Professionalismo e formazione al servizio sociale


Per le professioni sociali i percorsi formativi rivestono un ruolo chiave, in quanto delineano i profili di figure chiamate ad operare nella complessità del sistema dei servizi e nell’intreccio tra logica professionale e logica manageriale1. In questo contributo ci soffermiamo sul percorso di laurea triennale che permette l’accesso alla professione di assistente sociale e più precisamente all’esame di Stato che abilita all’esercizio professionale.

 

Si propongono qui alcuni spunti tratti da una nostra recente ricerca articolata in due parti: nella prima si è realizzata un’analisi dei documenti, mediati dalla rete internet, sui trentasette corsi di laurea della classe L39 attivi in Italia: schede sintetiche, piani di studio, programmi e quant’altro presente sul Portale Universitaly. Nella seconda, sono state realizzate complessivamente quindici interviste a managers di servizi sociali pubblici e del terzo settore, assistenti sociali scelti in base a specifiche caratteristiche (come l’impegno in organizzazioni rappresentative o l’essere entrati da poco nel mercato del lavoro) e a studiosi. Tra le coordinate utilizzate per l’analisi  anche i Global Standards For Social Work Education & Training del 2020.

 

Quanto di seguito prospettiamo, seppur da riprendere alla luce dei cambiamenti che potrebbero essere introdotti della prospettata riforma dell’ordinamento vigente ai sensi del dm 270/2004, può fornire sollecitazioni per una riflessione sul tema.

La ricerca ha evidenziato alcune specificità nelle offerte formative dei corsi di laurea, derivanti anche dalle peculiarità disciplinari dei dipartimenti in cui gli stessi sono inseriti. In generale, negli atenei italiani, viene posta un’attenzione particolare ad una formazione teorica di base di carattere multidisciplinare, considerata come prerequisito per la lettura e comprensione della complessità dei fenomeni sociali così come dei processi evolutivi e, dunque, per fornire un bagaglio di conoscenze indispensabile per svolgere la professione di assistente sociale, che ha tra i suoi approcci distintivi quello della globalità. La cosiddetta “prospettiva generalista” è, infatti, uno dei building block2 del servizio sociale: la pratica professionale ispirata a tale prospettiva informa un fondamentale obiettivo formativo, cioè l’acquisizione di una visione olistica delle situazioni che si affrontano nei servizi, necessaria a concentrare l’attenzione sulla pluralità e sull’interdipendenza di dimensioni esistenziali, che ineriscono il rapporto fra persone e ambienti.

 

Sebbene si possa evidenziare, a livello sia internazionale sia in Italia, una chiara tendenza nell’organizzazione dei servizi sociali alla suddivisione in ambiti e funzioni specializzate3, le radici storicamente generaliste della professione influenzano ancora oggi i percorsi formativi. Va segnalato che l’esiguità di insegnamenti di servizio sociale nei piani di studio non sembra favorire offerte formative volte a fornire una preparazione rispetto all’intervento professionale in ambiti dedicati a specifici fenomeni; questi ultimi infatti paiono disporre, laddove affrontati, unicamente di chiavi di lettura fornite dalle discipline di base.

La multidisciplinarità dei piani di studio, elemento fortemente ancorato agli obiettivi di una formazione indirizzata a questo specifico profilo professionale, richiede poi uno sforzo significativo per non limitarsi a essere eterogeneità e per garantire, invece, coerenza e sinergia fra i diversi insegnamenti.

Com’è noto, contrariamente a molte realtà internazionali, nel sistema universitario italiano non esistono per il servizio sociale né un settore scientifico disciplinare, né dipartimenti, e i crediti delle discipline del servizio sociale sono decisamente inferiori a quelli di altre, in particolare di area sociologica. Tale prevalenza è un dato strutturale, in parte ancorato all’ordinamento in vigore che prevede, per le discipline di servizio sociale qualificate come caratterizzanti, un minimo di quindici crediti, tendenzialmente rispettato o superato solo in misura molto ridotta.

Un altro elemento riguarda il ritardo che, rispetto ad altre realtà, ha caratterizzato il processo di accademizzazione del servizio sociale italiano, anche e forse soprattutto per ciò che riguarda le opportunità di incardinamento di docenti che provengono dalla professione. Al momento negli atenei italiani risultano complessivamente strutturate circa venti di queste figure; ne deriva che gli insegnamenti delle discipline di servizio sociale sono per lo più attribuiti a contratto (ad assistenti sociali esterni all’università) oppure, in numero esiguo, affidati a studiosi di altre discipline.

 

Venendo ora a quanto emerso dalle interviste, segnaliamo un consenso unanime rispetto alla necessità di incrementare il peso delle discipline di servizio sociale, attualmente considerato del tutto insufficiente. Ad essere segnalato è, inoltre, un bisogno di una maggiore sperimentazione sulle pratiche, attraverso la quale chi studia possa cogliere “i risvolti professionali degli aspetti teorici multidisciplinari” (manager, servizi sociali pubblici). L’esigenza di rinforzare l’esperienza formativa sul campo è molto diffusa tra gli intervistati che svolgono ruoli manageriali: “le carenze sono nella parte pratica, gli studenti hanno un monte ore di tirocinio troppo basso per qualificarsi sul piano pratico…adesso è veramente un disastro (…) questo mestiere si fa non solo perché si è studiato, si impara facendo sul campo” (manager, settore no-profit).

L’obiettivo di promuovere il raccordo teoria-prassi, tema molto presente sia nel materiale documentale analizzato nella prima parte della ricerca sia nelle interviste, richiede di investire nel promuovere maggiore consapevolezza circa il significato di disporre di strumenti di analisi critica, a fronte di quell’attesa di indicazioni molto pragmatiche  che emerge anche dalle rappresentazioni degli assistenti sociali che hanno iniziato a lavorare da poco: “gli obiettivi sono scritti nelle pagine del corso però poi (…) sono obiettivi troppo scollati dalla realtà” (giovane assistente sociale). L’aumento dei crediti (e dunque delle ore) per il tirocinio, auspicato da tutti gli intervistati, va considerato in relazione all’esigenza di una più ampia disponibilità degli enti ospitanti e dei professionisti ad accogliere tirocinanti, così come alla necessità di irrobustire tutto il percorso formativo.

L’ampliamento/ rafforzamento del percorso formativo era un obiettivo di un disegno di legge, sostenuto dal Consiglio Nazionale dell’Ordine Assistenti sociali e mai approvato, che riguardava un percorso di studi a ciclo unico (5 anni anziché 3), al termine  del quale si prevedeva l’accesso all’esame di abilitazione per l’esercizio della professione. La finalità era quella di dotare le nuove generazioni di professionisti sia di conoscenze più profonde e di strumenti più efficaci per operare nel sistema di welfare, sia di una specializzazione in determinate aree dell’intervento sociale. Troviamo in letteratura una critica a questa ipotesi: è stato messo in evidenza, in particolare, che il miglioramento della formazione al servizio sociale non dipende tanto dalla quantità degli anni di studio che permettono di accedere alla professione, ma dalla qualità della formazione: “Qualità e quantità sono però due dimensioni teoricamente sovrapponibili ma distinte per la programmazione dei percorsi di formazione. Un numero molto elevato di ore non necessariamente corrisponde a un risultato formativo eccellente”4. Dalle interviste, invece, emerge come opinione diffusa l’esigenza di prolungare l’attuale durata della formazione, in considerazione della crescente complessità che caratterizza i contesti in cui opera il servizio sociale e che è da tempo al centro dell’interesse globale di studiosi e di professionisti: “Tre anni non sono sufficienti a preparare gli studenti, considerando anche che le giovani generazioni di assistenti sociali affrontano un mondo sempre più complesso” (assistente sociale con incarichi nell’Ordine professionale).

 

Sebbene in letteratura sia stato affermato che l’esperienza di assistente sociale non assicuri di per sé l’effettivo miglioramento della qualità della formazione alla professione5, i nostri intervistati ritengono opportuno che lo studio, la ricerca e l’insegnamento di servizio sociale siano affidati a docenti in ruolo nelle università, con un background costituito da qualificazione ed expertise sviluppati come professionisti del servizio sociale, come suggerito dai citati Global Standards.

 

La prevalenza dei docenti a contratto pone una questione dilemmatica: se da una parte gli stessi dispongono di conoscenze ed esperienze specifiche, dall’altra, avendo necessariamente un’altra attività lavorativa nell’ambito dei servizi e fuori dall’università, hanno comprensibili difficoltà a concentrarsi nello studio sistematico e nell’attività di ricerca. Conveniamo con la posizione di chi ritiene che, essendo le discipline di servizio sociale teorico-pratiche, esse dovrebbero essere insegnate da docenti con formazione e background di assistente sociale: riteniamo, infatti, che il sapere esperienziale integrato con quello accademico contenga una forte potenzialità in termini di efficacia didattica, perché chi ha consapevolezza del sapere trasformativo6, per averlo sperimentato su di sé, ha maggiori chance di accompagnare con successo percorsi formativi professionalizzanti7. Siamo anche però del parere che, all’interno di un corso di laurea, la didattica del servizio sociale non possa fondarsi unicamente sulla docenza a contratto, poiché la garanzia di una valida formazione universitaria richiede di affiancare al background professionale una solida preparazione scientifica e didattica. In tale ottica, occorre colmare la carenza dei dottorati di ricerca, percorsi necessari per acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per la carriera accademica, ma anche superare la scarsità di opportunità di pieno coinvolgimento in attività di ricerca, rendendo così possibile la costruzione di curriculum adeguati all’accesso alla carriera universitaria.

 

Un’offerta formativa che si proponga di fornire strumenti interpretativi della realtà unitamente a competenze professionali richiede naturalmente un’attenzione non solo al numero dei crediti attribuiti alle diverse discipline, ma anche e soprattutto ai contenuti dei programmi e alle modalità d’insegnamento delle discipline stesse. A questo proposito, dalla ricerca sono emerse esigenze diffuse di innovazione, affinché i contenuti e le modalità didattiche siano maggiormente coerenti con le i bisogni formativi dello specifico profilo professionale. La prospettiva innovativa non è certamente quella volta a cancellare il presente, ma piuttosto quella interessata a una revisione complessiva dei percorsi formativi, attenti anche alla riscoperta di conoscenze e di competenze che hanno costruito la cultura, le conoscenze teoriche e le pratiche del servizio sociale8.

 

Dal punto di vista degli obiettivi, innovare è adoperarsi non per formare un assistente sociale-burocrate, concentrato solo sulle procedure e mero esecutore delle politiche, bensì un professionista “riflessivo, che sa quello che fa, perché lo fa, cioè che apprende dalla propria esperienza, la rilegge, la rielabora e, soprattutto, si interroga sulle fonti della propria conoscenza, si chiede quali conoscenze sta usando per interpretare le situazioni problematiche“ (manager, servizi sociali pubblici). L’innovazione implica, cioè, un processo costante di ripensamento della pratica professionale in una direzione che comporti il superamento di una logica prettamente prestazionale e monetaria.

Lo scenario futuro, dunque, può essere quello dell’innovazione come strategia per rompere la burocratizzazione9 che si osserva in molti aspetti dell’intervento sociale; questa prospettiva appare direttamente collegata ad un processo dinamico, di adattamento e aggiornamento della formazione al servizio sociale, che coinvolga sinergicamente le università e la comunità professionale.

 

Per affrontare tale processo si possono individuare alcune proposte. In relazione all’impianto didattico, andrebbero definiti – a livello nazionale e all’interno di un tavolo di confronto fra Ministero dell’Università, rappresentanti istituzionali delle sedi formative e della comunità professionale – gli obiettivi formativi, gli indicatori di qualità della formazione e i criteri minimi di erogazione, in particolare per il tirocinio e le attività di promozione e sostegno del raccordo fra teoria e pratica. In proposito, appare cruciale lo scambio collaborativo fra Conferenza dei Presidenti dei Corsi di laurea e il Consiglio Nazionale dell’Ordine Assistenti sociali, uno scambio che contempli anche il coinvolgimento della Società Italiana di Servizio sociale, che riunisce gli studiosi della disciplina.

Questo permetterebbe di conformarsi rispetto a una prospettiva il più possibile rispondente alle diverse e complesse esigenze, favorendo auspicabilmente l’adeguamento del sistema formativo italiano alle indicazioni dei Global Standards che, fra l’altro, individuano come fondamentale la collaborazione e il trasferimento di conoscenze tra le diverse sedi formative, così come fra formazione, pratica e ricerca. Opportuni appaiono anche percorsi di ricerca valutativa e partecipata anche dal corpo studentesco, non limitata ai singoli corsi di laurea ma estesi al complesso delle sedi,  che considerino fattori quali l’efficacia delle modalità didattiche, i criteri di valutazione, il miglioramento di spazi e strumenti, l’uso crescente della tecnologia che ha recentemente suscitato un maggior interesse nell’ambito della didattica a distanza  imposta dalla pandemia10.

Fondamentale, infine, sarebbe una più ampia partecipazione delle sedi formative universitarie italiane al confronto con le realtà di altri paesi, già in essere e promosso dagli organismi internazionali, quali l’European Association Schools of Social Work (EASSW) e l’International Association Schools of Social Work (IASSW).

  1. Tousijn, W., Dellavalle, M., Logica professionale e logica manageriale: Una ricerca sulle professioni sociali, Il Mulino, Bologna, 2017.
  2. Vandekinderen, C., Roose, R., Raeymaeckers, P., & Hermans, K., “The DNA of social work as a human rights practice from a frontline social workers’ perspective in Flanders”. European Journal of Social Work, 2020, 23(5), pp. 876-888.
  3. Campanini, A. (a cura di), Gli ambiti di intervento nel servizio sociale, Carocci, Roma, 2020.
  4. Fazzi, “La proposta di legge 550 e il disegno di legge 660: verso un rilancio o un collasso della professione”. La Rassegna di Servizio Sociale, 1, 2014, p. 67.
  5. Fazzi, op.cit., pp. 64-84.
  6. Mezirow J., Apprendimento e trasformazione . Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti. Raffaello Cortina, Milano, 2003.
  7. Dellavalle, M., “Il Servizio sociale tra professione e didattica”, Rassegna di Servizio sociale, 3, 2012, pp. 48-62.
  8. Ramos-Feijóo, C.; Lillo-Beneyto, Lorenzo-García, A. L.; Ramírez-García, E.; Soler-Javaloy, P.; Villaescusa-Gil, O.; Munuera-Gómez, P.; Pascual-Fernandez, M.; Dellavalle, M., & Cellini, G.. REDITS Red Interuniversitaria para la Didáctica en Trabajo Social, Memòries del Programa de Xarxes-I3CE de qualitat, innovació i investigació en docència universitària. Convocatòria 2019-2020, 2020, pp. 1015-1020.
  9. Ramos-Feijóo, C. et al., op.cit.
  10. Cfr. “La didattica a distanza nella formazione al Servizio sociale fra emergenza e innovazione”. Numero speciale de La Rivista di Servizio sociale, 2, 2020.

Commenti

Mi permetto di aggiungere un’ulteriore via: la validazione e certificazione delle competenze esperienziali (L 92/2012 art. 51-64 e successivi passi), che ben si armonizza con la posizione del personale adulto permettendo la valorizzazione dell’esperienza professionale e personale (es. Fondazione Demarchi Trento) ai fini del riconoscimento di una qualifica professionale (Atlante Lavoro) e di percorsi di carriera interni o trasversali. Da maturare in accordo con gli Enti pubblici e gli Ordini professionali di riferimento.

Concordo sul fatto che sarebbero utili più ore di tirocinio, e anche nel primo anno di corso andrebbero pensate delle ore strutturate.
Grazie dell’articolo! Fatto bene.

Concordo pienamente con lo sviluppo dell’articolo e la sua sequela è STATO TUTTO BEN DISCUSSO E ORGANIZZATO.

Ho avuto una lunga esperienza professionale, sia come assistente sociale anche con funzioni dirigenziali che come membro di una Associazione che ha dato vita a una scuola di servizio sociale che ha operato per circa 30 anni prima di confluire nell’università. Il Servizio Sociale ha necessità di incrementare il patrimonio di conoscenze specifiche a partire dai fondamenti fino alla metodologia professionale, applicata ai diversi ambiti specifici di intervento. Occorre che i docenti abbiano una solida esperienza professionale o una ottima conoscenza della professione e possano dedicarsi allo studio e alla ricerca in gruppi interdisciplinari. Certo gli attuali 3 anni di studio con l’esiguità di ore di tirocinio e la frequenza non obbligatoria non bastano per formare dei professionisti in grado di operare in una realtà divenuta molto complessa anche dal punto di vista normativo e della organizzazione dei servizi.

Sono un docente “senior” di Principi e Fondamenti del servizio sociale. Concordo in pieno con le posizioni espresse nell’articolo, posizioni che non sempre ho visto enunciate con tanta linearità e coerenza. Aggiungerei solo uno spunto, che riprendo da una nota ricerca in passato pubblicata a cura di Carla Facchini (in un mio articolo su Studi Zancan,6,2001): l’impegno sul versante dell’elaborazione teoria-pratica, non va lasciata solo all’ambito del tirocinio,ma va condivisa in varia misura da tutte le discipline del corso,anche quelle non caratterizzanti.