Quanti centottanta giorni per i profili delle professioni sociali?


La rivista Prospettive Sociali e Sanitarie dedicava il numero 20-22 del 2000 alla legge quadro di riforma dell’assistenza n. 328 allora appena emanata, allo scopo di fornire un commento “a caldo” dell’impianto normativo e delle sue linee di forza innovative.

In apertura Livia Turco1, la ministra cui si deve la legge, evidenziava, fra l’altro, il passaggio a un sistema organico di protezioni sociali attivo che avrebbe dovuto superare la frammentarietà e l’approccio essenzialmente riparativo. Nella sua prospettazione degli elementi chiave non un solo riferimento esplicito agli attori professionali chiamati a realizzare gli indirizzi programmatici delle politiche sociali e le disposizioni degli enti gestori. Va riconosciuto che nel testo queste figure erano presenti in filigrana, laddove Turco prospettava la necessità di “[…] mettere a disposizione le opportunità per un progetto di inserimento attivo della persona nella società valorizzando tutte le sue capacità e i suoi talenti”2. Obiettivo questo che poneva in evidenza l’esigenza di competenze professionali specifiche per stabilire relazioni emancipanti all’interno delle quali accompagnare la persona nel costruire e realizzare progetti, promuovendone la partecipazione. Quindi professionisti capaci di integrare le specificità proprie e dei servizi, in ambito pubblico e privato, e di porsi in un’ottica promozionale, progettuale e reticolare.

Il ruolo delle professioni sociali era considerato prima di tutto all’art. 12, dove si rimandava a successivi decreti, da emanarsi entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della legge stessa, la definizione delle figure professionali sociali, i loro profili e i corrispondenti percorsi formativi nei diversi gradi di istruzione, da quella universitaria a quella regionale, nonché le modalità di accesso alla dirigenza, peraltro senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. La questione dei profili di queste figure era stata in precedenza, e per la prima volta, affrontata in sede istituzionale all’interno di una Commissione Nazionale istituita nel 1983, su impulso dell’Associazione Nazionale assistenti sociali che, all’epoca, stava operando per conseguire gli obiettivi del riconoscimento giuridico del titolo e la formazione universitaria3.

 

Sempre nel numero citato di Prospettive Sociali e Sanitarie, Fenoglio e Tassinari4 evidenziavano la forte esigenza di superare la frammentazione dei profili e la disomogeneità formativa, pervenendo a una definizione nazionale dei contenuti professionali delle figure coinvolte attraverso l’emanazione, mai avvenuta, dei decreti attuativi.

Ancora Turco, in un suo recente saggio5, pur valorizzando a più riprese il ruolo delle professioni sociali, non tratta questa carenza e si limita a richiamare quanto disposto del dpr 5 giugno 2001 n. 328 che modifica la disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio delle professioni ordinate, a seguito della riforma universitaria che ha introdotto il sistema delle lauree triennali e magistrali.

Come già illustrato su welforum.it da Marilena Dellavalle, si tratta di esigenze non ancora soddisfatte, a distanza di vent’anni, a partire dalla mancanza di profili definiti che delineino il perimetro delle specifiche competenze, valorizzando la peculiarità che, integrando i compiti distintivi, consenta di dare vita a quella polifonia che è necessaria per affrontare la complessità e la poliedricità dell’ambito sociale. A questa mancanza non sembra estranea la persistenza dell’idea diffusa, anche tra studiosi ed esperti del settore, che l’ambito stesso non esiga necessariamente né profili professionali definiti, né conoscenze e competenze specifiche, potendo esercitare al suo interno attività sostenute da più vasti e generali saperi e da sensibilità e interessi di natura “socio” politica e culturale. Il discorso sulla necessità di identificare profili e percorsi formativi di chi opera in ambito sociale non vuol negare le qualificate competenze espresse da chi si è formato sul campo, provenendo dai più svariati percorsi disciplinari e/o esperienziali, soprattutto in periodi in cui non erano richiesti specifici requisiti.

 

Alla competenza professionale di chi già opera sul campo, si affianca però, oggi, il tentativo di far nascere  nuove identità di lavoratori del sociale, raggruppabili sotto nomi diversi, come “esperto del sociale”, “operatore sociale esperto”, “tecnico del lavoro sociale”, che hanno in comune la provenienza da percorsi formativi diversissimi tra loro, genericamente dedicati al “sociale” e le cui funzioni si sovrappongono a quelle di figure professionali già esistenti, ma senza avere effettuato studi mirati e, soprattutto, assumendo funzioni trasversali alle diverse competenze professionali (Cfr. Marilena Dellavalle su welforum.it).

 

Considerare questi dati di fatto non accantona, anzi rende più urgente, la necessità di interrogarsi sulla effettiva esigenza di riconoscere la necessità di figure dotate di specifiche conoscenze ed expertise e di corrispondenti percorsi formativi, Riteniamo, in accordo con Bortoli e Folgheraiter6, che il lavoro sociale corrisponda sia a un’area tematica interdisciplinare, avente a oggetto “[…] lo studio degli interventi di aiuto nei confronti di persone, famiglie, gruppi e comunità ritenute svantaggiate rispetto agli standard sociali dominanti”, sia a un’«area comune di professionalità», all’interno della quale si possono identificare aspetti unificanti accanto a elementi di differenziazione e specificità.

Per questo motivo insistiamo nel sostenere la necessità di realizzare quanto previsto dall’art. 12 della Legge 328/2000. Esigenza particolarmente sentita in questo periodo in cui i provvedimenti governativi prevedono la messa a bilancio di fondi destinati a prestazioni monetarie di diversa natura che si affiancano a quelli preesistenti rispetto all’emergenza sanitaria.

Come ha segnalato Gazzi, il presidente del Consiglio Nazionale Ordine assistenti sociali, in occasione del suo intervento agli Stati Generali7, se si vuole investire in percorsi che promuovano l’emancipazione delle persone non è sufficiente l’erogazione di risorse strumentali, per quanto necessarie: servono professionisti del sociale che sappiano orientarle nell’uso delle informazioni in termini non burocratici, ma personalizzati, accompagnarle e sostenerle nei processi di riconoscimento dei bisogni, problemi e risorse adeguate, di valorizzazione, ripristino o acquisizione di competenze sociali, di progettazione e realizzazione.

Perché l’erogazione di una prestazione o di un contributo non è sufficiente per l’emancipazione degli individui? Il termine “progetto personalizzato”, molto utilizzato nel linguaggio del lavoro sociale, e ripreso anche dalla legislazione, si veda il Reddito di Cittadinanza, contiene un implicito: l’esistenza di una figura competente nel personalizzare il progetto, costruendolo con le persone coinvolte in quel percorso. In altri termini, la fruizione dei diritti sociali, da parte dei cittadini, richiede il riconoscimento di tali diritti, ma anche l’accompagnamento del loro esercizio: non è sufficiente, ad esempio, per rendere concreto il diritto all’informazione, diffondere la notizia senza prevedere un tramite umano per comprenderla e per poterla utilizzare a proprio favore, a partire dalle risorse ma anche dalle difficoltà che richiedono di essere affrontare per essere superate o compensate. Il lungo dibattito sul Punto Unico di accesso testimonia, peraltro, l’acquisizione del dato sulla necessità di un servizio di tramite tra il cittadino e la sua domanda ed il sistema delle risposte, e che l’accesso non può essere ridotto alla mera compilazione di un modulo.

 

Sempre attenendoci all’esempio dell’informazione, richiamiamo ancora la legge 328 che, all’art. 22, identifica tra le prestazioni essenziali il “servizio sociale professionale e il segretariato sociale”. Si può dedurre che il legislatore volesse dire che occorre ascoltare i cittadini, orientarli tra le informazioni, ragionare con loro sulla loro situazione, accompagnarli nelle scelte. L’attività di ascolto, orientamento, pensiero è un servizio, immateriale, ma concreto, che può essere realizzato solo nell’interazione e nella relazione con un professionista dotato di competenze specifiche, all’interno di una organizzazione strutturata per garantire spazi di ascolto e di relazione.

Le professioni sociali possono assumere questo ruolo, di orientamento all’accesso dei cittadini, di co-costruzione e poi di accompagnamento in un percorso personalizzato, cioè congegnato ad hoc, solo apparentemente simile ad un altro, di advocacy di gruppi sociali lasciati ai margini delle politiche sociali? A parere di chi scrive, la risposta non può che essere affermativa.

 

Servizi alla persona di qualità, orientati al cittadino esigono, però, professionisti in numero sufficiente. Altrimenti la personalizzazione, l’esatto contrario dell’approccio standardizzato e spersonalizzato, rischia di rimanere uno slogan e non può essere realizzata. Se non ci sono i professionisti, o se i professionisti cambiano ogni tre mesi e vivono la provvisorietà del precariato che non favorisce adeguati investimenti, o ancora se il loro tempo lavoro è inghiottito dalla voragine della burocratizzazione, intesa in particolare come affidamento ai professionisti di compiti meramente amministrativi che potrebbero essere svolti da altre figure, i servizi muoiono: possono erogare prestazioni (ammesso che ci siano) ma non ci sarà altro, nessun ascolto, nessuna comprensione, nessun dialogo costruttivo, nessuna relazione d’aiuto o educativa.

Ma sono necessari anche professionisti competenti, in grado di padroneggiare le conoscenze teoriche della propria disciplina, così come della propria tradizione di ricerca e di esperienze, e di saperle tradurre in quel lavoro “concreto-vivo“ che De Sandre8 riferisce alla produzione di cambiamenti che possono connotarsi in senso liberatorio o repressivo, e rivolgersi all’attivazione “del soggetto e dei percorsi di azione, di senso, di domanda dei soggetti stessi”. Competenze distintive che non sono limitate ai passaggi necessari per l’erogazione di prestazioni, ma che implicano e integrano conoscenze e capacità di gestire la complessità delle diverse dimensioni coinvolte (politica, relazionale, tecnica, metodologica, etica-deontologica) nella specificità di ogni intervento.

Così come in un orologio sono presenti componenti, ingranaggi e meccanismi che, adeguatamente messi in moto, contribuiscono ognuno con il proprio peculiare compito al suo funzionamento, oppure come in un’orchestra ogni strumento produce un suono distinto che si armonizza con gli altri, o ancora come nella scrittura ogni lettera dell’alfabeto ha una sua funzione, ma è solo unendole secondo una logica precisa che si ottiene un significante, anche nel lavoro sociale vi è la necessità di identificare quali siano le figure professionali sociali e i requisiti per qualificarsi tali, così come di definirne il perimetro delle competenze attraverso la realizzazione di quanto previsto dall’art. 12 della Legge 328/2000.

  1. Turco L., “Assistenza, prevenzione, promozione”, Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 20-22, 2000, pp. 1-2.
  2. Ivi, p. 1.
  3. Ministero dell’Interno, Divisione generale dei Servizi Civili, “Gli operatori sociali. Urgenza di una normativa”, Roma 1984.
  4. Fenoglio R., Tassinari A., “Figure professionali sociali”, Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 20-22, 2000, pp. 29-30.
  5. Turco, L., “La legge 328/2000 «Legge quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi» venti anni dopo”, Politiche Sociali, n.  3, 2020, pp. 507-524.
  6. Folgheraiter F., Bortoli P., “Il lavoro sociale post moderno: introduzione ai concetti,” in Folgheraiter F. (a cura di), Il servizio sociale postmoderno. Modelli emergenti, Erickson, Trento, 2004, p.14.
  7. Gazzi G., Intervento riportato in Welforum.it, 22 ottobre 2020.
  8. De Sandre I., “Lavoro sociale come lavoro concreto-vivo; una proposta analitica”, Inchiesta, n. 66, 1985, pp. 29-33.

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gli assistenti sociali hanno ottenuto l’Ordine negli anni 90, ma hanno perso la sfida dell’istruzione universitaria, e non per colpa loro. I futuri assistenti sociali studiano tomi di economia politica, Scienza della Politica, Storia delle dottrine politiche, statistica e via di seguito. E il lavoro sociale e’ un settore della sociologia privo di autonomia accademica. Per non parlare poi del lavoro sociale insegnato nelle facolta’ di medicina (educatori) Siamo un paese ridicolo.