Le emozioni di chi aiuta per professione


Alessandro Sicora | 21 Giugno 2021

Il servizio sociale promuovere la centralità della persona in tutte le sue componenti ma quando riflette sul vissuto degli assistenti sociali spesso perde di vista una componente fondamentale di ogni essere umano: le emozioni. Pur ammettendone la presenza, queste ultime vengono più spesso vissute come una possibile interferenza al corretto svolgersi del processo di aiuto che un’opportunità di condurre con maggiore accuratezza efficaci processi di valutazione, decisione e intervento.

Il tema delle emozioni appare solo occasionalmente e marginalmente nella recente letteratura professionale italiana1, mentre si può trovare di più a livello internazionale tra gli scritti in lingua inglese, come appare dalla rassegna della letteratura sul rapporto tra servizio sociale ed emozioni fatta da O’Connor2.

La negazione delle proprie emozioni, considerate sbagliate e non professionali, può generare paradossalmente atteggiamenti disfunzionali al processo di aiuto in quanto molto spesso produce rigidità e distanza. Un professionista maturo invece dà ascolto alle sue emozioni per migliorare la sua capacità di riflettere e imparare dall’esperienza creando così armonia tra benessere personale e self-care, da un lato, e qualità delle relazioni di aiuto instaurate con chi si rivolge ai servizi, dall’altro.

 

Quali emozioni?

Pur essendo una presenza costante nella vita di ogni essere umano, definire cosa e quali siano le emozioni ha portato gli studiosi sul tema a generare numerose definizioni e classificazioni non sempre convergenti. Tra le molte, appaiono di particolare utilità la definizione di Galimberti3 e la classificazione di Ekman4: per il primo un’emozione sarebbe una “reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata determinata da uno stimolo ambientale”; per il secondo, sulla base di una ricerca condotta coinvolgendo un ampio gruppo di studiosi sul tema, ci sarebbero cinque emozioni di base: rabbia, paura, disgusto, tristezza e gioia.

Utilizzando tale classificazione sono stati condotti tra il 2019 e il 2020 dei laboratori, in presenza e online, con la partecipazione in Italia e all’estero (Inghilterra, Israele, Sud Africa) di assistenti sociali a cui è stato chiesto di raccontare delle esperienze professionali cariche emotivamente dalle quali avevano imparato qualcosa di importante. Lavorando a coppie (una persona raccontava, l’altra domandava una serie di quesiti in parte predefiniti) i partecipanti e le partecipanti hanno poi riassunto tali narrazioni con un numero molto limitato di caratteri (circa 160) per poterne condividere il contenuto nella discussione assembleare finale. Nell’esaminare esperienze dominate da forti emozioni due domande chiave sono state: qual è lo scopo di questa emozione? Cosa mi sta dicendo?

La modalità laboratoriale adottata è stata volta a superare uno egli ostacoli più diffusi allo sviluppo di una efficace pratica riflessiva: la vergogna. Questa, intesa come senso di inadeguatezza (“non sono abbastanza bravo/a, competente, ecc.”) è un’emozione che interessa assistenti sociali tanto alle prime armi che con una lunga esperienza professionale. Identificare e definire i momenti di vergogna come tali aiuta non solo a migliorare la propria pratica riflessiva ma anche a sviluppare resilienza personale e professionale. Il condividere le storie (nonché le emozioni di cui spesso ci si vergogna, quali la paura e la rabbia) porta al riconoscersi “sulla stessa barca” e ad aprire nuovi orizzonti di apprendimento condiviso5.

Il laboratorio era finalizzato a far sperimentare le potenzialità del riflettere sulle proprie emozioni per promuoverne l’esercizio nella pratica lavorativa quotidiana e ha prodotto anche un ricco materiale che può aiutare a comprendere meglio il rapporto tra servizio sociale ed emozioni.

In tale ambito, inoltre, si è reso evidente che la riflessione sulle esperienze professionali con un’alta intensità emotiva può avvenire a livello personale, diadico (con un collega o una collega) e di gruppo. Quando vengono coinvolte altre persone nella riflessione e importante dare spazio all’ascolto e alle domande di chiarimento evitando atteggiamenti che possono generare senso di vergogna o colpevolizzazione. In chi racconta è rilevante il coraggio di esporre ciò che può apparire fragilità e vulnerabilità ma che invece è un potenziale volano per lo sviluppo personale e professionale. Inoltre una micro-narrazione di appena 160 caratteri richiede pochissimo tempo e consente un’efficace riflessione non solo sui singoli eventi ma, tramite l’accumulo di tali storie, anche su quanto è avvenuto complessivamente in periodi di tempo più estesi.

 

Storie di emozioni e assistenti sociali

Di seguito vengono riporti molto sinteticamente i principali esiti del lavoro di formazione e ricerca sopra descritto per ciascuna delle cinque emozioni evidenziate da Ekman riportando, per ciascuna di queste, un esempio di micro-storia scritta da assistenti sociali.

La rabbia, spesso conseguente al sentirsi impotenti, si manifesta con azioni e parole che possono anche avere un certo grado di violenza verbale e fisica. È come se la rabbia volesse abbattere un ostacolo, fisico e non, percepito davanti a sé. I rapporti con dirigenti, colleghi, l’organizzazione di appartenenza nel suo complesso, ma anche con le persone utenti, sono spesso fonte di arrabbiature per gli assistenti sociali. Ristrutturazioni organizzative, mancanza di risorse, guida e supporto inadeguati, disconoscimento del ruolo, sfiducia espressa da dirigenti o colleghi, conflitti inter-professionali sono circostanze che possono generare rabbia negli assistenti sociali al pari di comportamenti ritenuti lesivi del processo di aiuto e attuati dalle persone utenti.

 

“Rabbia. C’è stata una riorganizzazione del servizio in cui lavoro e ho provato un senso di inadeguatezza per le nuove aree assegnate. Inizialmente ho subito la situazione e dopo un periodo intenso di lavoro mi sono sentito stressato. Da questa esperienza ho imparato ad accettare i miei limiti, a non essere troppo disponibile e se mi dovesse ricapitare farei presente le criticità lavorative”.

 

Il disgusto è un’emozione suscitata da qualcosa di sgradevole o percepito come tossico. Può portare a reazioni fisiche (per esempio, il vomito o l’evitamento) e, quando riguarda la percezione di altri esseri umani ‘disgustosi’, la deumanizzazione. Può essere suscitato negli assistenti sociali da politiche e servizi sociali incapaci di aiutare le persone oppure da fenomeni, quali l’abuso a danno di minori e la pedopornografia, con caratteristiche fortemente conflittuali con le aspettative e i valori profondi dei professionisti.

 

Adolescente che adora suo padre anche se pedofilo condannato. Mi sono sentita disgustata e arrabbiata nei confronti dell’utente del servizio. Riflettendo ho capito che dovevo separare la storia dall’adolescente e aiutarlo.”

 

La paura viene suscitata dalla percezione di una minaccia alla nostra sicurezza o al nostro benessere psico-fisico. Negli assistenti sociali c’è la paura di sbagliare o di non svolgere un intervento adeguato alla situazione, ricevendo un giudizio negativo dalle persone utenti, oppure, più spesso vi è il timore per la propria incolumità (e talvolta anche di quella dei propri cari) di fronte a contesti d’intervento violenti, soprattutto nell’ambito della protezione minorile. Purtroppo, come emerso da una recente indagine, l’entità del fenomeno delle aggressioni nei servizi sociali in Italia sembra spesso giustificare tale paura6.

 

“Allontanamento minore. Aggressione fisica e verbale. Paura per la mia vita. Vergogna di essere riconosciuta come ladra di bambini. Percorso di crescita. Ritornare a lavorare con più consapevolezza.”

 

La tristezza è provocata da qualche dolore o dispiacere. Gli assistenti sociali incontrati nei laboratori sopra descritti si rattristano di fronte alla morte di una persona utente, alle condizioni (o al peggioramento delle stesse) di chi è particolarmente fragile (per esempio, minori, homeless e malati terminali) o al fallimento di un intervento d’aiuto e alla conseguente sensazione di impotenza. Può portare alla tristezza il senso di solitudine provato sul lavoro e i messaggi di squalifica inviati dal proprio ente di appartenenza.

 

“Allontanamento, disposto dal P.M, di un bambino  di sei anni effettuato il 21/12. Il bambino è dovuto rimanere in ospedale per un mese in attesa di reperire una famiglia affidataria in quanto la madre che avrebbe potuto scegliere di andare in comunità con il bambino non lo ha fatto. Ho pianto dopo aver lasciato il bambino solo in ospedale. Ho provato anche rabbia per questa mamma che non ha accettato l’inserimento in comunità ed ha lasciato il bambino da solo durante le festività natalizie. L’aver provato queste emozioni e non nasconderle ha permesso di riuscire ad accogliere la sofferenza del bambino ed avvicinarmi a lui entrando in contatto con me stessa. Ho ascoltato le emozioni, anche dando sfogo con il pianto. Questo pianto se da un lato è stato liberatorio mi ha causato anche un senso di vergogna in quanto era presente la mia responsabile.”

 

Nelle micro narrazioni raccolte le ragioni di gioia più frequenti sono: il successo di un intervento professionale, soprattutto a fronte di una situazione particolarmente difficile, il ricevere manifestazioni di apprezzamenti e di gratitudine da parte delle persone utenti, la condivisione di emozioni liete di questi ultimi e il trovare conferma delle proprie capacità professionali nella conclusione positiva degli interventi professionali.

 

“Gioia. Ricevuta caramella da utente multiproblematico aggressivo per disoccupazione con precedenti penali. Dono come gesto di fiducia creato nel tempo. Passaggio in 7 anni da rivendicazione a richiesta di aiuto. Valori personali.”

 

Conclusioni

Ogni volta che saliamo su un aereo ci viene ricordato che in caso di depressurizzazione del velivolo dobbiamo mettere la maschera di ossigeno prima a noi e poi alla persona o alle persone di cui ci dobbiamo prendere cura. Un ascolto consapevole, accogliente e condiviso delle proprie emozioni porta a fare un’operazione simile nei momenti lavorativi difficili e può contribuire a migliorare sensibilmente la qualità degli interventi a supporto delle persone utenti conservando e aumentando la passione per il proprio lavoro. Un tale ascolto, infatti, consente di accedere ad aspetti informativi e motivazionali di particolare utilità.

I contesti organizzativi incidono fortemente sulle possibilità di compiere tale operazione e per tale ragione vanno tenuti nella dovuta considerazione nel costruire, mediante strategie e strumenti adeguati, una pratica riflessiva attenta anche alla dimensione emozionale degli assistenti sociali.

In ogni circostanza è utile accostarsi alle proprie emozione (specialmente quelle “difficili” come la rabbia, il disgusto, la paura  e la tristezza) con accettazione innanzitutto dando a queste un nome. Ricordarsi che le emozioni vanno e vengono, riflettere sul significato di ciò che si sente e rinunciare al bisogno di tenere tutto sotto un rigido controllo sembrano essere passaggi ulteriormente produttivi e capaci di generare resilienza7. Ciò è particolarmente fruttuoso per i servizi sociali nei quali viene chiesto a chi vi opera di prendersi cura di situazioni di disagio spesso al limite della capacità umana di intervento. Un tale lavoro di supporto agli altri non può non partire dalla cura del proprio sé.

  1. Fargion S., Il metodo del servizio sociale: riflessioni, casi e ricerche, Carocci, Roma, 2013; Cellini G., Dellavalle M., Il processo di aiuto del servizio sociale: prospettive metodologiche, Giappichelli, Torino, 2015; Poletti A. (2019), “E’ una responsabilità condivisa!”. L’importanza delle emozioni nel lavoro di tutela minori e il ruolo dell’ambiente lavorativo come potenziale spazio di aiuto (od ostacolo) nella loro gestione, La Rivista di Servizio Sociale, LIX.1, 2019, pp. 42-56; Rizzo M. (2019), “Le emozioni nelle professioni di aiuto: diamo loro adeguato ascolto?”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 4, 2019 pp. 20–23; Sicora A., Emozioni e servizio sociale. Riconoscere, riflettere, agire, Carocci, Roma, 2021.
  2. O’Connor L., “How social workers understand and use their emotions in practice: A thematic synthesis literature review”, Qualitative Social Work, 19(4), 2020, pp. 645-62.
  3. Galimberti U., Nuovo dizionario di psicologia: psichiatria psicoanalisi, neuroscienze, Feltrinelli, Milano, 2018, p 432-433
  4. Ekman P., “What Scientists Who Study Emotion Agree About”, Perspectives on Psychological Science, 11(1), 2016, pp. 31–34.
  5. Sicora A., “Vergogna e servizio sociale. Esplorazioni intorno a un’emozione poco considerata”, Prospettive sociali e sanitarie, 4, 2018, pp. 29-32.
  6. Sicora A., Nothdurfter U., Rosina B. e Sanfelici M., “L’aggressività nei confronti degli assistenti sociali: esiti di una ricerca nazionale”, Welforum.it, 29 luglio 2019.
  7. Parker T. (2016), 6 Steps to Mindfully Deal With Difficult Emotions, The Gottman Institute, s.l., 2016.