Quale riconoscimento per le professioni del lavoro sociale?


Marilena Dellavalle | 17 Maggio 2019

Il lavoro sociale

Quale configurazione ha il lavoro sociale italiano e come si colloca all’interno del panorama internazionale? Possiamo cominciare con il considerare il lavoro sociale come un insieme di diverse attività professionali, all’interno del quale si possono individuare aspetti che unificano, ma anche elementi di differenziazione e specificità1. Tali attività sono assimilate dall’intervenire con un approccio olistico, a livello individuale e collettivo, per prevenire e contrastare il disagio sociale, valorizzando le risorse personali e ambientali. Il concetto è stato trattato da numerosi studi di Folgheraiter2 che lo identifica con un’area tematica interdisciplinare interessata al disagio sociale, ma anche con un complesso di attività specializzate che costituiscono un sottoinsieme delle professioni di aiuto. All’interno di queste ultime si distinguono le professioni sociali che agiscono sulle conseguenze dei problemi umani, in un’ottica che considera questi ultimi come globali, relazionali e dinamici.   Il concetto di “lavoro sociale” appare piuttosto composito e di non facile definizione, soprattutto in termini di comparazione internazionale. Se il riferimento immediato è alle traduzioni letterali dell’inglese Social Work, del francese Travail Social e dello spagnolo Trabajo Social, il suo significato presenta nei diversi paesi differenze che ostacolano l’enunciazione di una semantica coincidente. Si tratta di diversità che traggono origine dalle peculiarità dell’evoluzione storica, politica e sociale e del conseguente sviluppo del sistema dei servizi. Una breve rassegna può aiutarci a comprendere meglio le specificità di diverse aree linguistiche. Nei paesi francofoni, Social work è tradotto con la locuzione Travail social (TS) che definisce un insieme di attività sociali condotte da diverse figure professionali, mentre la locuzione service social viene riferita alla professione esercitata dall’assistente sociale. Questa differenza non riguarda, però, il Québec dove entrambe le locuzioni Travail social e Service social sono usate per riferirsi al nostro Servizio sociale. In Germania, il termine Soziale Arbeit (lavoro sociale) si riferisce generalmente alle due professioni di assistente sociale (Sozialarbeiter) e educatore sociale (Sozialpadagogen). Se nel Regno Unito sembra essere in atto un processo di inter professionalizzazione che attenua fortemente la specifica natura dei singoli profili, negli USA, la voce social work è ricondotta al contributo dei pionieri che costituiscono un riferimento teorico diretto per quello che in Italia è definito servizio sociale. Per ciò che riguarda la Spagna, nel Terzo Congresso Nazionale degli assistenti sociali celebrato in Siviglia nel 1976, la necessità di segnalare il passaggio dalla dittatura franchista alla democrazia ha condotto alla revisione terminologica che ha sostituito Servizio social con Trabajo social e asistente social con trabajador social, denominazioni in uso attualmente e corrispondenti all’italiano servizio sociale.  

Le figure professionali del sociale in Italia

In Italia, le professioni e le occupazioni del settore sociale soffrono la persistente assenza di un’organica classificazione, stante sia la diversificazione dei modelli regionali di welfare, sia la mancata definizione dei profili ancorché prevista dall’inattuato art. 12 della legge 328/2000. L’individuazione dei profili non è semplice, a causa delle differenze che si riscontrano anche nelle diverse operazioni definitorie, condotte a diversi livelli inclusi quelli istituzionali. A titolo esemplificativo, segnaliamo che sul sito governativo Cliclavoro sono annoverate in questa area professionale l’assistente sociale, l’educatore, lo psicologo, il sociologo, il tecnico dell’inserimento sociale, l’addetto all’assistenza personale e l’operatore socio sanitario, mentre è ignorata la figura del mediatore interculturale; il sito Atlante delle Professioni dell’Università di Torino, invece, considera l’assistente sociale, l’educatore e l’orientatore, ma assimila il mediatore culturale a quello linguistico. Facendo riferimento alla classificazione delle professioni ISTAT (2013) possiamo affermare che l’area del lavoro sociale è fondamentalmente composta da assistenti sociali, educatori professionali, mediatori interculturali e operatori socio-sanitari. In tale classificazione le professioni3 sociali sono organizzate all’interno di tre grandi gruppi:

  • in quello delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione, troviamo la classe degli specialisti in scienze sociali che contiene l’unità professionale degli esperti nello studio, nella gestione e nel controllo dei fenomeni sociali dove sono annoverati gli assistenti sociali specialisti e i sociologi;
  • in quello delle professioni tecniche nei servizi pubblici e alle persone si registrano due categorie (tecnici dei servizi sociali e tecnici del reinserimento e dell’integrazione sociale) in cui sono collocati assistenti sociali, educatori professionali e mediatori interculturali.
  • nell’ultimo delle attività commerciali e servizi, all’interno della categoria professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali, troviamo gli operatori sociosanitari.

 

Problemi aperti e prospettive

Più autori fanno riferimento ad aspetti critici che non solo non contribuiscono a qualificare il lavoro sociale, ma anzi possono costituirsi come fattori di dequalificazione. Oltre a registrare la notevole segmentazione degli inquadramenti contrattuali e a una certa precarizzazione, si pone l’attenzione sull’estrema eterogeneità dei percorsi formativi e sulla moltiplicazione delle figure professionali4. Lo scenario formativo appare eterogeneo e articolato all’interno di diversi sistemi, come quello universitario e quello della formazione professionale regionale o di altri percorsi offerti dal mercato. Allo stesso modo, la situazione giuridica delle figure professionali presenta notevoli difformità, connesse anche alla differenza di percorsi di studi: quella dell’assistente sociale è da ventisei anni una professione regolamentata e inserita nel sistema ordinistico alla quale si accede solo dopo aver concluso un percorso universitario e conseguito l’abilitazione; la situazione degli educatori presenta la particolarità di essere divaricata in due canali formativi che danno luogo anche a due differenti status: l’educatore professionale sociosanitario che consegue la laurea abilitante nella classe /SNT2 delle lauree in Professioni sanitarie della riabilitazione e che ha l’obbligo di iscrizione all’albo recentemente istituito e quello dell’educatore professionale socio pedagogico che compie il suo percorso di studi nella classe delle lauree in Scienze dell’educazione e della formazione (L19) e non ha obbligo di iscrizione all’albo. Nonostante la diffusione e la tradizione operativa maturata, la condizione dei mediatori interculturali è segnata dalla mancanza di un quadro normativo omogeneo che ne disciplini la figura e ne definisca in modo univoco il percorso di formazione. Il profilo professionale dell’operatore socio sanitario è stato, invece, definito fin dal 2001 con il Provvedimento della Conferenza Stato – Regioni che ne ha determinato anche il percorso formativo la cui competenza è delle regioni e delle province autonome.   Un cenno particolare merita il fenomeno della proliferazione piuttosto disordinata di nuovi profili, attraverso la creazione di inedite figure destinate a svolgere funzioni che, non di rado, appaiono come aree di specializzazione di quelle già esistenti5. Da questo punto di vista, sarebbe opportuna una riflessione sistematica alla luce di ricerche che estendano e attualizzino gli studi già compiuti, da realizzare con stakeholder come i soggetti pubblici e privati gestori dei servizi sociali, gli ordini e le associazioni professionali.   Un’altra questione sembra riguardare un difetto di riconoscimento dello stesso lavoro sociale come ambito che richieda l’esercizio di attività qualificate da conoscenze e competenze tipiche. Pur consapevoli della necessità di collocare la questione anche all’interno dello scenario caratterizzato da un declino della fiducia nelle professioni delineato già a fine secolo6, non possiamo trascurare la persistenza di quella concezione che considera i problemi affrontati nel campo del welfare come non necessitanti di una specifica expertise, perché appartenenti alla sfera dell’esistenza quotidiana dove ciascuno si percepisce come “esperto”. Si tratta di un’operatività non di rado svalutata perché non rispondente ad attese di risposte immediate e risolutive, attese che derivano da una semplificazione della complessità dei problemi sociali che disconosce le funzioni di accompagnamento nei processi tesi a promuovere acquisizione di competenze sociali e autonomia7.   Recenti ricerche hanno indagato l’impatto del managerialismo sulle professioni sociali8, ponendo in evidenza esiti, quali ipertrofico proceduralismo, standardizzazione, compressione dello spazio relazionale, riduzione dell’autonomia e indebolimento dei confini interprofessionali, che possono provocare rischi di de-professionalizzazione, ma anche effetti che possono stimolare processi di ri-professionalizzazione. Esplorare a fondo questi ultimi e procedere a una complessiva regolazione della materia appaiono come necessità da non eludere, se non si vuole ignorare la mutevolezza del sistema di welfare, connessa sia alla dimensione politica e di governance sia a quella del mutamento sociale e dell’incessante trasformazione dei bisogni.

  1. Vecchiato T. (2013), “Presentazione”, in M. Diomede Canevini, A. Campanini (a cura di), Servizio sociale e lavoro sociale: questioni disciplinari e professionali, Il Mulino, Bologna, pp.7- 8.
  2. Cfr. Folgheraiter F., “Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete”, FrancoAngeli, Milano, 2002; Folgheraiter F., Bortoli P., “Il lavoro sociale post moderno: introduzione ai concetti”, in Folgheraiter F. (a cura di), Il servizio sociale postmoderno. Modelli emergenti, Trento, Erikson, 2004, pp. 14 -60.
  3. Va ricordato che il termine professione è utilizzato nella classificazione ISTAT senza riferimenti alle differenze fra le attività che richiedono un lavoro prevalentemente intellettuale e quelle che ne richiedono uno prevalentemente manuale. Sull’opportunità di mantenere o meno la sinonimia professioni=occupazioni, cfr. l’interessante contributo di Mauro Niero “Occupazioni e professioni sociali: teorie, indicatori e classificazioni” in Cipolla C., Campostrini S., Maturo A., Occupazione senza professione? Il lavoro nel settore dei servizi sociali, FrancoAngeli, Milano, 2013.
  4. Casadei S. (2017), “Valorizzare il lavoro sociale per un nuovo welfare di cittadinanza: appunti sul riordino delle professioni e del lavoro sociale in Italia”, in SINAPPSI, 2017 disponibile a questo link [u.a. 7 aprile 2019]; Turchini A., Cuppone M., “Le risorse umane nelle imprese human intensive” in Quaderni di economia sociale, 2, 2016, pp. 11-16.
  5. Si considerino l’esempio illustrato da Casadei (cit.) relativo ai tecnici della mediazione e quello del “Repertorio regionale dei profili professionali e formativi della Regione Lazio che contempla fino a dieci differenti profili.
  6. Speranza L., “I poteri delle professioni”, Rubettino, Soveria Mannelli, 1999.
  7. Barberis D. (a cura di), “Il prodotto del lavoro sociale. Un percorso per definirlo, valorizzarlo”. FrancoAngeli, Milano, 2009.
  8. Tousijn W., Dellavalle M. (a cura di), “Logiche professionali e logiche manageriali. Una ricerca sulle professioni sociali”, Il Mulino, Bologna, 2017; Ruggeri F. (a cura di), “Stato sociale, assistenza, cittadinanza. Sulla centralità del servizio sociale”, FrancoAngeli, Milano, 2013.