Agilità, flessibilità, cooperazione nel welfare in “cantiere”


Ugo De Ambrogio | 12 Settembre 2017

I sistemi di welfare territoriali si collocano in un contesto nazionale in crisi da oltre 10 anni.  Al di là dei timidi segnali di miglioramento degli ultimi mesi, è evidente che si tratta di una condizione stabile e non transitoria.  Dopo una fase di stallo, dovuta al “trauma” legato all’improvviso aumento del bisogno sociale e alla parallela diminuzione delle risorse, i sistemi di welfare si vanno riattrezzando, indirizzandosi verso forme di cambiamento e sviluppo innovativo che prefigurano modelli molto diversi da quelli dominanti a inizio del secolo.

Dal livello nazionale vanno risvegliandosi alcune sensibilità che negli anni della crisi profonda sembravano sopite; assistiamo infatti, ad alcuni atti di riforma che denotano un rinnovato interesse ai temi del welfare che riemergono dopo 10 anni di congelamento.  Guardando alla storia recente delle politiche sociali, bisogna risalire alla stagione della l. 328/2000 e del “Sistema Integrato di interventi e servizi sociali” per trovare le ultime tendenze in direzione dello sviluppo e non dei tagli della spesa. Oggi una prospettiva di sviluppo sembra riproporsi in seno ad alcune recenti misure.

Tra queste vale la pena ricordare:

  • la riforma del terzo settore di cui sono stati recentemente approvati anche i decreti attuativi,
  • la legge sul “dopo di noi” che regola una storica lacuna del nostro paese,
  • le misure nazionali di contrasto alla povertà (Sia e successivamente Rei) che oltre a consistenti (ma insufficienti) investimenti economici prevedono nuove risorse in termini di attivazione di servizi professionali,
  • il decreto governativo che promuove lo stanziamento di fondi per progetti sulla povertà educativa su tutto il territorio nazionale.
  • le attenzioni all’accoglienza (emergenti dalla legge sui Minori stranieri non accompagnati e dal decreto Minniti) legate all’emergenza profughi che il nostro paese, anche in relazione alla sua specifica posizione geografica, si trova a fronteggiare.

 

Si tratta di processi innovativi che riguardano tematiche diverse, tuttavia appaiono frammentati, nel senso che non hanno a monte una idea di riforma del welfare sociale. Alcuni assumono carattere sperimentale ma contemporaneamente appaiono modesti e timidi I provvedimenti che in questi mesi accogliamo con fiducia restano legati ad un concetto di sviluppo disorganico e incongruente, in cui si procede senza esplicitare una direzione sistematica. Manca un’idea di riforma complessiva di un sistema mai effettivamente regolato, che si sviluppi territorialmente in una direzione omogenea e che fornisca un sostrato coerente alle misure particolari poste in essere recentemente.

Oltre agli atti normativi nazionali va ovviamente sottolineato che il Welfare sociale è, secondo il Titolo V della Costituzione, di competenza delle Regioni e gestito dai Comuni singoli e associati (attraverso le aggregazioni costruite negli anni 00 grazie ai piani di zona).  A questi livelli la minore disponibilità di risorse che si è progressivamente manifestata negli ultimi 8 anni, ha imposto una mentalità necessariamente pragmatica.  Si sono moltiplicate le progettualità micro, di coprogettazione e di partenariato “a basso costo”, l’individuazione di opportunità di finanziamento miste tra pubblico, terzo settore e privato for profit, la ricerca di finanziamenti europei o provenienti da fonti private, quali le fondazioni bancarie.

Si può dire, forse, che il paradigma è mutato: da un’idea di welfare sociale universale, pubblico, a “sistema integrato”, inclusivo e di sviluppo della coesione sociale (le parole d’ordine pre-crisi) siamo oggi in un contesto nel quale si parla di un welfare sociale “agile”, “generativo”, “collaborativo”, “secondo”, “flessibile”, di “stimolo della responsabilità sociale della società civile”, un welfare che  non ha più pretese di cambiamento strutturale e di sistema, ma che riesce ad operare grazie ad una pragmatico orientamento “modesto”.

È importante sottolineare che questa inversione di rotta terminologica presuppone un sostanziale e non più reversibile processo di cambiamento che trova riscontri anche nelle aziende private dove le forme di fronteggiamento della crisi hanno spesso assunto caratteristiche “smart”, ovvero di agilità, flessibilità e di spending review.

Queste parole d’ordine proposte dal mondo dell’azienda privata, tratteggiano una visione del tutto simile a quella che va consolidandosi nei sistemi di welfare sociale: “la condizione che ancora molti si ostinano a chiamare come “di crisi” è una condizione non transitoria ma stabile, difficile ma anche dinamica, ed è tempo di attrezzarsi per fronteggiare tale situazione anziché attendere illusoriamente un improbabile ritorno ad un tempo passato. Si tratta di riconoscere una nuova realtà nella quale le aziende oggi operano, che alcuni hanno definito come “liquida”, una realtà che richiede di essere affrontata con agilità, apertura e predisposizione al cambiamento.” (De Ambrogio, Dondi Santarelli 20171)

 

Per chi ha responsabilità di governo e programmazione, a qualsiasi livello, è importante e non banale sviluppare una consapevolezza del cambiamento in corso. Si tratta di un cambiamento che può piacere o non piacere ma va preso atto che quella che appariva come condizione transitoria impone oggi nuovi linguaggi, nuovi contesti e nuovi strumenti che rappresentano una possibilità di sviluppo e superamento della fase di stallo che ha caratterizzato gli ultimi anni.  In particolare chi, come me, opera lavorando a stretto contatto con i sistemi di welfare territoriali, rileva che si sta superando la fase “depressiva” degli anni della crisi più profonda   e sta emergendo una dinamicità che contiene nuove potenzialità.

I tempi mutati e la mutata disponibilità di risorse pubbliche, invitano chi promuove politiche sociali (a qualsiasi livello) ,  a rivedere il proprio modo di pensare e programmare (in direzione universalistica, di pianificazione “organica”, di sistema  e prospettica)  adottando una mentalità fortemente pragmatica, capace di mobilitare le (scarse) risorse esistenti nell’integrazione di energie e nella promozione di incontri virtuosi fra  bisogni, esigenze e desideri dei diversi attori in campo, partendo dal “micro”. Si tratta di un processo che richiede come risorsa essenziale la capacità di cooperare, mettere insieme e moltiplicare energie e risorse, superando tendenze individualistiche e competitive che invece altri frammenti di società oggi propongono come conseguenza alla crisi.

Tuttavia, il rischio di frammentazione insito in questo modello è estremamente pericoloso in quanto induce confusione: una sperimentalità permanente che minaccia di non giungere mai a consolidamento. Il pericolo di perdere di vista i valori di costruzione di una efficace “politica pubblica” comporta diverse conseguenze, tanto in una dimensione generale, come lo smarrimento del senso del proprio operare, quanto in un particolare, lo sviluppo incoerente e frammentario delle azioni di riforma.

Questi nostri tempi richiedono pertanto una consapevolezza: lo sviluppo di una politica pragmatica e modesta è possibile, ma l’attenzione deve restare elevata. Detto in altri termini, è importante comprendere e valutare i rischi insiti nella nuova direzione del welfare suggerita dalle pratiche che vediamo mettere in campo, affinché si costituisca una bussola di riferimento che indichi agli attori in gioco una prospettiva coerente nel lungo periodo.

Chi programma e progetta oggi interventi di welfare non può abdicare all’attenzione per i diritti delle persone.  Si può e probabilmente si deve virtuosamente operare nella flessibilità, integrando e valorizzando le risorse esistenti, cooperando e coprogettando in modo pragmatico, promuovendo spazi e contesti collaborativi, se si ha come riferimento il rispetto e la soddisfazione dei diritti delle persone. Ciò significa non provocare danni (primum non nocere) e consentire al destinatario degli interventi di welfare sociale una condizione di vita dignitosa.

Un esempio particolarmente calzante per sostenere tali riflessioni riguarda il tema dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo.

Intervenire in questo campo richiede di fronteggiare un bisogno sociale molto complesso, in continuo cambiamento e per questo molto difficilmente programmabile (tutti sappiamo che ci saranno nuovi sbarchi ma nessuno ha un’idea precisa di quanti saranno gli sbarchi nei prossimi mesi). Si tratta pertanto di affrontare una questione sociale con implicazioni legate all’emergenza, alla sicurezza sociale, al pregiudizio.

Come è possibile pensare ad una politica pubblica efficace in un contesto così complesso che consideri parimenti diritti e doveri di chi viene accolto?

Forse si possono ottenere risultati usando strumenti agili, di pragmaticità e flessibilità, tanto nella prima quanto nella seconda accoglienza. In prima battuta sono richiesti interventi coprogettati fra pubblico e terzo settore, attraverso forme di cooperazione fra prefetture, comuni e terzo settore; vanno poi messe in campo le competenze professionali di protezione sociale a di tutela dei più deboli. L’insieme di questi interventi va concepito con un utilizzo integrato di forme di aiuto micro (pocket money, beni materiali essenziali ecc.), parallelamente alla proposta di strumenti culturali (la consapevolezza dei propri doveri nel paese di accoglienza e l’apprendimento dell’italiano prima di tutto) e la definizione di possibili progetti di integrazione individuale, evitando proposte esclusivamente assistenzialiste ma allo stesso tempo mettendo i richiedenti asilo in una condizione di vita accettabile.

In questo contesto è necessario mettere in campo competenze professionali e interprofessionali, relazionali, organizzative ed anche utilizzare risorse tecnologiche, per esempio per la tracciabilità ma anche per l’organizzazione di azioni di assistenza immediata rivolta a grandi numeri.

Ancora, in una seconda fase di accoglienza, appare essenziale sviluppare capacità di controllo sostenute da azioni di protezione e promozione della coesione sociale, realizzando interventi di comunità capaci di includere i nuovi arrivati valorizzando le loro risorse.

Tale esempio, qui tracciato molto sommariamente, evidenzia come in una circostanza così complessa sia necessario ragionare su una direzione minima ed una prospettiva più ampia. La direzione minima risiede necessariamente nel rispetto della dignità delle persone che vengono accolte, alle quali vanno garantite condizioni di vita concrete e sociali quanto meno accettabili (obiettivo di per sé non facile da raggiungere operando in stretta e continua emergenza).  La prospettiva più ampia è quella di generare integrazione, nuova cultura e inclusione per costruire nuove energie vitali utili al nostro paese per le sue prossime prospettive di sviluppo. Chi programma e attua gli interventi deve avere presenti entrambe e deve tentare di perseguirle concordemente.

Generalizzando e andando oltre all’esempio trattato, la sfida che si pone oggi a chi programma e realizza interventi di welfare sociale è che si possano fronteggiare bisogni importanti ed emergenze nel rispetto della dignità delle persone, nella consapevolezza che tale dignità la si conquista, insieme ai destinatari degli interventi, attraverso la promozione di innovazione e sviluppo di piccoli passi modesti, concreti e capaci di generarne altri  fornendo iniezioni di speranza nella proposta di un mondo accogliente nel senso ampio del termine.

  1. U. De ambrogio, A. Dondi, G. Santarelli, Analisi Transazionale e cambiamento nelle organizzazioni, i Quid di Prospettive Sociali e Sanitarie, n.15, 2017