo di “Comunità di pratica” immaginiamo un ambiente nuovo, in costante divenire e in costante diversificare, ove si sviluppino nuove pratiche di lavoro che verranno poi condivise in un inesauribile processo di ricerca-azione, ‘’un tipo di ricerca partecipato nel quale il cambiamento è incluso nell’atto del fare‘’ (Niero, 2006).
I CAS possono intendersi come Comunità di pratica, ove svolgere ricerca-azione, in quanto chi vi lavora non ha specifici teoremi o teorie a cui guardare, deve creare ogni giorno iter lavorativi e processi che andranno condivisi e resi poi prassi. I CAS, in questo senso, possono essere intesi dunque come il “luogo sicuro” entro il quale è possibile apprendere in maniera circolare, essendo produttori di buone pratiche, di integrazione, di apprendimento, di condivisione.
Tale Comunità di pratica deve, e dovrà essere, la fucina ove potranno nascere nuove figure lavorative e nuove prassi: etnoAS, gruppi di condivisione e di ricerca-azione, formazione continua, utilizzo del modello A.T.E.N.A. e di un approccio antioppressivo.
Si pone, per esempio, l’ipotesi di strutturare, all’interno di ogni singolo CAS, uno sportello sociale, anche in ragione del nuovo bando che istituisce un Operatore sociale – unico. Proprio in ragione dell’importanza che ha il ruolo dell’AS nei CAS e nei successivi sistemi di accoglienza e integrazione, si desume che sia necessario predisporre uno spazio di ascolto e supporto, limitato a confini temporali e professionali, che possa essere fonte di riferimento e frutto di progetti personalizzati.
Altro obiettivo che ci si pone all’interno di una Comunità di pratica come ora ipotizzata è l’informazione-educazione della comunità stessa, intesa nel suo concetto di rete estesa tra scuole, enti locali, servizi sanitari, altri servizi pubblici al cittadino, enti del terzo settore, ecc. organizzazioni che operano sul territorio e che possono essere coinvolte in focus group ed attività di sensibilizzazione. Questo obiettivo tende quindi a superare il problema che, sovente, questi potenziali punti rete rimangono isolati nelle loro conoscenze degli iter burocratici specifici per i migranti e di conseguenza rappresentano entità chiuse e dunque poco disponibili all’inclusione.
All’interno dell’ambito specifico lavorativo, andrebbero invece attivati gruppi di confronto e autoaiuto trasversali ai vari CAS, momenti di confronto tesi al fine implementare nuove prassi, condivise e applicabili su ciascun territorio, da adottare come canone per saper rispondere in maniera adeguata ai bisogni di integrazione sociale in continuo divenire.
In questo quadro, l’AS che opera in tale contesto andrà in futuro pertanto riproposta come un etno-assistente sociale, che crea e adotta nuovi strumenti di lavoro.
EtnoAS che dovrà avere conoscenze etnografiche e antropologiche di base su temi quali l’antropologia medica e psicologica, materie che approfondiscono le singole culture, usi e costumi; dovrà saper condurre colloqui con un mediatore, disgregare i limiti delle proprie conoscenze e dei pregiudizi, attuando processi di decentramento etnocentrico: in tal senso riteniamo necessaria una formazione ed autoformazione volta a sviluppare conoscenza, in via generale, per un approccio antropologico e critico alle istituzioni e ai saperi della cura, alle categorie diagnostiche e alle tecniche terapeutiche. In via più specifica, sulle dimensioni morali della malattia e della terapia – la malattia e la cura come oggetto di esplorazione in quanto” fatti sociali totali”, come fenomeni “rivelatori” di dinamiche politiche, economiche, culturali (Mauss, 2018), sul rapporto fra malattia, cura e contesto storico-culturale, sui diversi modelli di persona e di pratiche educative.
Questa figura di etnoAS dovrà ovviamente possedere anche una buona conoscenza di lingue veicolari e di alcuni rudimenti delle principali lingue dei Paesi di provenienza dei migranti. Ma soprattutto essere preparata al lavoro integrato con le/i mediatori culturali poiché, al di là della mera comunicazione linguistica, si tratta di gestire insieme le problematiche connesse alla comprensione tra persone di cultura diversa in un processo reciproco di decodifica sui tre livelli di ordine pratico-orientativo, linguistico-comunicativo, psico-sociale. È doveroso, a tal proposito, tenere in considerazione l’esperienza di shock culturale vissuto dai migranti che entrano nel territorio italiano; tale esperienza caratterizza un processo psicologico e sociale percepito da una persona che si trova, improvvisamente, immersa in una cultura diversa dalla propria. Si ritiene sia proprio in questo campo che l’etnoAS debba, con competenza, conoscenza e professionalità, supportare e orientare il singolo e i nuclei ad un’assimilazione che sia quanto più possibile culturale, strutturale e identitaria (Gordon, 1964). In questo modo, l’etnoAS potrebbe diventare il professionista che in un CAS orienta l’ospite che ha di fronte/di fianco e che fornisce competenze e conoscenze approfondite, al fine di favorire processi d’inclusione, senza prevaricare l’autenticità e l’advocacy dell’Altro. Per svolgere queste funzioni, in questa Comunità di pratica, proponiamo tre spunti: l’uso dello strumento A.T.E.N.A. (come già illustrato nel nostro precedente articolo), – il concetto di mediazione semiotica, l’approccio antioppressivo.
Verso una mediazione semiotica
Per acquisire una relazione di fiducia con gli ospiti dei CAS è necessario mettere in campo un “decentramento culturale”, ovvero la capacità di sospendere il proprio giudizio intorno agli elementi culturali che emergono ed essere aperti all’ascolto della narrazione ed espressione dei riferimenti culturali. Nel concetto di mediazione semiotica proposto da Vygotski (Santi, 2006), una Comunità di pratica si basa sul fatto che una società, una civiltà, è tale poiché basata sullo scambio di simboli condivisi che tutti adottiamo e riconosciamo come tali3. Ma, a questo punto, alcune domande vitali si impongono: la, ormai necessaria, decolonizzazione dell’universo occidentale dove può quindi spingersi? dovremmo riuscire ad abbattere ogni certezza e pregiudizio che costruisce la base del nostro sapere per accogliere molteplici e fratte realtà come tutte plausibili, vere e soprattutto simmetriche? o ci sono canoni e regole basilari (occidentali, ovviamente) che non possono e non potranno mai essere messe in discussione?
Tutte domande che si giocano su un terreno delicatissimo, a volte minato, che mettono appunto in gioco questioni e dilemmi etici, come abbiamo avuto modo di esplorare nel nostro primo articolo.
Per portare un esempio calato nel concreto contesto lavorativo ricorrente: se una famiglia, una volta giunta in Italia, porta avanti la propria routine quotidiana, prediligendo lo svolgimento dei pasti seduti per terra, in un contesto di pulizia soddisfacente, fin dove la nostra etica ci spinge ad imporre l’applicazione di un regolamento che impone regole igienico sanitarie a nostra detta ‘’corrette’’? Se la Prefettura, durante un controllo, ci chiede di convincere la famiglia a consumare i pasti a tavola come dobbiamo agire di conseguenza?
Proprio qui la “mediazione” può aiutare la comprensione, individuando i limiti che possiamo porre ai nostri canoni e regole basilari.
È quindi evidente che gran parte del lavoro del professionista etnoAS, calato nell’ambito della migrazione, consisterà proprio nella mediazione semiotica tra i vari attori coinvolti in una comunità che spesso è poco incline ad accogliere persone nuove, con esigenze e riferimenti differenti dai nostri.
Tali aspetti ci mostrano solo l’inizio di quello che sarà un lungo processo di comprensione delle differenze, di conoscenza reciproca dei diversi significati che ognuno dà alle stesse cose e di ricerca di punti d’incontro da cui partire; un processo finalizzato ad ampliare la cassetta degli attrezzi e degli strumenti degli AS operanti in questo ambito. AS che andranno intese come figure specializzate, sempre maggiormente specializzate nell’ambito dei CAS, concettualizzati come Comunità di pratica ove sviluppare nuovi modelli di aiuto e di rete.
Verso un approccio al servizio sociale antioppressivo
I principi e le pratiche proprie del corpus teorico-metodologico degli AS impegnano i professionisti a contrastare le dinamiche di potere e le discriminazioni che si verificano all’interno delle politiche migratorie con particolare riguardo ai servizi di accoglienza straordinaria. La relazione di aiuto si deve concentrare sulla giustizia sociale, sull’autodeterminazione delle persone e sull’importanza di riconoscere e affrontare le situazioni di oppressione ed esclusione.
Secondo questi orientamenti, il servizio sociale professionale, approcciato in chiave antioppressiva (Allegri, Sanfelici, 2023; Sanfelici, 2024), dovrà ideare e implementare concrete azioni tese a:
- riconoscere-incidere sulle dinamiche di potere: la relazione professionale tra AS e ospite di un CAS deve finalizzarsi a superare disuguaglianze e discriminazioni, a promuovere l’autodeterminazione e a dare voce ai beneficiari al di là di soluzioni top-down e di schemi precostituiti. Quindi è necessario sostenere l’inclusione creando spazi fisici e mentali veramente accoglienti e rispettosi delle diversità;
- sviluppare una progettazione bottom up al fine di concretizzare ciò che viene appreso dall’esperienza pratica e sul campo per favorire una integrazione/inclusione che sia coerente e idonea ai singoli percorsi, e più in generale rispettosa delle culture di partenza e di destinazione;
- utilizzare un approccio riflessivo (Fazzi, 2015; Sicora, 2005). Occorre riproporre il valore dell’AS riflessivo che trova il tempo e le modalità per ragionare criticamente sul proprio ruolo, sul proprio essere nella storia di questi servizi e delle persone accolte, sul permanere di pregiudizi che limitano il lavoro quotidiano;
- uscire dalla neutralità. Il lavoro sociale non può essere neutrale rispetto alle dinamiche sociali e politiche. L’AS non è lì genericamente per “fare del bene” secondo le linee del potere dominante e visioni di comodo (Morniroli, 2025). Questa professione, che, come tale, non può assumere le caratteristiche di una sorta di “missione salvifica”, pensiamo debba riprendersi la dimensione politica che le compete, tornare ad analizzare con rigore i fenomeni, oltre la retorica e la propaganda reazionaria, e a farne emergere l’essenza, essenza spesso caratterizzata da carichi di sofferenza, di violenza, di odio, di razzismi.
In sostanza, riteniamo che l’AS nei CAS – stando sull’intersezione tra le situazioni reali, con le tremende complessità che le caratterizzano, e le cattive politiche che avrebbero la pretesa di governarle – abbia concrete possibilità per svolgere una funzione antioppressiva:
- se mette in atto un ascolto attivo ed empatico, uno spazio fisico e mentale sicuro in cui le persone possono raccontare le proprie esperienze senza paura di essere giudicate o etichettate;
- se, a partire da questo ascolto, realizza una valutazione personalizzata, tenendo conto del contesto sociale e culturale della persona, superando standard o protocolli rigidi;
- se, di conseguenza, riesce a mettere in atto un’azione concertativa, in ambito di educazione degli adulti e andragogia, per coinvolgere la persona beneficiaria nel processo decisionale, offrendo sostegno e risorse per raggiungere i suoi obiettivi e bisogni.
Una pratica antioppressiva così coniugata libera l’AS da un ruolo strumentale di controllo sociale, una sorta di “liquidatore fallimentare” dell’esistente che dà per scontate le diverse forme di discriminazione. E lo colloca come protagonista nella costruzione di nuove politiche migratorie che vedano al centro le persone, i luoghi, le comunità. In questo senso si può utilmente impiegare la nostra “bussola” A.T.E.N.A. (Accoglienza – Accompagnamento, Tempo, Empowerment, Network, Advocacy) per la promozione della giustizia sociale e sostenere le persone migranti nella lotta per i propri diritti e per un accesso equo alle risorse e alle opportunità.
- Vedi anche Parte I e Parte II
- Gli studi sulla professionalità dell’AS sono oggi improntati ad interpretare i mutamenti connessi all’evolversi dei problemi sociali e – contestualmente – all’espandersi di politiche sociali fortemente condizionate da logiche proprie delle economie neoliberiste. Serve quindi una profonda e diffusa ricerca etnografica che affronti come, nelle pratiche quotidiane, l’AS sia, possa essere, protagonista di un lavoro sociale sempre più competente nelle sfide poste dal confronto con culture “altre” (Riva,2014).
- Per esempio, tutti attribuiamo a un dato simbolo un valore numerico e in questo modo possiamo ‘’fare’’ la matematica e darla come regola. Se tra due individui la mediazione non è condivisa, il significato del simbolo stesso decade e la comunità si disgrega, la società collassa.