Programmazione sociale territoriale: ci sarà la stagione dei CO?


Ugo De Ambrogio | 23 Settembre 2021

A seguito della pandemia tuttora in corso e della disponibilità di risorse che i processi di fronteggiamento della pandemia stanno mettendo a disposizione dei policy makers (PNNR e altro), nel nostro paese sta riprendendo una fiorente stagione di programmazione sociale.

In molte regioni si è ripresa la programmazione di zona che per alcuni anni era rimasta sopita (Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia e altre), inoltre sono stati redatti piani nazionali settoriali: il Piano sociale nazionale, legato al fondo nazionale per le politiche sociali, il Piano per gli interventi e i servizi di contrasto alla povertà legato al fondo povertà, il Piano per la non autosufficienza, legato al fondo per le non autosufficienze. I primi due sono stati elaborati per il triennio 2018-2020 il terzo per il triennio 2019-2021.

Tali strumenti settoriali sono stati recentemente accorpati e sintetizzati nel nuovo Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021/2024, che attendevamo da quasi un ventennio e che si candida ad essere un’importante strumento di indirizzo per le regioni e i territori al fine di utilizzare al meglio le risorse oggi disponibili.

Il piano si propone come: “uno strumento di sintesi, che “intende rispondere al dettato legislativo costituendosi come documento dinamico e modulare, che contiene all’interno una cornice unitaria, i soprarichiamati piani settoriali (pag 2)”.

 

In questo contesto di rinnovata attenzione alla programmazione sociale va considerato anche l’importante atto nel ministero del lavoro e delle politiche sociali che negli scorsi mesi ha adottato le “linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore negli articoli 56 e 57 del decreto legislativo numero 117/2017 ovvero del codice del terzo settore”. Tali linee guida hanno il merito di regolare con chiarezza gli istituti della coprogrammazione e della coprogettazione che rappresentano le nuove forme e cornici anche di carattere amministrativo all’interno delle quali si sviluppano i rapporti a carattere collaborativo e di responsabilità, tra i diversi soggetti pubblici e privati che nella società civile contribuiscono alla costruzione del welfare sociale.

Si tratta, a parere di chi scrive, di iniziative meritevoli (ben venga una nuova stagione di programmazione sociale!) e opportunamente, in queste pagine, Gianfranco Marocchi si è recentemente chiesto se, in tale contesto: Sarà l’anno della coprogrammazione?

 

Chi scrive condivide gli auspici e le prospettive che Gianfranco Marocchi illustra nel suo articolo e intende fornire un contributo ulteriore, auspicando l’arrivo non di un anno ma di una stagione anche più ampia di coprogrammazione, fornendo alcuni suggerimenti relazionali e metodologici per “proteggere e preservare” la coprogrammazione da rischi che ne potrebbero svalutare le potenzialità.

Mi sembra però opportuno fare prima una premessa sull’evoluzione storica della partecipazione nella programmazione sociale in Italia utilizzando una tabella (Tabella 1).

 

Tabella 1

 

Nel corso di un quarto di secolo siamo infatti passati da una programmazione sociale verticistica, in logica di government, ad una idea di governance caratterizzata dal metodo della coprogrammazione.

Nel primo modello il pubblico titolare della costruzione delle politiche decide quali politiche sociali promuovere e lo fa attraverso strumenti prescrittivi (leggi, piani, direttive etc.). Un chiaro esempio dell’applicazione di questo modello è stata la l.  285 del 1997 – diritti ed opportunità per infanzia ed adolescenza – una normativa illuminata nei contenuti ma decisa dall’alto, come era caratteristica dell’epoca in cui è stata pensata: gli ultimi anni del secolo scorso.

La legge 328 del 2000 e le leggi regionali che negli anni successivi, a seguito della riforma costituzionale, ne hanno ripreso i principali contenuti, sono invece sintomatiche di un secondo modello che potremmo metaforicamente definire di “monarchia illuminata”: chi deve decidere, ovvero il livello politico di un comune o di comuni associati, consulta i soggetti del terzo settore che ritiene più autorevoli nel proprio territorio o altri della società civile (testimoni privilegiati) per raccogliere suggerimenti in ordine alle decisioni che deve prendere per lo sviluppo delle politiche sociali .  Emblematico di tale modello sono stati (e ancora in molti territori sono) i tavoli tematici dei piani di zona, condotti per lo più a livello tecnico e con una modalità consultiva.

Oggi, anche grazie alle procedure di tipo consensuale e non competitivo previste dall’art. 55 del Codice del Terzo Settore (secondo principi della L. 241/1990) siamo in presenza di un possibile nuovo paradigma collaborativo nei rapporti pubblico privato nella programmazione sociale e gli ETS possono sviluppare, nei rapporti tra loro e con la PA, relazioni improntate alla cooperazione e alla condivisione in coerenza con il principio di sussidiarietà. La programmazione sociale, in questo quadro, può procedere in logica di governance, il pubblico titolare della costruzione delle politiche lo può fare insieme al terzo settore, anch’esso titolato a identificare i bisogni di un territorio e le strategie per fronteggiarli. È questa quella che chiamiamo coprogrammazione.

 

Tabella 2

 

In un recente articolo (cfr. Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 2 – Primavera 2021) auspicavamo l’avvio della cosiddetta stagione dei 6 CO (Coprogrammazione, Coprogrammazione, Collaborazione, Corresponsabilità, Condivisione Comunità), ad indicare che non basta avere una buona norma per divenire “magicamente” collaborativi, perché il cambiamento auspicato è complesso e prefigura un cambiamento culturale che richiede tempo e metodo.

La stagione dei CO comprende concetti chiave che sottostanno al passaggio da un paradigma di tipo essenzialmente competitivo, che ha caratterizzato i processi di esternalizzazione dei servizi tipici degli anni passati, verso un paradigma di tipo collaborativo.  Collaborazione, corresponsabilità cooperazione, condivisione, sono tutti elementi che richiedono a monte, fra le parti coinvolte, la costruzione di una solida relazione di fiducia.

In effetti, nella intensa attività formativa che come Scuola Irs per il Sociale stiamo conducendo in questi mesi sui temi della collaborazione, coprogrammazione e coprogettazione fra pubblico e terzo settore, sta emergendo una forte esigenza di riflettere su come sviluppare efficaci rapporti di fiducia, andando oltre pregiudizi e diffidenze reciproche.

 

Limitando, in questa sede, la questione alle esperienze di coprogrammazione, possiamo elencare alcuni rischi e preoccupazioni emersi in confronti svolti all’interno dei nostri corsi, che i soggetti della coprogrammazione si trovano a fronteggiare.

 

Assumendo il punto di vista del soggetto pubblico alcune delle preoccupazioni più ricorrenti emerse dai nostri corsisti sono:

  • non seleziono più discrezionalmente ma devo accettare gli aventi titolo (chi risponde ai requisiti di un avviso);
  • non posso pertanto più esercitare discrezionalità «politica»;
  • devo essere «ecumenico»;
  • appesantisco «burocraticamente» i processi partecipativi;
  • rischio di entrare in conflitto con il terzo settore;
  • rischio di entrare in conflitto fra il livello tecnico e quello politico.

 

Assumendo ora, specularmente, il punto di vista del terzo settore le preoccupazioni più ricorrenti emerse dai nostri corsi sono:

  1. cedo gratis il mio know how;
  2. perdo tempo non pagato senza alcuna garanzia di averne lavoro in futuro;
  3. posso essere manipolato da interessi politici;
  4. rischio di entrare in conflitto con il settore pubblico;
  5. rischio di entrare in conflitto con altri soggetti del terzo settore del mio territorio.

 

Si tratta di preoccupazioni legittime, che vanno però superate per poter collaborare efficacemente, e come dicevo in precedenza, la fiducia può essere l’antidoto per superarle non evitando confronti e conflitti ma considerandoli feconde opportunità di programmazione efficace.

 

Ma che cosa significa precisamente avere fiducia nei rapporti collaborativi?

Il tema è ampio e in questa sede ci limitiamo ad alcune brevi riflessioni emerse dai nostri corsi e tutte da approfondire.

Una prima osservazione è che una relazione basata sulla fiducia è infatti un modello di relazioni possibile nelle relazioni di partenariato; come infatti ci ricorda Covey, la fiducia :

  • favorisce una comunicazione circolare,
  • consente ai partner non di costruire trincee ma ponti,
  • non c’è nessun nemico da cui difendersi ma risorse da conoscere e ri-conoscere per arricchirsi.

 

Micaela Marzano, in un suo bel saggio di qualche anno fa ci ricorda anche che la fiducia è una sorta di dono senza garanzia di reciprocità, non dipende (solo) dalla competenze specifiche, avere fiducia consente di ricordarci che dipendiamo gli uni dagli altri (come forse la pandemia ci ha insegnato) e che pertanto autonomia non coincide con indipendenza ma con una idea consapevole che abbiamo bisogno degli altri così come gli altri hanno bisogno di noi.

 

Nei rapporti collaborativi, e nella coprogrammazione in particolare, coltivare la fiducia è pertanto una pratica essenziale, si tratta però non di attribuire una fiducia “cieca”, ma di coltivare quella che Covey chiama fiducia intelligente, ovvero quella modalità che permette di gestire i rischi con saggezza evitando disastrose ingenuità, ma anche di non rimanere prigionieri della diffidenza che alimenta sospetti paralizzanti.

La fiducia intelligente è prodotta da due distinte propensioni: la propensione relazionale alla fiducia e la capacità analitica di riconoscere meriti e competenze dei nostri interlocutori.

La prima viene dalle nostre intuizioni e dalle nostre caratteristiche personali (esperienze, educazione ecc.), la seconda viene dalla nostra razionalità ed è legata alla nostra capacità di leggere i dati di realtà ed elaborarli criticamente.
La capacità analitica in coprogrammazione è importante che sia utilizzata per valutare in primo luogo i bisogni e le opportunità che il territorio ci presenta, successivamente si prendono in considerazione i rischi connessi giudicando la rilevanza e la visibilità dei risultati e la loro probabilità di conseguimento, infine va considerata la credibilità dei nostri interlocutori inclusa la competenza e l’attitudine. Dopo questa analisi si può dare spazio alle nostre intuizioni e decidere di accordare fiducia intelligente, senza tenere sotto esame i nostri interlocutori ma passando a costruire una comune programmazione passando da una logica del tu ed io ad una logica del noi, per, insieme, costruire politiche di welfare efficaci per il nostro territorio.