L’accesso degli stranieri al Reddito di Cittadinanza: possibile discriminazione istituzionale


La discriminazione razziale – o più precisamente oggi, nei confronti delle minoranze di origine immigrata – è un problema persistente delle società sviluppate, anche dopo decenni di leggi e misure antidiscriminatorie. Anzi, a volte sono le leggi stesse la fonte della discriminazione, insieme alle pratiche in uso e ai comportamenti dei pubblici ufficiali. Parliamo in questo caso di discriminazione istituzionale.  

Che cos’è la discriminazione istituzionale

In termini generali questa può essere definita come l’insieme di politiche, norme e pratiche derivanti dalle istituzioni pubbliche che sistematicamente avvantaggiano alcuni gruppi e svantaggiano altri. Si traducono quindi nella negazione sistematica di risorse e opportunità per i gruppi subordinati. Da tempo i paesi più avanzati hanno intuito le sfaccettature del problema e incorporato nei loro apparati pubblici istituzioni di garanzia e autorità indipendenti preposte a monitorare e sanzionare i comportamenti discriminatori, a proporre riforme legislative e modifiche procedurali, a sviluppare percorsi formativi per i dipendenti pubblici sull’argomento. Un ambito, questo, su cui l’Italia è rimasta indietro: l’UNAR, l’Ufficio nazionale che ha il compito di contrastare le discriminazioni razziali, è alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, non ha quindi lo status di autorità indipendente e non dispone di poteri sanzionatori.

Altre discriminazioni istituzionali si annidano nello iato tra norme egualitarie e loro concreta applicazione. Spicca qui il rapporto problematico tra leggi scritte nei codici (law on the books), leggi rese effettivamente operative (law in action) e leggi interpretate e applicate ai casi concreti dai funzionari preposti (law in their minds). Al riguardo, entra in gioco il ruolo di quelle che Lipsky ha definito “burocrazie di strada”, ossia l’insieme degli operatori pubblici che interagiscono direttamente con le persone appartenenti ai gruppi minoritari, in differenti ambiti e con vari ruoli.

ASGI, Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, è attiva in questo campo da parecchi anni, e ha vinto importanti battaglie alla Corte Costituzionale e all’Alta Corte di Strasburgo, su temi come la durata della residenza richiesta per accedere all’edilizia pubblica, o la richiesta di determinati titoli di soggiorno per accedere a prestazioni familiari, o il divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo. Sulla questione ha anche condotto un progetto di ricerca-azione, insieme al Centro studi Medì di Genova, il progetto LAW (Leverage the access to welfare), finanziato dall’Unione Europea.

La percezione della discriminazione

Sono stati raccolti 522 questionari, compilati per due terzi da donne, che hanno fornito una serie di informazioni sulla percezione della discriminazione.

Ciò che capita con maggior frequenza è il fatto di “essere trattati con meno cortesia rispetto alle altre persone”: questa situazione è vissuta da 4 persone su 10 più di una volta all’anno, da 2 persone su 10 alcune volte al mese e da 1 persona su 10 addirittura una volta a settimana. Solo il 27% del campione afferma di non aver mai subito condotte di questo tipo. In seconda battuta, in termini di frequenza nelle risposte, compare il problema che “le persone si comportano come se pensassero che io non sia intelligente”, una situazione vissuta molto di frequente da un decimo degli intervistati, qualche volta al mese da un quinto del campione, qualche volta all’anno da 4 persone su 10. Solo il 30% afferma di non essersi mai trovato in una situazione simile. Le condotte discriminatorie più gravi, per cui la persona ha ricevuto un servizio peggiore rispetto agli altri utenti di uno sportello pubblico, è stato insultato o è stato trattato come un soggetto disonesto capitano un po’ più raramente.

Gli ambiti in cui le discriminazioni sono più marcate sono in ordine decrescente: l’housing discrimination che si verifica soprattutto nella ricerca di una casa in affitto come emerge anche da diverse ricerche in materia (situazione subita dal 40% degli intervistati), la discriminazione sul lavoro (è capitato ad un terzo degli intervistati), nel rapporto con gli uffici pubblici (33%), sui mezzi di trasporto pubblici (31%), in ambito sanitario (30%), nel rapporto con i servizi privati (26%) e con le forze di polizia (25%). Su un totale di 522 persone c’è anche chi (21 rispondenti pari solo al 4%) ha detto di non essersi mai sentito discriminato. Le ragioni alla base di queste discriminazioni percepite si legano soprattutto a quattro fattori: l’essere straniero (il 30,3% delle risposte), l’accento o il modo in cui si parla l’italiano (14,6%), il colore della pelle (12,6%) e il paese di origine (12,0%). Pesano meno le credenze religiose (7,8%), il modo di vestire (3,9%), il reddito percepito (5,2%) o il genere (5,5%).

Il Reddito di Cittadinanza: un possibile caso di discriminazione istituzionale

Una questione di discriminazione istituzionale a livello nazionale riguarda il Reddito di Cittadinanza (RdC), un provvedimento particolarmente rilevante per le fasce povere della popolazione, ove rientrano molti residenti immigrati o di origine immigrata.

Come è noto, il governo Meloni ha riformato il Reddito di Cittadinanza in senso restrittivo. Gli obiettivi governativi sono stati sostanzialmente due: ridurre la platea dei beneficiari, e spingere i percettori giudicati “occupabili” a trovare lavoro, un lavoro qualsiasi, anziché contare sul sostegno pubblico. Già largamente esclusi dalla normativa precedente, gran parte degli immigrati stranieri continueranno a esserlo, confermando una tendenza persistente alla discriminazione istituzionale, sancita ufficialmente dalle politiche pubbliche.

Nel RdC varato nel 2019 con il traino del Movimento Cinque Stelle, l’accesso degli immigrati era severamente limitato da due ostacoli: una residenza almeno decennale e il possesso del permesso per soggiornanti di lungo periodo (cioè il permesso a tempo indeterminato). Di conseguenza, gli stranieri che ne beneficiano non superano il 9%, mentre la quota di famiglie povere straniere sul totale delle famiglie straniere è del 26%, contro il 6% per le famiglie italiane.

Con la riforma del RdC possono essere colti su questo tema due aspetti positivi. Il primo è l’inclusione dei titolari di protezione internazionale, già peraltro recuperati di fatto dall’INPS. In secondo luogo, la nuova misura (Assegno di Inclusione) cerca di rispondere alla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea e alle cause pendenti presso la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea riducendo a cinque anni di residenza la soglia di ammissione: è un miglioramento, ma insufficiente a risolvere i rilievi della giustizia europea, secondo cui l’impellenza della condizione di bisogno dovrebbe prevalere rispetto alla durata del soggiorno.

La Corte Costituzionale aveva invece riconosciuto legittima la richiesta del permesso di soggiorno di lungo periodo per accedere al RdC, argomentando che la misura puntava sull’inclusione sociale a lungo termine dei beneficiari e non era quindi irragionevole escludere i titolari di un permesso di soggiorno di durata limitata.

Non appare ragionevole però applicare il medesimo criterio alla misura minore (Supporto per la Formazione e il Lavoro) introdotta dalla nuova normativa, destinata alle persone “a rischio di esclusione sociale” ma che solo in ragione della loro età (18-59 anni) e dell’assenza di figli minori nel nucleo sono esclusi dalla misura più consistente. Per costoro, infatti, l’unica prestazione prevista è una mera “indennità di partecipazione” ai corsi di formazione professionale che verranno loro eventualmente offerti: 350 euro al mese, detratto quanto corrisposto dalle Regioni allo stesso titolo, con un massimo di 12 mesi totali e non ripetibili. Ciò significa non solo che una persona cinquantenne sola e in condizione di povertà assoluta avrà diritto a un sostegno di importo inconsistente, ma anche che se il corso non le viene offerto, non riceverà nemmeno questo contributo minimo, quali che siano le sue necessità, e nonostante le venga richiesto di dimostrare di essersi presentata ad almeno tre Agenzie per il lavoro: un’illogicità che riguarda anche gli italiani, ma che per gli stranieri si cumula con altre barriere. Infatti i titolari di “permesso unico lavoro” (cioè di un permesso biennale per lavoro o famiglia) non hanno diritto nemmeno a questo beneficio minimo, non disponendo di un permesso a tempo indeterminato. Questa esclusione viola però la direttiva europea sugli ingressi per motivi di lavoro, che giustamente garantisce agli immigrati “per lavoro” la parità di trattamento nell’accesso alla formazione professionale. Non solo: per una prestazione di questo genere, perde consistenza anche la motivazione di riservare l’investimento pubblico solo a chi ha una prospettiva di stabilità definitiva, perché l’indennità di partecipazione a un corso che dura pochi mesi è per definizione una misura di breve termine, che ha lo scopo di inserire al più presto il beneficiario nel sistema occupazionale: un interesse non solo suo personale, ma della società nel suo complesso. Paradossalmente, una persona a cui è stato concesso l’ingresso in Italia per ragioni di lavoro si trova penalizzata nella partecipazione a un corso che ha lo scopo di inserirla nel mondo del lavoro.

Rimane poi anche inspiegabile perché un lavoratore straniero povero, che si attivi per partecipare a un corso di formazione che gli consenta di trovare o ritrovare un impiego, possa ricevere una modesta indennità di partecipazione, una sorta di borsa di studio, soltanto se risulta residente in Italia da almeno cinque anni.

Insomma se già prima gli stranieri si trovavano davanti a due quasi insuperabili barriere d’accesso al RdC, ora le due barriere (titolo di soggiorno e residenza pregressa) sono state confermate, ma hanno assunto una connotazione ancora più irrazionale, lasciando senza alcun sussidio contro la povertà migliaia di stranieri, oltre agli italiani colpiti dalle restrizioni previste.

Una doppia pregiudiziale ideologica traspare da queste scelte: la volontà di ridurre con ogni mezzo la platea dei beneficiari delle misure di sostegno e l’inossidabile ricerca dei modi con cui discriminare gli immigrati, limitando il loro accesso ai diritti sociali.

Come si vede, la discriminazione razziale, solennemente condannata dalla nostra Costituzione e dai trattati europei e internazionali, rientra dalla finestra. Proprio ad opera, purtroppo, di quelle autorità pubbliche che dovrebbero schierarsi in prima fila nel contrastarla.