Ricostruiamo il Paese.

Il ruolo del Terzo settore nell’affrontare la crisi sociale


Marco Gargiulo | 30 Aprile 2020

Marco Gargiulo, presidente del Consorzio Nazionale Idee in Rete, è tra i promotori dell’appello Ricostruiamo il Paese. Proposte a corso zero per rafforzare le infrastrutture sociali. In questo articolo ne spiega le ragioni, collocandolo entro un’analisi su come il nostro Paese sta affrontando l’emergenza Covid.

 

 

Il 26 aprile il Presidente del Consiglio Conte si è nuovamente rivolto ai cittadini italiani per annunciare i contenuti del dpcm con il quale si dà inizio alla “fase 2” nella gestione dell’emergenza Covid-19. Accanto alle valutazioni sul merito dei provvedimenti adottati, è il caso di far notare un aspetto che attraversa questi due lunghi mesi di pandemia, un aspetto ricorrente, si potrebbe dire quasi una “distrazione culturale” che accompagna i provvedimenti via via adottati.

 

Tanto il Governo, quanto le istituzioni locali, in tutte queste settimane, si sono concentrati principalmente su due temi: quello della sicurezza sanitaria e, in seconda battuta e in modo ancora confuso e insufficiente, quello della crisi economica.

Il sistema sanitario nazionale, se osserviamo come è stata gestita l’emergenza sanitaria sull’intero territorio nazionale, pur giunto in alcune regioni al limite nella fase più critica della crisi, nel complesso ha retto; si tratta ora di continuare ad affrontare e presidiare in modo efficace l’emergenza sanitaria, cercando di prevederne gli scenari da qui ai prossimi mesi, cosa su cui i poteri pubblici appaiono opportunamente concentrati. Analogamente, il Governo sta cercando di intervenire sugli scenari economici che riguarderanno il nostro tessuto imprenditoriale e occupazionale, lavorando su misure che, pur apparendo a molti inadatte e solo parzialmente efficaci, cercano di prevenirne il tracollo.

 

Ma, al di là del giudizio di ciascuno su questi temi, vi è un altro aspetto che qui si vuole far notare: pare non esservi consapevolezza che, accanto ai due ambiti sopra citati, la crisi abbia ripercussioni gravi in termine di crisi sociale, sia con riferimento all’acuirsi delle disuguaglianze nella crisi, sia ad altri aspetti della vita dei cittadini.

Anche le parole della crisi, da questo punto di vista, sono importanti. Non è noto chi vanti la primogenitura dell’espressione “distanziamento sociale”, ma si tratta di un termine veramente infelice così come lo è lo slogan (che speriamo non diventi un nuovo hashtag) utilizzato dal Presidente del Consiglio: “se vuoi bene all’Italia, mantieni le distanze”.

Come ne usciranno le nostre comunità, i nostri figli, i bambini tutti, i poveri, i fragili da tutta questa distanza e percezione di insicurezza? E, in uno scenario che, come detto, si concentra su aspetti sanitari e produttivi, non è chiaro quale considerazione vi sia per alcune gravi disuguaglianze, peraltro già evidenziate da molti e che richiederebbero anch’esse attenzione e interventi:

  • aumentano i poveri, come dimostrato dalla recente analisi di Caritas Italiana che pochi giorni fa ha dichiarato che il numero di persone costrette a rivolgersi ai Centri di ascolto e ai servizi delle Caritas diocesane, è aumentato in media del 114%;
  • moltissime famiglie, avendo subito un drastico cambiamento della propria disponibilità economica e del proprio impegno lavorativo, si stanno impoverendo;
  • anche le manifestazioni della disuguaglianza educativa, in questo tempo di crisi, si stanno acuendo:
    • già sapevamo che il 42% dei minori vive una condizione di sovraffollamento delle proprie abitazioni, mentre il 7% di bambini e adolescenti si trova a vivere in contesti di grave disagio abitativo: con le scuole e tutte le altre opportunità dell’aggregazione sociale sospese, chiusi e costretti nelle proprie abitazioni, come ritroveremo questi bambini a settembre?
    • L’accesso alla didattica digitale per molti bambini e ragazzi è un sogno: c’è chi ha un potere e un’opportunità di accesso enorme ai processi e ai sistemi educativi e chi, invece, non ne ha per niente;
  • c’è chi può accedere alle opportunità delle tecnologie e chi no, chi sa usare il digitale e chi no: il tema del digital divide non riguarda solo i minori, ma anche tutte quelle persone, spesso anziani soli, che non hanno accesso al digitale o per mancanza di attrezzature e/o infrastrutture tecnologiche o per mancanza di competenza digitali;

 

Le disuguaglianze, che in molti casi già erano presenti e con la crisi attuale si stanno amplificando, sono evidenti su tutto il fronte dell’accesso ai diritti: educazione, welfare e sanità in primis, ma anche la libertà di culto, il diritto allo sport (che peraltro è sinonimo di vita sana), il diritto alla libertà di movimento, il diritto al gioco e alla vita all’aria aperta, il diritto alla socializzazione, se è vero che il luogo dove si abita – dalla casa con parco insieme ad altre famiglie all’appartamento malsano e sovraffollato – può rendere tollerabile o insopportabile lo stesso provvedimento di isolamento.

Il prezzo più alto delle disuguaglianze lo pagano i più fragili, perché sono quelli che hanno meno opportunità e, come ci ha insegnato Stiglitz, la tendenza all’eliminazione del contatto umano – il distanziamento delle persone dalle sorti del prossimo – forte degli strumenti tecnologici oggi disponibili, rischia di favorire l’espansione di tutte le forme di disuguaglianza.

 

Mi sono già soffermato, in un altro articolo, sui bambini e su questa dimensione di “cattività” nella quale sono stati catapultati ex abrupto senza che nessuno si sia preoccupato di ascoltarne il pensiero, ma in queste settimane in cui l’assenza di pensiero da parte di istituzioni, governo e politica sul tema dell’emergenza sociale e delle disuguaglianza si è palesemente manifestata, ho pensato ad un’altra parte di popolazione oggi assente dall’agenda politica: i lavoratori svantaggiati.

Le persone svantaggiate, per la quali le rispettive cooperative sociali hanno impiegato mesi o anni per promuoverne i possibili percorsi di inclusione – a partire dall’inserimento efficace nei processi lavorativi -, sono esposte molto più di altri ad un graduale processo di deperimento sociale e psicologico causato da questi due mesi di lockdown e la situazione rischia di peggiorare ulteriormente, se nei prossimi mesi questi uomini e queste donne non potranno tornare a vivere una vita attiva dal punto di vista socio-lavorativo. Da protagonisti del loro percorso di inclusione, queste persone rischiano di tornare ad essere esclusivamente beneficiari dei servizi di welfare: utenti.

 

E dal pensiero su questi aspetti trascurati, il mio pensiero va a chi si trova ora nell’emergenza e si troverà nei mesi prossimi in prima linea per farsi carico della frattura sociale, ai soggetti sociali cui verrà chiesto di ricucire lo strappo: il Terzo settore.

Il Terzo settore rappresenta quella infrastruttura sociale sulla quale il Paese può poggiare un pezzo importante della propria rinascita. Per questo motivo, in queste ore, mille cooperatori e imprenditori sociali, accompagnati da qualche padre della cooperazione e dell’impresa sociale come Felice Scalvini e Carlo Borzaga, stanno sottoscrivendo un appello al Governo e al Parlamento Italiano contenente alcune proposte concrete e a costo zero utili a dare linfa vitale proprio a quelle organizzazioni che sin dall’inizio di questa emergenza sono state in prima linea nel contrasto della pandemia e nello stesso tempo stanno pagando un importante prezzo economico.

Oltre agli anticorpi per il coronavirus, le nostre comunità dovranno sviluppare quegli anticorpi utili a contrastare e superare le disuguaglianze e potranno farlo soltanto se, come ben scriveva Borzaga proprio su Welforum, avranno accanto un Terzo settore ancora vivo e solido, in grado di umanizzare i cambiamenti che ci dovremo preparare a vivere nei prossimi mesi, un Terzo settore capace di non lasciare nessuno indietro.

Deve essere un Terzo settore che però – e qui è il compito della politica – non può più continuare ad essere considerato come “braccio operativo a buon mercato”, il “pronto soccorso sociale a basso costo”, molto utile quando c’è da intervenire sul campo per tamponare le emergenze o quando bisogna colmare la mancanza di flessibilità nei pubblici servizi e poi sistematicamente accantonato quando c’è da lavorare alla programmazione delle politiche di welfare in questo Paese, lasciato ai  margini tanto della narrazione quanto della programmazione nella gestione di situazioni, come questa, che hanno ricadute e impatti estremamente significativi e di lunga durata sulle nostre comunità.

Quel Terzo settore che, lo diceva sempre su Welforum Bernardoni, tra i promotori dell’appello sopra citato, può anche essere lasciato solo (e messo all’ultimo posto nella dotazione dei presidi di protezione, a cominciare dalle mascherine) ad assistere i più fragili e poveri confidando sul fatto che i “veri volontari” e i “veri cooperatori sociali”, pur lontani dalle telecamere non si tirano indietro e non si fermano nemmeno di fronte ad un’emergenza come quella che stiamo attraversando; salvo poi, da parte delle istituzioni, riprendere atteggiamenti ambigui quando si tratta di riconoscere al Terzo settore il ruolo svolto, coinvolgendolo in modo esplicito nelle azioni di programmazione e pianificazione della ricostruzione economica e sociale del Paese.

 

Per questo non deve stupire che in questa fase, tanto da parte della base del Terzo settore, come avvenuto con il sopra citato appello, quanto a livello di rappresentanze (si veda la campagna #nonfermateci), si reclami con rinnovata ed energica determinazione il ruolo di questa infrastruttura sociale ed economica del Paese nella pianificazione dell’emergenza, in tutte le sue varie fasi di evoluzione. In una qualsivoglia cabina di regia istituzionale deve essere presente il punto di vista competente di chi vive le nostre comunità e ne abita i luoghi della disuguaglianza, della fragilità, della povertà e delle tante contraddizioni della costituzione materiale. Per cui è sicuramente positivo che si sia insediata la Cabina di Regia in cui Ministeri, autonomie locali e Terzo settore, oltre ad esaminare specifiche ipotesi normative, potranno discutere circa le ipotesi  di intervento circa la crisi in atto, così come sono apprezzabili i contatti delle rappresentanze delle imprese sociali e del Terzo settore con la task force presieduta da Vittorio Colao, al lavoro nel mettere a punto la strategia della fase 2; ma sarebbe più coerente che tali rappresentanze fossero organicamente inserite nella task force, così come negli altri luoghi deputati a gestire questa crisi. Coinvolto, partecipe, responsabile: queste sono le parole d’ordine che a nostro avviso dovrebbero dare forma alla relazione tra le istituzioni e il Terzo settore.