Il recente contributo di Luca Fazzi, pubblicato su Welforum.it e intitolato “Gli assistenti sociali sono il servizio sociale? Alcune osservazioni alla luce della recente ricerca empirica sull’adeguatezza dei percorsi educativi della professione”, propone una lettura critica sull’“uso intercambiabile dei concetti di servizio sociale e assistente sociale”e delle rivendicazioni identitarie e “corporative” da parte degli assistenti sociali in Italia, che intendono definirsi come gli unici professionisti nel campo del servizio sociale.
Il contributo sollecita diverse riflessioni, in particolare sul ruolo dell’Ordine professionale, che non intendiamo eludere. In particolare, pur nei limiti dello spazio disponibile, intendiamo inserirci nel dibattito, evidenziando un diverso punto di vista sulla storia e sul presente della professione in Italia, e sul sistema formativo degli assistenti sociali (AS) nel nostro Paese. È a maggior ragione importante chiarire posizioni e contenuti considerata la riforma annunciata del Disegno di legge sugli ordini professionali, approvato nei giorni scorsi in Consiglio dei Ministri, riforma che l’Ordine professionale chiede da anni, finalizzata non solo a definire meglio ruolo, funzioni esclusive, percorsi formativi, ma anche ad assicurare che gli istituti ordinistici svolgano il loro ruolo di tutela, disciplina e controllo, con trasparenza e partecipazione, rafforzando gli organi disciplinari e assicurando che la formazione universitaria rispecchi la complessità sempre maggiore delle responsabilità professionali degli AS nel sistema di Welfare del nostro Paese.
Il dialogo su questi temi risulta ancora più rilevante, alla luce dell’attuale fase delle politiche sociali in Italia, in cui la crisi di legittimazione del Welfare e delle professioni sta ulteriormente minando la stabilità del suo pilastro sociale, storicamente più frammentato e debole rispetto a quello sanitario e previdenziale.
Un chiarimento preliminare: servizio sociale come disciplina e professione
È in primo luogo utile ricordare che “servizio sociale”(SS) e “assistente sociale” non sono concetti intercambiabili. Il SS è definito come “una professione e una disciplina” dalle organizzazioni internazionali (IFSW-IASSW, 2014), l’ “assistente sociale” è il professionista che è legittimato ad operare come esperto di servizio sociale.
In Italia la professione di AS è regolamentata per legge, riconosciuta come funzione pubblica con un mandato preciso: tutelare i diritti delle persone e contribuire alla realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali. La legislazione riconosce un ruolo istituzionale che comporta obblighi, responsabilità deontologiche e un sistema di garanzia a tutela delle persone e della collettività. Altre professioni concorrono al sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali (ad esempio educatori e psicologi), e sono a loro volta regolamentate. Come evidenziato in numerose ricerche promosse dal CNOAS, gli AS italiani non sono impiegati soltanto nel settore pubblico, ma anche in enti del Terzo Settore, associazioni, organizzazioni non governative, e sono in aumento forme di libera professione. Entro contesti di Welfare differenti, il social work come professione ha assunto diverse configurazioni: nei Paesi anglosassoni esiste ad esempio la figura del clinical social worker, che svolge anche attività terapeutiche, non riconosciuta in Italia. In altri Paesi i social workers sono obbligatoriamente iscritti a registri delle associazioni professionali a garanzia del loro operato.
Il dibattito sulla formazione accademica in Italia è antico e non privo di tensioni, ricordo al proposito e per quanto attinente al tema, la raccomandazione a tutti i paesi membri del Consiglio d’Europa Comitato dei Ministri del 2001, non recepita dall’Italia. In tale raccomandazione si ribadisce che la formazione degli AS deve essere continua, radicata nei diritti umani, collegata alla ricerca e aperta a una forte dimensione europea e internazionale, con meccanismi di mobilità e standard condivisi.
Il servizio sociale come disciplina accademica contribuisce alla costruzione di conoscenze e competenze utili in vari campi; la prospettiva epistemologica che lo distingue “si basa su una connessione forte tra istanze che emergono dal lavoro sul campo, lo sviluppo di una ricerca polifonica e processi di teorizzazione in dialogo con le discipline vicine“ (SocISS, 2024, CSWE, 2022). Questo processo è ostacolato dalle barriere al riconoscimento della disciplina in accademia: a differenza di molti altri Paesi, gli studiosi di SS non sono riconosciuti come Social Work Professor ma sociologi: il SS per diverse ragioni storiche è inserito del Settore Scientifico Disciplinare (SSD) della Sociologia Generale, a differenza della psicologia e delle scienze dell’educazione che vedono riconosciuti SSD dedicati. Un’ulteriore criticità deriva dall’assenza di Dipartimenti di Social Work, e dalla storica eterogeneità dell’offerta formativa nei Corsi di Studio (CdS), legata all’afferenza a Dipartimenti differenti. Come il professore ben sa, le diverse collocazioni influenzano in modo differente l’offerta formativa: è possibile che nei programmi formativi ci siano esami facoltativi anche su conoscenze fondamentali, sto pensando a diritto di famiglia, penale e dell’esecuzione della pena, sociologia della devianza o della famiglia, ma anche servizio sociale. Il numero minimo di crediti formativi degli insegnamenti specifici di SS è estremamente ridotto rispetto alle esigenze formative dei professionisti. A differenza della maggior parte dei Paesi occidentali, non è presente un organo di accreditamento specifico per i CdS in SS che in altri Paesi garantisce un’offerta uniforme e un aggiornamento costante degli standard formativi, in relazione alla lettura delle trasformazioni sociali. Uno scenario preoccupante per gli obiettivi dell’Ordine, e che ci sembra piuttosto diverso da quello descritto dal professore quando parla di “conoscenze e competenze molto definite e ortodosse”. Di fatto, queste cambiano in relazione a decisioni locali, dentro un frame normativo criticato dalla stessa Società Italiana del Servizio Sociale (2024), che ne evidenzia un linguaggio non aggiornato rispetto all’evoluzione della professione e della disciplina.
Innovazione e professionalità ibride
Il contributo di Fazzi richiama esperienze innovative e di frontiera, ma è importante sottolineare che non si tratta di esperienze nuove: fanno parte della storia della professione, impegnata da decenni nei processi di de-istituzionalizzazione, costruzione di progetti di servizio sociale di comunità, servizi di ‘bassa soglia’, anche nel Terzo Settore. Le rigidità del settore pubblico e il limitato riconoscimento del lavoro sociale hanno spesso ostacolato la piena espressione di questa professione. Per questo, più che distinguere tra pubblico e privato, è necessario promuovere politiche che ne favoriscano lo sviluppo in entrambi i contesti. Centrale rimane il ruolo dell’accademia, che deve formare competenze adeguate alla complessità attuale: da tempo ne chiediamo una riforma per superare le lacune esistenti.
La crisi della cura e le condizioni di lavoro
Il richiamo di Fazzi alla “crisi della cura” è condivisibile e richiama condizioni note: precarietà contrattuale, turnover, burocrazia eccessiva che riducono la qualità del lavoro e scoraggiano i giovani.
Tuttavia, la risposta non può essere mettere in discussione la professione regolamentata, né l’idea di un “campo sociale” senza garanzie, dove chiunque operi nel sociale possa essere considerato legittimato ad agire, pur in assenza di garanzie collettivamente condivise e riconosciute che consentono alle persone più fragili di incontrare operatori qualificati, sottoposti a regole deontologiche e a un sistema di responsabilità pubblica.
Per affrontare davvero questa crisi serve un impegno politico e istituzionale forte: investimenti in risorse, personale, formazione, riconoscimento professionale ed economico, altrimenti ogni richiamo alla centralità della cura rischia di restare retorico.
L’identità della professione
L’Ordine assistenti sociali non difende interessi “corporativi”, ma il valore di una professione regolamentata, al pari di medici, avvocati e psicologi, che esercita funzioni di interesse pubblico incidendo direttamente sulla vita delle persone e sulla garanzia dei diritti costituzionali. Le e gli assistenti sociali si impegnano a garantire competenza, etica e qualità al servizio delle persone e delle comunità, questo comporta anche la capacità di denunciare diseguaglianze e storture del sistema, parlando con una sola voce. In questo senso, gli ordini professionali in Italia – così come le associazioni obbligatorie in molti altri Paesi – rappresentano istituzioni riconosciute e indispensabili.
La regolamentazione non è quindi un privilegio di categoria, ma una tutela per la collettività.
L’identità dell’AS non si esaurisce in un titolo, si fonda su un insieme di elementi inscindibili: codice deontologico, formazione accademica qualificata, esame di Stato che certifica il possesso di competenze professionali e la capacità di assumere decisioni delicate e complesse e iscrizione all’albo. Questi elementi garantiscono competenza, trasparenza e responsabilità pubblica, distinguendo la professione da generiche attività nel sociale.
Difendere questa identità significa rafforzare la fiducia delle persone nei servizi e nelle istituzioni, assicurare che i principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà trovino attuazione concreta, garantire che i cittadini ricevano risposte qualificate, tempestive e rispettose della dignità umana. Seppur consapevole dei limiti presenti nelle pratiche quotidiane di professionisti, organizzazioni pubbliche e private e delle politiche pubbliche, è in questa prospettiva che l’Ordine tutela la professione: non come corporazione chiusa, ma come presidio di giustizia sociale e di democrazia.
Conclusione
Il contributo del professore è accolto come stimolo a un dibattito utile, che invita noi, le istituzioni politiche e accademiche ad aprirci al confronto, a riflettere su nuove forme di lavoro sociale, sul rinnovamento della formazione. Il confronto con esperienze innovative, anche ai margini del sistema, rappresenta un arricchimento da valorizzare per comprendere meglio la complessità sociale e rafforzare le competenze dei futuri professionisti.
Al tempo stesso, troviamo superficiale e riduttiva qualsiasi visione che tenda a relativizzare il ruolo dell’AS, assimilando indistintamente percorsi formativi e funzioni professionali. Sarebbe un errore confondere l’ampiezza del campo del SS con l’esercizio della professione regolamentata. Il SS è disciplina e professione: l’AS è e resta il cuore istituzionale del servizio sociale come funzione pubblica, riconosciuta dall’ordinamento e incardinata nella Costituzione italiana e nelle leggi dello Stato.
I “pochi adepti” che Fazzi menziona nell’articolo sarebbero definiti in Europa come Social Work Professor, titolo non ancora riconosciuto in Italia per ragioni, come spiegato in precedenza, che bloccano la legittimazione della disciplina in accademia, anche legate a relazioni di potere. Il numero di docenti e ricercatori di servizio sociale strutturati è ancora insufficiente a garantire una formazione specifica al pari degli altri Paesi europei. Il mondo accademico, negli anni, non ha costruito le condizioni per la strutturazione di assistenti sociali nelle Università. Questo ha portato ad avere, ancora oggi, insegnamenti specifici affidati a docenti a contratto AS, che svolgono un lavoro a tempo pieno nei servizi del welfare, e dedicano un tempo residuale alla didattica, con compensi simbolici.
L’Ordine ha una funzione di garanzia, difficile definirla una corporazione. Il professor Fazzi, che molto ha dedicato al lavoro ed alla formazione degli AS, è ben consapevole che se c’è una critica mossa dai professionisti all’Ordine è proprio di non essere corporativo, ma ligio al mandato che le norme gli affidano.
Il suo compito è assicurare che la professione mantenga la sua specificità, risponda ai principi costituzionali e deontologici, e continui a rappresentare un presidio di diritti, equità e giustizia sociale in un contesto in rapida trasformazione. Significa vigilare sulla qualità della formazione, promuovere una formazione continua all’altezza delle sfide attuali, valorizzare le competenze distintive della professione nei diversi contesti istituzionali e comunitari. Solo in questo modo l’assistente sociale può continuare a essere non soltanto il rappresentante di una categoria, ma un garante effettivo di cittadinanza e coesione sociale, capace di connettere i bisogni delle persone con le risposte dei sistemi di welfare, e di contribuire allo sviluppo di una società più giusta e inclusiva.