Professioni sociali: dissolvenza o integrazione delle competenze?


Marilena Dellavalle | 18 Dicembre 2019

Nell’ambito del lavoro sociale, la questione delle competenze professionali si pone in termini incerti, a causa di situazioni in cui le stesse si possono presentare come sovrapposte o perlomeno diluite. Se è vero che la complessità dei fenomeni e dei problemi affrontati richiede un sistema altrettanto complesso di natura interprofessionale, è opportuno chiedersi quali competenze distintive entrano in gioco e quali sono, invece, quelle trasversali.

La proposta è quella di aprire il dibattito e piste di ricerca i cui esiti possano contribuire ad approfondire e precisare il sistema di profili e competenze professionali, aspetto di particolare interesse anche per la progettazione formativa di base e continua.

 

L’esigenza si manifesta anche perché il tema sembra rimanere piuttosto in sordina nei dibattiti scientifici e professionali; né si registrano sistematiche iniziative di tutela delle competenze riservate per le professioni ordinate, come avviene invece in ambito sanitario1. Tra le isolate eccezioni di natura giudiziaria, la Corte Costituzionale2 non esclude che, rispetto alle funzioni attribuite agli assistenti sociali dalla legge 84/1994, possano intervenire nella medesima situazione altre figure professionali, “data la genericità della previsione normativa”, mentre il TAR Marche (n.114 – 2018) invita a rispettare le qualifiche professionali nell’impiego del personale3.

A partire da ricerche e studi già disponibili, possiamo ipotizzare tre situazioni di sovrapposizione o dissolvenza delle competenze professionali.

 

La prima riguarda la proliferazione di figure non autenticamente nuove alle quali sono attribuiti funzioni tipiche di professioni già strutturate4. Se ne può trovare un esempio nella Classificazione delle professioni (ISTAT, 2011) che, nell’Unità 3.4.5.2.0 Tecnici del reinserimento e dell’integrazione sociale, contempla dieci figure. Al fenomeno non sono forse estranee le operazioni di identificazione dei profili professionali, condotte nella fase di progettazione di corsi di laurea magistrale: si formulano proposte di nuovi profili, (tendenzialmente esperto, specialista responsabile, manager) le cui funzioni sono in buona parte indicate in quelli già esistenti, piuttosto che privilegiare l’avanzata qualificazione o la specializzazione di questi ultimi.

Nella seconda le differenze fra le figure interne al lavoro sociale sono diluite tramite l’assegnazione di funzioni non corrispondente alle qualifiche e alla formazione.

La terza situazione concerne l’interazione fra professionisti diversi operanti in servizi differenti, in particolare nelle aree di integrazione socio sanitaria.

Ci soffermiamo qui in particolare sulla seconda e sulla terza, fornendo alcune testimonianze da parte di chi vive la quotidianità del proprio operare all’interno di specifici assetti organizzativi.

 

Voci dalle realtà professionali

Il tema della sovrapposizione di competenze è stato trattato, pur non centralmente, da una ricerca5 che ha fatto emergere la questione come concretamente vissuta nella realtà operativa. I risultati dello studio, condotto con un metodo qualitativo in due casi di enti gestori di servizi sociali territoriali dell’area metropolitana torinese, non sono generalizzabili, ma possono fornire ipotesi per ricerche in altri contesti. In quest’ottica, si riportano a titolo esemplificativo alcune delle voci emerse.

Nonostante un dirigente affermi «[…] non mi sembra corretto dire che adesso c’è una situazione di operatore unico! […] ci sono indubbiamente altri grossi motivi di fatica, di stanchezza che poi si traducono anche magari in irrigidimenti rispetto ai ruoli, ma non penso che siano legati a miscugli di ruoli a livello professionale» [35], sembra emergere una commistione di funzioni, indipendentemente dalla formazione ricevuta per la costruzione delle corrispondenti competenze. Lo esemplificano queste risposte, la prima di una responsabile: «[…] negli ultimi anni si sta diffondendo questa cultura […] sono pochissimi i lavori che richiedono specificità, per il resto tutti possiamo fare tutto! C’è questa cultura qua … io la trovo avvilente! […] io questa cosa ogni tanto la percepisco, questo tentativo di livellare tutti, di appiattimento, di non riconoscimento di specificità» [1]; le seguenti di assistenti sociali: «Sembra che qua tutti fanno tutto, possono fare tutto, sanno tutto…peccato che poi non è così nella realtà perché ogni professione ha la sua specificità, particolarità e il proprio bagaglio culturale e formativo» [40], «Nella gestione del caso non è facile distinguersi, non c’è nessun protocollo, nessun documento che attesta che uno deve fare una cosa, piuttosto che l’altro deve necessariamente fare altro» [52]. E ancora di alcuni educatori: «Le assistenti sociali facevano quello che oggi facciamo noi come educatori [47]»; «Sempre più adesso si cerca di omologare le due figure professionali, come l’educatore fosse la brutta copia dell’assistente sociale [41]»; «Questo stravolgimento delle professioni […] siamo andati a fare qualcosa di molto simile all’assistente sociale» [21].

 

Rispetto allo specifico ambito del segretariato sociale, Rossi6 ritiene controversa l’attribuzione delle funzioni segretariali al personale amministrativo: da una parte, essa consentirebbe agli assistenti sociali di essere sgravati da questo compito, potendo dedicare più risorse alla gestione di altri più complessi; dall’altra, comporta il rischio che la mancanza di una specifica formazione, rispetto all’ascolto e all’analisi della domanda, riduca le risposte al livello puramente informativo o le appiattisca sulla prestazioni.

Berger7, riportando gli esiti di due ricerche condotte in una regione del Nord Est italiano8, affronta le tensioni nell’interazione fra operatori e servizi diversi, dove l’intreccio fra tre livelli coinvolti nei processi di integrazione (istituzionale, gestionale e professionale) aumenta la fatica della collaborazione. Di particolare interesse, fra le strategie individuate dai partecipanti alle ricerche, la salvaguardia della specificità di ogni ruolo, costruendo un “linguaggio comune” e assumendo come bussola la centralità della persona, e l’” anticipo di fiducia” nelle competenze altrui; aspetto quest’ultimo che presuppone una vicendevole conoscenza del significato e degli obiettivi delle diverse presenze istituzionali e professionali.

Il tema potrebbe oggetto di ricerche che considerino le diverse organizzazioni e le loro configurazioni, cioè quelle che prevedono rapporti interprofessionali fra figure di differente qualifica e collocazione istituzionale e quelle che, invece, contemplano stabili équipe pluriprofessionali all’interno dello stesso servizio, ma anche i rispettivi paradigmi, la loro influenza9 e le posizioni dei soggetti coinvolti a livello professionale e organizzativo.

 

Conclusioni

La complessità dei fenomeni, così come l’interdipendenza di problemi e risposte, richiede di incrementare i vertici di osservazione e valutazione e, quindi, l’integrazione fra saperi differenti. Ciò premesso, si può riflettere sulla necessità di proteggere la collaborazione interprofessionale dai rischi di una rigida chiusura nel proprio steccato specialistico del tutto inadeguata a professioni in rapporto costante e ineludibile con il cambiamento sociale e propense al confronto, così come da quelli della rimozione delle competenze distintive.

Si tratterebbe, dunque, di costruire percorsi all’interno dei quali le competenze distintive e quelle trasversali siano prima di tutto individuate e riconosciute. Operazione questa che richiede un certo grado di autoconsapevolezza ai diversi livelli (quello delle famiglie professionali, quello dei gruppi interprofessionali e quello della dirigenza), cosi come la disponibilità a ricercare un equilibrio tra l’indifferenziazione delle competenze e la chiusura corporativa in rigidi confini.

Naturalmente qualsiasi considerazione in merito richiede essere collocata all’interno del quadro generale del sistema italiano di welfare, dove il presidio delle competenze distintive si complica notevolmente a causa della mancanza di un’organica classificazione delle figure del settore sociale, stante sia la frammentazione dei modelli regionali di welfare sia la mancata definizione dei profili ancorché prevista dall’inattuato art. 12 della 328/2000.

Appaiono, dunque, necessarie iniziative tese a “ creare il presupposto politico di una riflessione larga fra tutti gli attori del sistema, evitare derive eccessivamente corporative, offrire un quadro di riferimento, nazionale certo ed un possibile tentativo di coniugare esigenze regionali e mantenimento di una unitarietà nazionale, necessaria e di garanzia per tutti”, come già evidenziato nell’inascoltata proposta delle autonomie locali del 200410.

  1. Si pensi alle tensioni, sfociate anche in abito giudiziario, tra gli psicologi e i medici sulla funzione diagnostica e fra infermieri e medici.
  2. Corte Costituzionale, n. 147/22 maggio 2018. Presidenza Consiglio dei Ministri contro Regione Campania in merito alla Legge regionale 22 maggio 2017, n. 13 Istituzione del servizio di sociologia del territorio della Regione Campania.
  3. Sentenza, in esito al ricorso presentato da AssNAS, sul corretto inquadramento delle funzioni e dei limiti della figura professionale dell’ “Operatore del Servizio Sociale di base” di cui al Repertorio Regionale dei Profili Professionali della Regione Marche, approvato con delibera n. 1412 del 22/12/2014.
  4. Cfr. Casadei S. (2017), “Valorizzare il lavoro sociale per un nuovo welfare di cittadinanza: appunti sul riordino delle professioni e del lavoro sociale in Italia”, in SINAPPSI, 2017 disponibile a questo link [u.a. 7 aprile 2019]; Turchini A., Cuppone M., “Le risorse umane nelle imprese human intensive” in Quaderni di economia sociale, 2, 2016, pp. 11-16].
  5. Il riferimento è alla ricerca diretta dal Prof. Willem Tousijn, finanziata dal Consiglio dell’Ordine Assistenti sociali Piemonte. Le citazioni in questo testo sono contrassegnate da un numero che rimanda alla codifica delle interviste. Cfr.Tousijn W., Dellavalle M. (a cura di), Logica manageriale e logica professionale. Una ricerca sulle professioni sociali, Il Mulino: Bologna, 2017.
  6. Rossi P., Il segretariato sociale e l’accesso ai servizi socio assistenziali, FrancoAngeli, Milano, 2012.
  7. Berger E, “Interprofessionalità: sfide e prospettive nella collaborazione tra servizi”, in S. Fargion, S. Frei e W. Lorenz (a cura di) L’intervento sociale tra gestione del rischio e partecipazione, Carocci, Roma, 2015.
  8. Cfr. Fargion S., Frei S., Lorenz W., L’intervento sociale tra gestione del rischio e partecipazione, Carocci, Roma, 2015.
  9. Su quest’ultimo aspetto e in particolare sugli effetti della prevalenza del paradigma biomedico a scapito di quello sociale, cfr. Scarscelli D., “Medicalizzazione della devianza, controllo sociale e Social Work”, in Sociologia del diritto, 1, 2015, pp.37-64.
  10. ANCI, Anci, Upi, Federsanità, Anci, Legautonomie, “Presente e futuro delle professioni sociali. Un documento di proposta delle autonomie locali”, in Autonomie locali e servizi sociali, 1, 2004, (doi: 10.1447/13637)

Commenti

Grazie Marilena, mi pare un contributo utile a riflettere ed approfondire un tema estremamente attuale a cui offri precise chiavi di lettura e che invece spesso viene vissuto solo in chiave sterilmente corporativa