L’universalismo nel SSN: una traiettoria discendente?


Giovanna Vicarelli | 13 Marzo 2024

I Policy Highlights di Politiche Sociali /Social Policies

L’articolo che segue sintetizza alcuni degli esiti principali di un lavoro pubblicato sul numero 3/2023 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia1

Per maggiori dettagli e citazioni: “L’universalismo in sanità a 45 anni dalla istituzione del Ssn”.

 

Un dibattito limitato

Durante la pandemia da SARS-CoV-2 e dopo lo stanziamento dei fondi PNRR della Missione 6 (dedicata alla “Salute”), in molti hanno pensato che si sarebbe aperta la strada per un decisivo rilancio del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Come evidenziano, invece, Elio Borgonovi e Amelia Compagni nella recente prefazione al Rapporto Oasi 2023, il finanziamento per la sanità è tornato a scendere e il dibattito politico si è concentrato su aspetti particolari quali la riduzione delle liste d’attesa, il rafforzamento dell’assistenza territoriale, le tecnologie digitali, il trattamento del personale sanitario. Né il governo e, in certa misura, neppure l’opposizione hanno esplicitamente affrontato il problema della trasformazione della sanità pubblica, mentre si devono a voci singole o collettive (della società civile e di alcuni esperti del settore) gli appelli a salvare il Ssn a 45 anni dalla sua istituzione.

È nella direzione di una riflessione sui cambiamenti semantici e operativi del concetto di universalismo nella sanità italiana che si pone il dibattito aperto da Laboss (Laboratorio sulla salute e la sanità costituitesi lo scorso anno), le cui tesi hanno trovato spazio nel numero 3/2023 della rivista Politiche Sociali/Social Policies, il cui focus è intitolato “Salute e sanità al centro del cambiamento”. L’idea che si sostiene – argomentata in particolare nel saggio L’universalismo in sanità a 45 anni dalla istituzione del Ssn – è che, dagli anni Ottanta ad oggi, si sia passati da forme di universalismo pieno a forme tendenzialmente più ridotte e che tali cambiamenti siano comprensibili alla luce delle diverse modalità di regolazione dei sistemi economico-politici sia sovranazionali, che nazionale e sub-nazionale.

Quale traiettoria?

Per ragionare sulle trasformazioni del modello universalistico nella sanità italiana si può tornare a fare riferimento alle categorie coniate dalla letteratura sul welfare state, dal momento che su di esse risulta fondata la Legge 833. Con l’istituzione del Ssn nel 1978, infatti, l’Italia approda a una copertura universalistica dei bisogni sanitari e di salute che si distacca profondamente dalle forme (fino ad allora prevalenti) del proprio sistema di protezione sociale, i cui caratteri, residuali e categoriali oltre che particolaristico-clientelari e familisti, erano stati ben evidenziati dal dibattito nazionale e internazionale. L’istituzione del Ssn sembra condurre il Paese verso forme di welfare più simili a quelle espresse dalle socialdemocrazie del nord-Europa o verso modalità di universalismo “puro” così come suggerite dalle categorizzazioni che, in questi anni, si sviluppano nell’analisi dei modelli nazionali di protezione sociale. Secondo Esping-Andersen, ad esempio, il regime socialdemocratico si distingueva dagli altri due regimi (liberale e conservatore corporativo) per la centralità del ruolo dello Stato nel processo di de-mercificazione, per l’adozione del principio universalistico come riferimento prevalente nella programmazione delle politiche sociali e per la riduzione dell’intervento delle famiglie e delle donne nella garanzia dei bisogni fondamentali. Ferrera, dal suo canto, partiva dall’analisi del modello di copertura assistenziale, individuando due forme pure – occupazionale e universalistica – e due miste. I modelli puri dell’universalismo risultavano caratterizzati, secondo Ferrera, da quattro pilastri: una eleggibilità includente tutta la popolazione; un finanziamento basato sulla fiscalità generale; prestazioni ampie, omogenee e a somma fissa; una organizzazione delle prestazioni gestita direttamente dallo Stato.

I quattro pilastri dei sistemi universalistici puri possono, dunque, essere utilizzati per comprendere, in un’ottica narrativa, le trasformazioni che essi hanno conosciuto nel periodo che dall’implementazione della Legge 833 giunge fino ad oggi. In tale contesto, pur con molte contraddizioni e antinomie, sembra possibile individuare una traiettoria che da un universalismo pieno ed omogeneo negli anni Ottanta, passa a modalità di universalismo selettivo e differenziato negli anni Novanta-primo decennio del Duemila, per approdare dal 2011 fino alla pandemia ad un universalismo sempre più imperfetto. Se a tali processi si applica una lente di analisi di political-economy, sembra emergere l’idea che la fragilità della governance pubblica nazionale, unita alle debolezze dell’economia italiana e al difficile equilibrio normativo su cui si regge il decentramento regionale, possano essere assunti come fattori di comprensione della lenta erosione dell’universalismo espresso dalla Legge 833, in un contesto internazionale governato dai principi del neoliberismo.

Universalismo riduttivo, adattivo o da cambiare?

La tesi conclusiva, dunque, è che ci si trovi di fronte a una sostanziale trasformazione dei quattro pilastri sui cui si fonda l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Essa è il risultato dei cambiamenti nelle forme di finanziamento basate sulla fiscalità generale (essendo quest’ultima sempre meno progressiva ed equa), nonché di una partecipazione e compartecipazione alla spesa sanitaria crescente e differenziata su base regionale; della mancata riduzione delle disuguaglianze territoriali e delle disparità di trattamento personali, nonostante l’applicazione e il controllo sui LEA; di una organizzazione dei servizi e delle prestazioni sempre più delegata al privato profit e no profit; di una eleggibilità dell’intera popolazione per certi versi più formale che sostanziale.

Sul carattere di tale trasformazione le posizioni possono essere divergenti, poiché a fronte di chi sostiene la dimensione riduttiva dell’universalismo del Ssn (ad esempio Laboss e gli autori dei contributi nel numero citato di Politiche Sociali/Social Policies), si pongono coloro che, con maggiore ottimismo, rivendicano la sostanziale tenuta del sistema pubblico e il carattere semplicemente adattivo dei cambiamenti intervenuti (si vedano, a titolo di esempio, le posizioni sostenute dalla rivista Corti supreme e Salute). Da considerare sono anche coloro che spingono per una revisione dei criteri fondativi del Ssn più adatta alle attuali condizioni demografiche, epidemiologiche, tecnologiche, ma anche economico-gestionali dell’oggi (si consideri qui, ad esempio, la posizione assunta dal Rapporto Oasi sopra menzionato). In questa direzione, emergono, nel dibattito corrente, dichiarazioni secondo cui la gestione pubblica vada intesa in termini allargati alla sanità convenzionata tout court, che le prestazioni garantite dal Ssn possano essere limitate a fronte di una crescita del welfare aziendale (magari più gestito e meglio coordinato dal pubblico), che la fiscalità possa divenire meno redistributiva poco importando l’equità, e che, infine, possano essere rivisti i confini della eleggibilità e della inclusione (magari nei riguardi dei migranti).

Al di là di simili valutazioni, al momento, in Italia, non sembrano fermarsi le politiche di tagli alla spesa sanitaria, mentre si vanno attuando le scelte governative relative all’applicazione dell’autonomia regionale differenziata e alla estensione della flat tax. Quel che sembra esprimersi, in altri termini, è un atteggiamento di svalutazione dei territori e dei ceti sociali meno performanti, secondo l’idea che non sappiano (e quindi non meritino di essere aiutati a) raggiungere maggiori livelli di uguaglianza. Da questo punto di vista, potrebbe emergere un universalismo ridotto o sufficiente attraverso cui legittimare le differenze crescenti tra le aree territoriali del Paese, ma anche un paniere minimo di prestazioni assicurate attraverso il Ssn. Una condizione che incentiverebbe le fasce medie o più abbienti della popolazione a uscire dal sistema pubblico (o non utilizzarlo), condizionando quelle meno abbienti (ceti medi-bassi e bassi) a rinunciare a curarsi o a trovare modalità di accesso ai servizi pubblici utilizzando reti particolaristiche, basate cioè su conoscenze e amicizie. Se questa sarà veramente la strada, allora si potrà dire che la trasformazione del sistema istituzionale-redistributivo in sanità è il risultato dell’influenza, mai sopita, sia del welfare categoriale (si veda il funzionamento del secondo pilastro), sia di quello residuale (si consideri il ruolo attribuito alle famiglie e al mercato no profit), dimensioni, cioè, ancora dominanti nel più ampio sistema di tutele sociali in Italia. Una influenza in cui sembrano giocare più dinamiche di inerzia e resistenza al cambiamento che spinte all’innovazione sociale.

  1. G. Vicarelli, “L’universalismo in sanità a 45 anni dalla istituzione del Ssn”, Politiche Sociali/Social Policies, 3/2023, pp. 405-424..

Commenti

In realtà le spinte condizionali dell’universalismo si sono espresse più volte sin dagli Anni80 (ticket, esenzioni), dato il quadro politico modificatosi dopo il caso Moro. Il 1978 con le ultime riforme è l’apice del tentativo dei governi di centrosinistra di innovare il paese, modificando i rapporti di forza sociali. Gli anni successivi saranno tutto un tentativo di indebolire i quattro pilastri dall’interno, in senso neoliberalistico, a cui resisteranno operatori, sindacati, associazioni, partiti di sinistra . Regionalizzazione e accreditamenti, creando nuovi blocchi di potere, saranno la mediazione per non tornare alle mutue assicurative, aiutando il privato a prosperare, finanziato legalmente dallo Stato (e a volte no, come la magistratura scoprirà) Portare gradatamente, come si è fatto in altri ambiti economici, alla rassegnazione utenti e operatori rispetto alla “impossibilità” di un sistema universalistico, è una strategia che potrebbe risultare vincente, riportando a saldare gli interessi della classe dirigente , imprenditoriale e finanziaria del Paese, con quei gruppi sociali meno abbienti che potrebbero appoggiare il cambio di paradigma. In quest’ottica l’Autonomia Differenziata, sarà un’altro tassello del diaegmo ideologico.

Risponde l’autrice:
Concordo sul fatto che si sia tentato di indebolire i quattro pilastri dell’universalismo fin dagli anni Ottanta, in modo talvolta palese (si veda il decreto 502/92) e assai più in forma nascosta. Le resistenze degli operatori si sono dimostrate, a mio parere, sul campo, nei singoli settori o ambiti di attività con una decrescente capacità di voice collettiva. D’altro canto, ci si è trovati di fronte ad un processo “egemonico” di grande portata cui è stato molto difficile far fronte. In tal senso, i messaggi ripetuti provenienti dai diversi governi di questo arco di tempo sulla inadeguatezza delle risorse e sulle grandi sfide da affrontare) invecchiamento, cronicità, nuove tecnologie e nuovi farmaci) ben spiegano la rassegnazione degli utenti e degli operatori. La posizione di questi ultimi mi sembra il fattore più critico in un’ ottica di salvaguardia del SSn.