L’eredità persistente: l’emergenza della cura sociale tra passato e presente


Marika Sau | 28 Aprile 2020

Ho preparato per la prima volta il pane. Ho compreso che la funzione consolatoria non poteva essere limitata al mangiarlo: è apparecchiare con cura la tavola per godere del tempo insieme; sperimentare ricette nuove che prima non trovavano spazio nelle agende troppo fitte; è il profumo di qualcosa di antico e di buono che tiene vivo il ricordo di una nonna che non c’è più, restituendocene l’eredità. L’eredità familiare ha a che fare con storie, insegnamenti, ferite e gioie che, permanenti, si fissano nella nostra memoria, durano oltre il tempo, andando a incidere sulle nostre scelte presenti. Non è differente per l’eredità professionale.   Il servizio sociale è posto di fronte a una sfida di cura urgente dettata dalla drammatica pandemia da Coronavirus in corso. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali avanza la proposta del programma “#NessunoRestaIndietro per sollecitare i decisori politici a creare quelle condizioni strutturali e necessarie per affrontare l’emergenza sociale. Contestualmente, assistenti sociali, impegnati quotidianamente nei servizi, rimodulano gli strumenti della professione e rivedono gli interventi attivi e attivabili. Nel percorrere questa nuova strada, potremmo chiederci se e come, nella nostra eredità professionale, vi sia traccia di questa emergenza di cura sociale.  

Margherita Grossmann: una proposta tra passato e presente

Nel 1953, Margherita Grossmann, al tempo docente presso la Scuola per Assistenti Sociali Unsas di Napoli, pubblica sulla rivista Assistenza D’Oggi un articolo intitolato “La formazione dei lavoratori sociali per le aree depresse. Iniziative di servizio sociale in corso nel Meridione d’Italia”1, di cui i contenuti sono stati anticipati, dalla stessa, durante la VI Conferenza internazionale di Servizio sociale, Madras 1952. Il contesto storico-politico di riferimento è quello dell’implementazione della legge n. 646/1950, istituente la Cassa del Mezzogiorno: mentre si elaborano i piani di trasformazione e di evoluzione delle aree depresse, il servizio sociale si interroga su come rendere i piani, in corso di attuazione, aderenti ai bisogni specifici delle comunità coinvolte. Il momento storico preso in esame ci consente di evidenziare punti di contatto tra passato e presente. Ai tempi di guerra seguono tempi di cura sociale, di ricostruzione delle proprie case come delle proprie abitudini, dei bisogni familiari, della vita associata, di risanamento della propria condizione economica. Sono tempi durante i quali la professione avverte di non avere sufficienti forze per fronteggiare l’emergenza, ma assiste alla nascita o rinascita di forme importanti di solidarietà tra cittadini e desiderio di comunità. Grossman, partendo da questi presupposti, immagina l’istituzione di brevi corsi di emergenza sia per la formazione di elementi ausiliari al servizio sociale sia offrendo, ai professionisti già qualificati, la possibilità di perfezionarsi per assumere maggiori responsabilità e strutturare così l’effettiva formazione dei quadri del lavoro sociale. Si ipotizza come gli elementi ausiliari, ossia coadiutori, di cui il servizio sociale si avvarrebbe per la sua azione di penetrazione sociale e di bonifica delle aree depresse, possano essere volontari, con qualche esperienza nel lavoro sociale (un supervisore qualificato dovrebbe selezionare i candidati ammessi al corso e curarne lo svolgimento) che collaborino con i professionisti in alcune mansioni quali la ricreazione, l’educazione civica, l’istruzione generale e professionale, le colonie, l’economia domestica. L’obiettivo perseguito all’interno di questi corsi non è accademico, ma di risveglio di un reale interesse per i problemi sociali della propria comunità. Contestualmente, si immagina la formazione di personale direttivo, scelto tra gli stessi assistenti sociali operanti, per gli incarichi di monitori, supervisori e capi amministrativi di servizi sociali.

 

Proviamo a ragionare sulla persistenza di questa eredità

Assistiamo, in questo tempo, all’effervescente movimento della solidarietà cittadina e al vuoto lasciato da quei gruppi, organizzazioni, associazioni, uffici che andavano a costituire le relazioni della comunità locale, all’interno della quale ognuno di noi è inserito. “Ognuno di noi”: perché il virus ci rende tutti uguali nella narrazione di questi giorni, ma con differenti possibilità nell’accesso a risorse economiche, personali e familiari che determinano diseguaglianza e, nei casi più estremi, acuiscono situazioni di pregiudizio. La lettura della proposta di Grossman suggerisce l’opportunità, per gli assistenti sociali di oggi, della connessione delle risorse formali e informali del territorio, al fine di tessere reti in grado di rispondere alle nuove definizioni di bisogno che ci troviamo a tradurre. L’approccio è inclusivo, promozionale, di valorizzazione delle reti2   e delle competenze di chi le compone, con l’obiettivo di integrare, non delegare: i corsi per gli ausiliari del servizio sociale non erano, infatti, destinati ad apprendere un mestiere così da poter adempiere a qualche compito professionale, ma la capacità di risvegliare la solidarietà, la partecipazione e la condivisione delle responsabilità. Proviamo a ragionare in questi termini, privilegiando, a scopo esemplificativo, l’ambito della tutela dei minori. I bambini delle nostre comunità non vanno a scuola, non vanno al parco, non vedono i nonni e non possono invitare nessuno a giocare nella loro cameretta; i bambini che, con le loro famiglie, stavamo già accompagnando in percorsi di aiuto, beneficiano parzialmente o per nulla degli interventi educativi precedentemente attivati in loro favore; alcuni non hanno internet, hanno genitori in difficoltà a far fronte alla didattica online e talvolta con il pensiero occupato dai nuovi problemi economici. Le maglie del bisogno si dilatano. Esattamente come Grossman, ci ritroviamo a confermare come i singoli professionisti non bastino, servono più forze che vanno formate e/o organizzate e animate per risposte strutturate di aiuto. Proviamo a immaginare un’ipotetica struttura partendo dalla definizione di un bisogno in termini collettivi quale, ad esempio, colmare le diseguaglianze sociali prodotte dalla didattica online e la conseguente riduzione dello spazio di socialità dei bambini:

  1. il servizio sociale avvia, all’interno di un territorio delimitato, la ricerca di tutte quelle risorse formali e informali attive in tal senso, le contatta e crea tra loro connessioni, in modalità remota, per garantire condivisione rispetto agli obiettivi e valorizzazione dell’operato di ciascuno. In questa sede potrebbe essere prezioso un ragionamento circa la possibilità di convertire mandati già attivi per i volontari del servizio civile nazionale oppure per gli educatori;
  2. in seguito è necessario raggiungere le persone in difficoltà. Possiamo contare sulla recente esperienza dell’assegnazione dei buoni spesa, per i quali si sono raggiunti destinatari anche diversi da quelli già conosciuti dai servizi, ad esempio con la pubblicizzazione sui siti istituzionali di indirizzi email e altri riferimenti dedicati. Altresì sarebbe possibile percorrere il medesimo iter per raccogliere disponibilità a prestare attività di volontariato da parte di privati cittadini, prevedendo per loro brevi incontri di formazione online a seconda delle attività per cui si concorda la partecipazione;
  3. l’assistente sociale approfondisce, con ogni famiglia raggiunta le difficoltà incontrate, ma anche le risorse disponibili che, se connesse quelle di un’altra famiglia, sollecitando sentimenti di solidarietà, potrebbero rispondere ad alcune necessità (una famiglia non può stampare, ma ha un telefono vecchio che può imprestare; una famiglia può stampare per un’altra, utilizzando un volontario per le consegne, e magari aver bisogno proprio di quel dispositivo in più);
  4. l’assistente sociale connette le risorse delle reti individuate per rispondere ai bisogni che restano insoluti dalla mutualità delle famiglie. Esempi: attivazione di risorse per il reperimento di materiale scolastico (potrebbero essere i volontari della parrocchia), assistenza compiti da remoto (educatori, capi scout, studenti che si offrano volontari), contatto con uno sportello per il supporto digitale (volontari del servizio civile), gruppi di cineforum, da remoto, in cui i bambini si confrontano alla presenza di un “grande” (tirocinante); organizzazione di giochi di società da remoto (le famiglie potrebbero autonomamente organizzarsi se sollecitate).

  Certamente ogni professionista, partendo dall’analisi della realtà territoriale in cui opera, potrà immaginare esempi ulteriori e integrare lo stesso ragionamento per altre fasce fragili di popolazione. Potrà altresì riconoscere alcune di queste attività come già operative presso il proprio servizio, prestando però attenzione alla differenza tra l’azione professionale del singolo operatore e la strutturazione di un sistema organico, legittimato dall’organizzazione di riferimento. Il lavoro immaginato richiede tempo e regia: quella stessa ipotizzata da Grossman nei termini di gruppi di lavoro territoriali dedicati alla progettazione e al coordinamento degli interventi in risposta a questa fase di emergenza. Investire in questo tempo ha a che fare con la motivazione e l’orientamento professionale del singolo assistente sociale, ma interroga inevitabilmente la direzione dell’ente gestore delle funzioni socio-assistenziali che può decidere di orientare l’agire del servizio solo verso interventi riparativi di emergenza nell’emergenza o, anche, di ristrutturazione in vista di nuovi bisogni.

 

La corresponsabilità della trasmissione

L’eredità porta con sé anche le sue ombre, i suoi errori, per i quali la persistenza andrebbe convertita in opposti comportamenti. L’esperienza italiana del servizio sociale di comunità3 racconta di una professione che agisce e apprende, ma sottovaluta l’opportunità di tradurre in narrazione la propria esperienza, condannandola così all’elevato rischio della  sua scomparsa. Nel fronteggiamento dell’emergenza sociale, la professione è richiamata all’esercizio della documentazione. Questa diviene azione responsabile per la professione del futuro che deve poter continuare a contare sulla propria eredità, ma anche azione corresponsabile degli assistenti sociali di oggi: il progetto, la sperimentazione in corso in un territorio, la rimodulazione di un intervento e buone prassi, se documentati, divengono replicabili in un altro, pur se con gli adattamenti necessari al contesto specifico; creano condivisione, confronto tra operatori e accesso a più ed eguali opportunità per i cittadini. Le resistenze possono essere dovute all’insufficienza del tempo a disposizione che eppure oggi ci consente maggiori spazi di pensiero; al mancato appoggio dell’organizzazione di cui facciamo parte che tuttavia andrebbe sondato; al pensiero di trovare difficoltà a documentare in termini tecnici che, tuttavia, possono essere superate da un’altra garanzia di scientificità ossia la capacità di parlare “delle cose e sulle cose”4 che è propria della nostra professione.

 

Eredità ed eredi

Gli studenti e le studentesse, nostri eredi diretti, potranno dirsi sfortunati ad aver assistito alla sospensione dei loro tirocini oppure potranno cogliere l’opportunità di studiare e prendere parte attiva alla gestione dell’emergenza attraverso attività delegabili e mediate dal confronto costante con il supervisore e il tutor universitario. Gli enti gestori delle funzioni socio-assistenziali e i professionisti che vi operano definiranno una di queste verità. Concederci di parlare al giovane studente che è in noi, riflettere sul bisogno che abbiamo delle domande degli studenti per interrogarci sulla qualità e quantità del nostro lavoro e della reciproca contaminazione con l’ambiente universitario, potrebbe alimentare la creazione di progetti di tirocinio innovativi e preziosi, all’interno dei quali il tirocinante dovrà rispondere con altrettanta motivazione e impegno. Diversamente, l’adesione a pericolosi modelli managerialisti che enfatizzano gli aspetti burocratici e ad “alta sicurezza”, a discapito di quelli relazionali e anticipatori, rischiano di agire negativamente sulla condivisione della responsabilità formativa5, seme indiscusso della nostra eredità.

  1. Grossmann M., “La formazione dei lavoratori sociali per le aree depresse. Iniziative di servizio sociale in corso nel Meridione d’Italia”, Assistenza D’Oggi, n. 1-2, febbraio-aprile 1953, pg 14-26
  2. Allegri E., Il servizio sociale di comunità, Carocci, Roma, 2015.
  3. Dellavalle M., Vezzosi E. (a cura di), Immaginare il futuro. Servizio sociale di comunità e community development in Italia (1946-2017), Viella, Roma, 2018.
  4. Venturini M., “Alcune proposte per la documentazione nel lavoro di comunità”, La Rivista di Servizio Sociale, n. 2, 1962, pp. 34-44.
  5. Dellavalle M., “Il tirocinio nella formazione al servizio sociale. Un modello di apprendimento dall’esperienza”, Carocci, Roma, 2011.