Percorsi di inserimento e reddito di cittadinanza

Il ruolo del Terzo settore


In questi giorni si sta riaccendendo il dibattito sul futuro del Reddito di Cittadinanza. Il ministro Calderone sembra orientato a marcare maggiormente la separazione tra due possibili percorsi: da una parte chi non è occupabile, per i quali permane un sussidio accompagnato da servizi di integrazione sociale gestiti dai comuni, dall’altra chi può lavorare e che riceverà un supporto temporaneo connesso alla partecipazione ad iniziative formative o di altro genere utili a favorire la ricerca del lavoro; da quanto si può comprendere, uno degli intenti sarà appunto quello di orientare maggiormente la misura al reinserimento dei beneficiari nel mondo del lavoro e, grazie a ciò, di favorire la fuoriuscita delle persone dalla condizione assistita.

Tale orientamento, non del tutto assente anche nell’attuale impostazione del Reddito di Cittadinanza, può essere commentato da diversi punti di vista, primo tra tutti quello dell’auspicabilità e dell’efficacia sul fronte del contrasto alla povertà, della presenza o meno di concezioni ideologiche che portano ad equazioni frettolose tra beneficio economico, disincentivo a lavorare, assistenzialismo e “falsi poveri”. Ma, ritenendo che, a prescindere da tutte queste considerazioni, il tema delle politiche di reinserimento sociale e lavorativo delle fasce deboli abbia assoluta rilevanza, in questa sede si sceglie di adottare un punto di vista specifico, costituito dal (disconosciuto) ruolo del Terzo settore in tali politiche.

Facciamo un passo indietro: il nostro paese nell’ultimo decennio ha realizzato alcuni investimenti consistenti sul tema dell’integrazione lavorativa dei cittadini fragili, cioè in un ambito in cui il Terzo settore, e in particolare le imprese sociali che si occupano di inserimento lavorativo, hanno svolto un ruolo di primo piano soprattutto a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso.

Sorge quindi spontanea la domanda: in che misura e in che forma gli enti di Terzo settore sono stati in questi anni coinvolti nelle politiche di maggior rilievo praticate nel nostro paese?

Si pensi, ad esempio, alle risorse dedicate, dal 2014 in avanti, al programma Garanzia Giovani, teso a favorire l’ingresso dei giovani e in particolare dei neet nel mondo del lavoro. Tale programma ha compreso una pluralità di misure, dalla formazione, all’accompagnamento, dal tirocinio al servizio civile, dall’apprendistato al sostegno all’autoimpiego; ma quale è stato il ruolo del Terzo settore e in specifico delle imprese sociali? La risposta è abbastanza evidente: in alcune di queste azioni, insieme a molti altri soggetti, sono state presenti anche degli Enti di Terzo settore, ma sicuramente il Terzo settore non è stato considerato come partner naturale delle istituzioni, neppure su alcune delle misure di Garanzia Giovani in cui nei fatti svolge questa funzione: ad esempio nel caso del servizio civile, si è dimenticato che sono proprio le imprese sociali e le altre organizzazioni di Terzo settore ad aver creato, nel corso degli anni, un percorso virtuoso che in molti casi ha portato i giovani da un’esperienza di responsabilità verso la comunità in cui vivono alla successiva occupazione.

O, venendo ai giorni nostri, il PNRR ha destinato circa 4,4 miliardi di euro per la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori (Gol). Si tratta di risorse assai significative allocate per rafforzare le politiche attive del lavoro, con particolare riguardo (dichiarato) ai più fragili. Ebbene, anche in questo caso i soggetti principali a cui chi programma gli interventi ha deciso di affidarsi sono i centri per l’impiego o le agenzie di somministrazione. Paradossalmente, in una strategia che punta ad inserire al lavoro donne (che costituiscono la grande maggioranza della forza lavoro assunta nel Terzo settore che opera nel campo del welfare), persone con disabilità (che le imprese sociali inseriscono in misura assai maggiore rispetto al resto del sistema produttivo), disoccupati di lunga durata, lavoratori over 55 (le fasce appunto che, pur non riconosciute come svantaggiate, sono spesso comunque assunte in numeri significativi da imprese sociali), il Terzo settore viene scarsamente coinvolto.

Ancora, rispetto ad uno dei temi spesso trattati sulle pagine di Welforum.it, quello dell’amministrazione condivisa, su centinaia di casi di coprogettazione nati in questi due anni, moltissimi riguardano il welfare nelle sue varie declinazioni, altri la cultura, altri beni rigenerati. Ma quelli che riguardano azioni volte a favorire l’accesso al lavoro di fasce deboli sono un numero veramente residuale, nonostante questo sia un ambito in cui le imprese sociali sono portatrici di risorse economiche.

E lo stesso, venendo al tema qui oggetto di riflessione, è avvenuto in questi anni quando, nel processo di implementazione del Reddito di Cittadinanza, si è individuato l’ambito delle politiche del lavoro come uno dei nodi centrali per aiutare i beneficiari a fuoriuscire della condizione assistita. La scelta è stata in questo caso quella di investire nell’assunzione di figure professionali specifiche, i cosiddetti navigator, cui è stato affidato il compito di aiutare a trovare un’occupazione gli oltre un milione di cittadini che hanno sottoscritto un patto per il lavoro contestualmente al percepimento del reddito di cittadinanza. Esperienze sviluppate in varie parti d’Italia, in cui soggetti del Terzo settore si sono fatti carico di organizzare destinatari di misure di contrasto alla povertà in attività di pubblica utilità, costruendo legami di fiducia con la cittadinanza e favorendo percorsi di integrazione sociale e lavorativa, non hanno dato origine a politiche strutturate a livello nazionale e il Terzo settore è rimasto sino ad oggi laterale nelle politiche di reinserimento connesse al reddito di cittadinanza e, nello specifico, nei Progetti Utili alla Collettività (PUC) che impegnano i beneficiari per 8 ore settimanali, salvo ovviamente scelte a livello locale da parte dei comuni.

Vale quindi la pena ribadire alcune costatazioni.

Il Terzo settore, nei fatti, c’è. Si pensi, in primo luogo, alle 5300 cooperative sociali di inserimento lavorativo dove trovano occupazione regolare 30-35 mila lavoratori svantaggiati ufficialmente riconosciuti e almeno altri 15 mila che, pur non essendo riconosciuti come tali (e non portando alcun vantaggio economico) si troverebbero di fatto in condizione di esclusione permanente dal mercato del lavoro; queste imprese da quarant’anni dimostrano che è possibile, pur con un regime di aiuti risibile, stare sul mercato e dare occupazione alle persone che il mercato altrimenti esclude. E poi alle tantissime iniziative di integrazione sociale e lavorativa di persone e famiglie in povertà, sparse in tutto il Paese, che hanno anticipato nei fatti molte delle politiche su cui si sono concentrati gli sforzi di questo decennio. Il Terzo settore c’è perché ha maturato, in oltre 30 anni di attività, cultura ed esperienze: una grande patrimonio che può essere messo a disposizione delle politiche e del tessuto imprenditoriale.

Il Terzo settore, nelle politiche, continua ad essere dimenticato. Come è possibile che in tante politiche attive del lavoro non rappresenti un problema affidare in più occasioni un ruolo esplicito a un’ottantina di agenzie di somministrazione (la cui vocazione alla reintegrazione sociale e lavorativa dei cittadini più deboli è per lo meno dubbia), mentre sorga un pudore immediato laddove si tratti di nominare le migliaia di soggetti che da decenni queste cose le fanno in modo sistematico? Quasi che sedersi ad un tavolo con il Terzo settore – e programmare con il Terzo settore azioni significative a livello nazionale, da realizzare sui territori grazie alla struttura reticolare del terzo settore – paia un’azione discriminatoria verso non meglio specificati altri soggetti che opererebbero per il reinserimento lavorativo.

Concretamente: oggi, nel momento in cui si avverte come prioritario dare un nuovo impulso alle azioni di inserimento nel mondo del lavoro delle persone che beneficiano di misure di sostegno al reddito, non si capisce davvero perché pare così remota l’idea che, a rigore di logica, dovrebbe essere la più naturale: lavorare con le grandi reti nazionali del Terzo settore – Il Forum del Terzo settore in primis e poi, vista la specificità che riguarda le imprese sociali di inserimento lavorativo, l’Alleanza delle Cooperative e le aggregazioni imprenditoriali del mondo cooperativo – per strutturare un progetto da realizzare sui diversi territori che abbia al tempo stesso lo scopo (prioritario) di favorire l’integrazione sociale e lavorativa delle persone che fruiscono del Reddito di Cittadinanza, la realizzazione di azioni utili alle comunità non soddisfatte attraverso il ricorso al mercato e la creazione di legami di prossimità e fiducia tra destinatari del sostegno al reddito e le comunità in cui vivono.

Le risorse sarebbero, almeno in buona parte, una riqualificazione di spesa esistente, dai sussidi ad altre linee di intervento come i navigator che si sono dimostrate poco produttive, alla spesa a livello locale, dal momento che si tratta di realizzare interventi a vantaggio di specifiche comunità territoriali. A fronte di 5 milioni e mezzo di volontari e di circa 800 mila lavoratori (500 mila dei quali in imprese sociali in forma cooperativa), potrebbe essere ragionevole, tra progetti di integrazione a prevalente finalità sociale e progetti con specifico obiettivo di inserimento lavorativo o di avvicinamento al lavoro, pensare ad avviare tramite il Terzo settore un numero di persone che potrebbe partire da circa 100 mila per aumentare progressivamente negli anni successivi?

Questo presuppone, ovviamente, una concezione meno asettica del rapporto tra Enti pubblici e Terzo settore e quindi delle politiche pubbliche che non si limitino a delineare strumenti generali (es. i già citati PUC), ma, riconoscendo il ruolo dei soggetti di Terzo settore, immagini, programmi e progetti insieme ad esso le possibili concrete realizzazioni.