Migranti in Europa: verso un’accoglienza respingente?


Oliviero Forti | 9 Novembre 2017

L’estate 2017 si è chiusa con una sensibile diminuzione del numero di migranti che hanno attraversato il Mediterraneo centrale. I dati documentano un significativo calo degli arrivi dal Nord Africa nei mesi estivi: a luglio e ad agosto gli sbarchi sono stati, rispettivamente, il 50 e l’80% in meno  di quelli registrati negli stessi mesi del 2016. Al 25 settembre, gli arrivi complessivi nel paese sono stati 103.318, contro i circa 115 mila dello stesso periodo dell’anno precedente.

 

Questa riduzione è la conseguenza diretta dell’accordo “oneroso”, siglato il 2 febbraio scorso, tra Italia e Libia, nel quale si prevede, tra le altre cose, una maggiore operatività della Guardia costiera libica nelle operazioni di pattugliamento dell’area Sar di competenza. Nei fatti questo significa che, una volta intercettati i barconi con i migranti a bordo, i militari libici provvedono a ricondurli nel paese nord africano. Su cosa avvenga successivamente, poco viene detto dalle fonti ufficiali, anche se alcune organizzazioni hanno documentato la condizione dei centri di detenzione dove i migranti vengono condotti: luoghi nei quali si pratica una sistematica violazione dei diritti umani. Dal rapporto di Oxfam Italia, L’inferno al di là del mare (luglio 2017), emerge che l’84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito in questi centri trattamenti inumani, tra cui violenze brutali e torture, il 74% di avere assistito all’omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l’80% di aver subito la privazione di acqua e cibo, il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali. È evidente che il trattamento e il destino di chi viene recluso in Libia poco interessa all’Europa, anche se recentemente il ministro dell’interno italiano, Marco Minniti, “architetto” dei complessi accordi che hanno consentito la riduzione delle traversate e degli sbarchi, ha assicurato che si sta procedendo con un monitoraggio di questi centri, per adeguarli agli standard internazionali e avviare così, nel paese nordafricano, un sistema utile non solo per l’accoglienza dei migranti, ma soprattutto per l’avvio delle relative procedure di protezione internazionale. Rimane però il nodo di chi dovrà affiancare le Nazioni Unite in un intervento reso difficile dall’insicurezza militare e dalla frammentazione dei poteri in Libia, e che dovrebbe comunque avere le dimensioni economiche di un nuovo piano Marshall.

 

Negli ultimi mesi si è andata rafforzando l’ipotesi di una gestione dei flussi che, alla chiusura delle frontiere europee, unisce un’esternalizzazione dell’accoglienza e delle procedure di protezione internazionale. Dunque, l’ossimoro di un’accoglienza respingente, propria di chi immagina di governare il complesso fenomeno migratorio attraverso politiche securitarie e di “affidamento a terzi”, si fa sempre più strada nella società europea, con un preoccupante effetto a cascata che travolge i media, le istituzioni e l’opinione pubblica.

È in questo contesto che crescono i consensi verso quei movimenti xenofobi che stanno capitalizzando le paure collegate all’arrivo di cittadini stranieri. La percezione di una diffusa insicurezza economica e sociale legata ai migranti, la paura degli attacchi terroristici e l’incapacità dei governi attuali di garantire sicurezza ai propri cittadini, sono elementi chiave sui quali questi movimenti tentano di costruire la loro popolarità. È una situazione che non ha solo conseguenze sul piano politico elettorale ma anche sulla tenuta dei territori. I migranti, chiunque essi siano, vengono sempre più percepiti come una minaccia in quanto stranieri. Ed è su questo binomio che si sta costruendo una pericolosa narrazione sui rifugiati.

Ma ciò che sorprende di più è il fatto che nel vecchio continente, per arginare queste derive nazionaliste e xenofobe, i tradizionali partiti e movimenti progressisti hanno iniziato ad adottare lo stesso linguaggio, talvolta le stesse misure restrittive, utilizzate dai loro avversari politici. Per combattere l’ascesa dei partiti e dei movimenti populisti, dunque, stanno mettendo in atto misure lontane dalla loro storia e dalla loro identità. Insomma, stiamo assistendo ad una omologazione verso il basso che porta l’azione politica a trattare con sgradevole sufficienza tutto ciò che ruota intorno ai diritti umani, spesso considerati diritti di serie b, che vengono dopo gli interessi nazionali, per non dire elettorali.

 

Non sorprendono allora le varie iniziative che hanno caratterizzato l’agenda europea sull’immigrazione nel 2017 e che appaiono, già ad una prima analisi, il prodotto di questo clima da “caccia alle streghe”. Il vertice di Tallin della scorsa primavera ha dimostrato ancora una volta quale sia la malcelata strategia dell’Europa verso il fenomeno migratorio. La Commissione Ue, presentando il Piano d’azione per alleviare la pressione sull’Italia, ha ribadito il suo impegno verso l’immigrazione e i migranti, ma in una direzione che purtroppo va quasi esclusivamente nel senso di bloccare in Nord Africa i flussi verso l’Europa. Per questo il Presidente Junker ha spinto per l’avvio di un centro di coordinamento in Libia e ha richiesto all’Italia di preparare un codice di condotta per le ong che effettuano attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Ha inoltre invitato Tunisia e Libia a dichiarare le rispettive aree di ricerca e salvataggio in mare (Sar). Si tratta di misure volte evidentemente a scongiurare il crescente numero di arrivi degli ultimi anni che, però, non solo non considerano le conseguenze sul destino delle centinaia di migliaia di migranti bloccati in Libia, ma scontano la totale inerzia rispetto alle altre misure che pure la Commissione ha previsto nel piano. Infatti, nonostante gli Stati membri siano stati sollecitati a contribuire maggiormente al Fondo per l’Africa, per completare il contributo da 2,6 miliardi di euro dal budget europeo, ad accelerare i ricollocamenti dall’Italia, ad andare avanti sulla riforma del regolamento di Dublino, nulla o quasi abbiamo visto su questo fronte.

 

A settembre 2017 il numero totale di ricollocamenti effettuati dall’inizio del programma nel 2015, quando si prevedeva di coinvolgere 160 mila profughi, era di appena 28 mila persone: la Slovacchia ha accettato solo 16 dei 902 richiedenti asilo che le erano stati assegnati, la Repubblica Ceca invece solo 12 su 2.691, la Spagna soltanto il 13,7% della quota stabilita, il Belgio il 25,6%, l’Olanda il 39,6% e il Portogallo il 49,1%. Un fallimento che ha visto i paesi di Visegrad prendersi gioco di Bruxelles, in primis il premier ungherese Orban che non solo si è rifiutato di ospitare i profughi ma, con il suo collega slovacco, ha anche fatto ricorso alla Corte di giustizia europea contro il programma di ricollocamento. Il 6 settembre, però, la Corte ha respinto il ricorso.

A riscaldare l’estate appena trascorsa è intervenuta anche la questione delle ong. L’adozione, a luglio, da parte del governo italiano, del codice di condotta per le organizzazioni non governative che svolgono operazioni di salvataggio in mare è stato l’altro tassello di una strategia volta a chiudere la rotta del Mediterraneo centrale. Da più parti è stato evidenziato come gli sforzi compiuti dall’Italia per ridurre i flussi dal Nord Africa abbiano disegnato un contesto sempre più complesso e controverso, in cui il rispetto della dignità e della sicurezza dei migranti non è più assicurato. Da ultima l’Unione europea, in una lettera di fine settembre, indirizzata dal commissario per i diritti umani al nostro governo, ha chiesto «quali salvaguardie l’Italia ha messo in atto per garantire che le persone» salvate o intercettate non rischino «trattamenti e pene inumane, e la tortura».

Siamo dunque davanti ad azioni e posizioni che mostrano un pensiero debole sul tema migratorio. Un pensiero che rimane vittima, per l’ennesima volta, di meri calcoli politici, su cui è impensabile costruire una strategia di medio-lungo periodo. Ne sia testimonianza anche l’incredibile questione dello ius soli.

Sembra che i migranti e le loro esistenze fragili diventino, ancora una volta, lo strumento di un populismo sempre più riluttante, incapace di comprendere la storia e di viverla con lungimiranza. La tentazione di una lettura miope dello spazio e del tempo sta portando l’Europa verso un vicolo cieco, ossessionata da questioni limitate e particolari. Provare ad allargare lo sguardo significa innanzitutto elaborare proposte in grado di rimettere al centro le persone e la loro dignità, sottraendole da chi specula sul loro destino prima, durante e dopo il viaggio. E il riferimento, in questo caso, non è solo ai cosiddetti trafficanti di uomini, ma a tutti coloro che cercano di usare i migranti e l’immigrazione per fini diversi dal bene comune, anche attraverso l’inganno perpetrato con la promessa di aiutarli a casa loro. Non è più tempo di finzioni ma di azioni concrete che devono poter contare su un accordo globale sui migranti e i rifugiati, capace di tenere insieme le esigenze e le istanze di tutti per migliorare la protezione dei popoli in fuga, prima di ogni altra cosa. A tal proposito manca ormai meno di un anno all’adozione finale dei Global Compacts all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2018. Nella Dichiarazione di New York gli Stati membri dovranno assumersi impegni comuni, tra cui la lotta contro lo sfruttamento, il razzismo e la xenofobia; il salvataggio delle persone in fuga; la garanzia di procedure di frontiera eque e in linea con il diritto internazionale.