Pensioni di cittadinanza: tanto rumore per pochi


Carlo Mazzaferro | 31 Gennaio 2019

A leggere i resoconti giornalistici dell’estate scorsa la pensione di cittadinanza avrebbe dovuto interessare 4 o 5 milioni di pensionati. L’obiettivo dichiarato era di portarli tutti ad avere un reddito pari a 780 Euro mensili per dodici mensilità e quindi di farli uscire dalla condizione di povertà (relativa). Il costo dell’operazione, sempre sui giornali, veniva indicato in 6-8 miliardi di Euro. A giustificazione dell’intervento si citava il fatto che in Italia le pensioni di importo inferiore alla soglia fossero pari al 20% del totale dei pensionati e che un intervento in questo settore fosse non solo necessario, ma doveroso. Giova ricordare peraltro che le pensioni di importo basso sono spesso state oggetto di attenzione da parte del legislatore negli ultimi decenni, a partire dal secondo Governo Amato nel 2000, per passare al Governo Berlusconi nel 2001 (il famoso milione al mese), per finire al secondo Governo Prodi, con l’introduzione della quattordicesima mensilità per le sole pensioni a carattere previdenziale nel 2007. Da questo punto di vista la pensione di cittadinanza si inserisce in una ormai consolidata tradizione di intervento a favore della componente più povera ed anziana della popolazione.

Con il passare dei mesi tuttavia la pensione di cittadinanza è quasi scomparsa dagli onori delle cronache e dal dibattito. Cosa è successo? In primo luogo le risorse a disposizione dell’esecutivo per finanziare le misure simbolo del programma di governo in campo pensionistico e di contrasto alla povertà si sono significativamente ridotte. In seconda battuta, la povertà tra gli anziani è, fortunatamente ed anche grazie agli interventi citati sopra, molto meno diffusa di quanto non avvenga nel resto della popolazione. Non sorprende dunque che i pensionati siano rimasti un po’ fuori dalle priorità dell’esecutivo.

 

Sotto il profilo normativo la pensione di cittadinanza non è altro che la declinazione, con altro nome, del reddito di cittadinanza. Viene riservata ai cittadini residenti in Italia da almeno 10 anni e con almeno 67 anni di età. Come per il reddito di cittadinanza il trasferimento è composto di due parti: una propriamente reddituale, che porta il pensionato alla soglia di 7.560 Euro annuali ed una legata alla condizione di affittuario e che può raggiungere la somma di 1.800 Euro annuali. Parliamo in pratica di 630 e 150 Euro mensili, rispettivamente.

 

Vi sono fondate ragioni per pensare che saranno relativamente pochi i pensionati che riceveranno il trasferimento. Da un lato infatti il sistema pensionistico italiano contiene già una serie di trasferimenti, che in maniera disordinata e progressiva hanno portato gli ultra sessantasettenni a ricevere una somma molto vicina a quella prevista con la pensione di cittadinanza. Molti di loro poi sono proprietari della casa in cui abitano e quindi non matureranno nemmeno il diritto alla parte del trasferimento per l’affitto.

A legislazione vigente tutti cittadini italiani di età superiore ai 67 anni, con almeno 10 anni di residenza in Italia e sprovvisti di altri mezzi economici ricevono un assegno sociale, il cui importo è pari a 458 Euro mensili per tredici mensilità, mentre le pensioni da lavoro e invalidità di tipo retributivo hanno diritto ad un’integrazione all’importo minimo fissata in 513 Euro mensili. A questi importi vanno ancora aggiunte le maggiorazioni sociali, graduate in relazione all’età del pensionato, che possono portare la somma fino a 640 Euro mensili per i single e 1.096 per i pensionati che vivono in coppia. I pensionati da lavoro di almeno 64 anni con prestazioni non superiori a due volte l’importo minimo possono invece ricevere la quattordicesima mensilità, che aumenta in maniera non trascurabile l’importo mensile della loro prestazione. Questa sequenza di interventi non è per nulla coordinata. Vi sono infatti differenti regole di prova dei mezzi e diverse definizioni di reddito individuale e famigliare, che contribuiscono a rendere la normativa un vero guazzabuglio di formule e condizioni da cui non è facile desumere una logica o un fine comune. La somma complessiva che lo Stato dedica a queste prestazioni è molto cresciuto, in termini nominali ed in quota del Pil, nel corso dell’ultimo decennio.

La legge che disciplina l’erogazione della pensione di cittadinanza si appoggia dunque su una costruzione già contorta e contiene poi una serie di ulteriori condizionalità, che prendono in considerazione il valore dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), quello del reddito famigliare, quello della numerosità del nucleo famigliare attraverso la definizione di una scala di equivalenza particolarmente penalizzante per le famiglie numerose, quello del patrimonio immobiliare e quello del patrimonio mobiliare. Tra queste due, quella relativa alla dimensione del reddito famigliare (7.560 Euro massimi moltiplicati per la scala di equivalenza) e quella che definisce l’importo massimo del patrimonio mobiliare (6.000 Euro massimi per un single più 2.000 Euro per ogni successivo componente fino ad un massimo di 10.000 Euro) appaiono particolarmente stringenti per i pensionati e con buona probabilità contribuiranno a restringere ulteriormente ed in maniera significativa la platea dei beneficiari.

In definitiva il provvedimento rischia di diventare l’ennesima forma di intervento al margine a favore dei pensionati e sicuramente non riduce, ma al contrario aumenta il bizantinismo del nostro sistema di welfare.

 

Un ulteriore aspetto di preoccupazione deriva infine dal potenziale effetto distorsivo del provvedimento. L’intero pacchetto (assegno sociale + maggiorazione sociale + pensione di cittadinanza) porta l’importo della prestazione ad un livello alto in termini relativi rispetto a quanto un lavoratore con reddito basso e/o con carriera discontinua sarebbe in grado di ottenere con il regolare versamento dei contributi nell’ambito della regola di calcolo che determinerà la pensione da lavoro nei prossimi decenni. Basti pensare che, con il regime contributivo, un lavoratore con reddito di entrata pari 12 mila Euro e 40 anni di contributi oppure un lavoratore con reddito di entrata pari a 20 mila Euro e 15 anni di buchi contributivi, arrivano ad avere una pensione intorno ai 750 Euro mensili con un’età di pensionamento di 67 anni. Quale dunque l’incentivo per questi lavoratori al versamento “regolare” dei contributi per la pensione se lo Stato garantirà loro, alla medesima età, un trattamento assistenziale di importo analogo?