Esistere o non esistere
La residenza come confine tra diritti e invisibilità
Rita FerroMaria Pina Masella | 3 Dicembre 2025
C’è una porta che separa l’essere cittadini dal restare esclusi. Non è una porta fisica, eppure può essere più invalicabile di qualsiasi muro. È la residenza anagrafica.
Per le persone senza dimora, coloro che non hanno un’abitazione stabile o vivono in situazioni di grave marginalità, questo diritto è spesso inaccessibile; dal mancato riconoscimento di questo diritto si genera un circolo vizioso di esclusione. E così, oltre alla povertà materiale, si somma l’invisibilità giuridica.
Questo meccanismo colpisce tutti, ma in modo particolare i cittadini dell’Unione Europea, che godono di tutta una serie di diritti, in primis la libera circolazione in Italia; tuttavia nel caso di persone senza dimora l’accesso alla residenza anagrafica diventa quasi impossibile, generando un paradosso oltre che un vuoto di tutela per queste persone. Un paradosso che si annida nella macchina amministrativa: per esercitare un diritto, spesso ne serve un altro che è già stato perso.
Il meccanismo del criceto
Per avere un reddito, serve un lavoro. Per lavorare, servono documenti validi. Per rinnovare i documenti, serve una residenza. E così si gira in tondo, in un circolo vizioso che produce esclusione. In questi meccanismi si incastrano vite vere, che aspettano mesi, a volte anni, per vedersi riconosciuta la possibilità di esserci, almeno amministrativamente.
La residenza anagrafica in Italia non è solo un dato: è una porta d’ingresso all’intero sistema dei diritti civili, sociali e politici. La residenza è necessaria, per iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale; per rinnovare o ottenere documenti; per presentare l’ISEE e richiedere bonus, sussidi, assegni familiari, pensioni e potremmo continuare l’elenco con una serie di veri e propri diritti.
L’accesso ai servizi sociali per le persone senza residenza
Nell’ambito dei servizi sociali non vi è una vera e propria impossibilità di accesso ma un’importante limitazione per poter beneficiare di servizi e interventi rivolti a cittadini residenti, come ad esempio la domanda per entrare in una graduatoria di edilizia residenziale pubblica, la possibilità di accedere a contributi economici (se non urgenti), la possibilità di attivare un percorso di inclusione lavorativa.
La legge 328 del 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, non pone limiti alla presa in carico di persone non residenti, ma demanda alle Regioni e ai Comuni le modalità di accesso ai servizi sociali, socio-assistenziali e socio-sanitari, anche in situazioni di emergenza. L’art 2 comma 1 (Diritto alle prestazioni) cita testualmente:
hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali, con le modalità e nei limiti definiti dalle leggi regionali, anche i cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea ed i loro familiari, nonché gli stranieri, individuati ai sensi dell’articolo 41 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Ai profughi, agli stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima assistenza, di cui all’articolo 129, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
Le Regioni, nel recepire la legge, intervengono erogando interventi emergenziali alle persone temporaneamente presenti nel territorio regionale. Ad esempio, la legge regionale Marche n. 32 del 2014: “Sistema regionale integrato dei servizi sociali a tutela della persona e della famiglia” all’ Art. 3 (Destinatari dei servizi sociali) comma 2, afferma che
sono, altresì, destinatari dei servizi, limitatamente a quelli necessari e urgenti, le persone occasionalmente presenti o temporaneamente dimoranti nel territorio regionale.
Intervenire sull’urgenza però non prevede una presa in carico della persona e la possibilità di accompagnarla verso un reale percorso di inclusione. Spesso diventa complicato anche per il servizio sociale accompagnare la persona verso l’acquisizione dei suoi diritti, imbattendosi esso stesso nei cavilli burocratici.
Chi è senza residenza è spesso qualcuno che ha già perso molto: una casa, un lavoro, una rete di affetti. La burocrazia si fa politica, e le norme cessano di essere neutrali quando i diritti vengono subordinati alle condizioni personali. Così i diritti si trasformano in privilegi.
Il quadro normativo
A livello normativo la Legge 24 dicembre 1954, n. 1228, istitutiva dell’ordinamento delle anagrafi, e il successivo D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Regolamento anagrafico), stabiliscono che ogni cittadino deve essere registrato nel Comune in cui ha la propria dimora abituale. L’art. 2 del D.P.R. 223/1989 chiarisce:
L’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente è effettuata anche per le persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio.
A tal fine, è prevista la possibilità di iscrizione tramite un indirizzo fittizio (“via della Casa Comunale”), che consente alle persone senza dimora di ottenere una residenza formale e accedere ai servizi essenziali.
Con il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 9 dicembre 2021, è stato introdotto, tra i LEPS (Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali), i Servizi per la residenza fittizia, per le persone senza dimora. Questo LEPS impone agli ambiti territoriali sociali di attivare strumenti di supporto per consentire l’iscrizione anagrafica delle persone senza dimora, garantendo loro l’accesso ai servizi di base, a prescindere dalla cittadinanza.
I Comuni sono dunque tenuti a:
- predisporre indirizzi fittizi per la residenza;
- collaborare con i servizi sociali e il terzo settore per l’individuazione e la presa in carico delle persone senza dimora;
- informare correttamente gli utenti e gli operatori sull’accesso a questo diritto.
Il LEPS rappresenta un cambio di paradigma, in cui la residenza viene vista come strumento di inclusione, non di selezione. Ma veniamo al paradosso.
In base al D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, che recepisce la Direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione, i cittadini UE possono soggiornare in Italia per più di tre mesi solo se:
- sono lavoratori subordinati o autonomi;
- dispongono di risorse economiche sufficienti e copertura sanitaria;
- oppure sono studenti con requisiti analoghi.
Molti Comuni applicano rigidamente tali criteri, negando l’iscrizione anagrafica ai cittadini comunitari senza dimora, in quanto non in grado di dimostrare reddito e copertura assicurativa. Come può dimostrare di avere un reddito o una polizza sanitaria chi vive per strada o se va bene in un dormitorio? Ecco il paradosso.
La storia di J.
Arriva in Italia dalla Spagna dopo una vita di lavori saltuari e un lungo periodo di marginalità. Quando lo incontriamo, nel febbraio del 2024, vive sul sagrato di una chiesa: un angolo di mondo che non è casa. J è anziano, ha problemi cardiaci ed è ipovedente. La Caritas ci chiede di aiutarlo a ottenere la residenza, quel piccolo grande passo che separa chi esiste da chi rimane fuori dai registri, e dunque dai diritti.
Da lì comincia un viaggio dentro la burocrazia, dove ogni porta ne apre un’altra, ma nessuna conduce davvero fuori. L’anagrafe respinge la domanda: J. è cittadino comunitario ma non ha né reddito né assicurazione sanitaria, e la legge lo vuole autosufficiente per riconoscerlo come residente. Entrato nel progetto Housing First, che prevede l’ingresso in una casa, prova a risalire la corrente. Ma la casa non basta. Per avere la residenza, servono una polizza sanitaria e la dimostrazione di avere mezzi economici. Trovare un’assicurazione disposta a stipulare la polizza è un’impresa quasi impossibile; quando finalmente ci si riesce, arriva un nuovo ostacolo. Il servizio anagrafe del Comune chiede che qualcuno garantisca, per iscritto, che J. disponga di un reddito annuo di almeno 6.700 euro. Solo dopo mesi e con l’intervento formale dell’’ASP AMBITO 91, la residenza viene finalmente concessa. È il 26 agosto 2024: J. torna a “esistere” per lo Stato.
Ma la vita amministrativa non segue quella reale. Per iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale serve un lavoro o una quota annuale di 2.000 euro. J. non ha né l’uno né l’altra. L’assicurazione privata copre solo le urgenze, e così resta ancora ai margini di un diritto che dovrebbe essere universale. Iniziano mesi di tentativi: telefonate, lettere, contatti con il Consolato spagnolo, verifiche contributive. Dalla Spagna arriva la conferma di sette anni di lavoro, insufficienti per una pensione. Un piccolo sussidio assistenziale, concesso a metà del 2025, servirà forse a pagare l’iscrizione sanitaria del nuovo anno.
La storia di J. è il volto umano del paradosso: per accedere a un diritto, devi dimostrare di possederne già un altro. Per avere una residenza servono soldi; per avere un medico serve un lavoro; per lavorare servono documenti, che senza residenza non puoi ottenere. È un cerchio che si chiude su sé stesso e lascia fuori chi non ha più nulla. J. oggi ha un indirizzo, ma non ancora un posto nel mondo. La sua storia ci ricorda che tra l’essere e il non essere, tra la cittadinanza e l’invisibilità, basta a volte un timbro, una firma, o la mano tesa di chi decide che nessuno dovrebbe esistere solo a metà.
Conclusioni e proposte operative
Il tema della residenza anagrafica per le persone senza dimora, in particolare per i cittadini dell’Unione Europea, evidenzia un profondo conflitto tra norme, e tra l’uguaglianza formale e sostanziale. La residenza, anziché rappresentare un diritto strumentale all’inclusione, diventa spesso un filtro selettivo basato su criteri economici.
L’introduzione del LEPS sulla residenza anagrafica è un passo avanti importante, ma occorre ancora un impegno forte e coordinato, normativo e amministrativo, per garantire che nessuna persona venga esclusa dal diritto di esistere giuridicamente solo perché non ha un tetto sopra la testa.
Per provare a superare il cortocircuito tra diritto formale e realtà, è necessario un intervento coordinato su più livelli:
- Modifica legislativa del D.Lgs. 30/2007, affinché riconosca la possibilità di iscrizione anagrafica dei cittadini UE in situazione di bisogno, anche in assenza dei requisiti economici.
- Circolare interpretativa del Ministero dell’Interno che uniformi i criteri applicativi nei Comuni.
- Piena attuazione del LEPS per la residenza delle persone senza dimora, prevedendo fondi adeguati e monitoraggio.
- Formazione del personale anagrafico per prevenire interpretazioni restrittive.
- Sostegno ad azioni legali e di advocacy da parte di enti del terzo settore, per tutelare i diritti delle persone escluse.
Nello scenario che abbiamo analizzato, il rischio è che la residenza diventi non più un diritto, ma un premio per chi è già incluso. Una condizione che ti guadagni, non qualcosa che ti spetta.
Ma è proprio qui che si misura la giustizia di un sistema: non nella capacità di premiare chi ce l’ha fatta, ma nella volontà di tendere la mano a chi è in fondo alla scala.
Come abbiamo visto sopra, esistono soluzioni. La possibilità di iscrizione presso una “via fittizia” o un domicilio convenzionale istituito da enti o Comuni, l’accompagnamento di operatori sociali, l’impegno delle organizzazioni del terzo settore. Ma finché queste soluzioni restano pratiche locali, progetti virtuosi ma isolati, non basta. Serve un cambio di paradigma: la residenza come strumento di inclusione, non come barriera.
- L’ASP AMBITO 9 è un’azienda servizi alla persona che si occupa della gestione, per conto di 21 comuni della Vallesina, provincia di Ancona, di funzioni socio-assistenziali, socio-sanitarie e, più in generale, della gestione dei servizi alla persona a prevalente carattere sociale. I servizi erogati dall’Azienda sono principalmente orientati alle seguenti aree di intervento: anziani, soggetti in disagio, disabili, minori e famiglia, immigrazione, prima infanzia, promozione della salute.