Agricoltura sociale e inclusione dei migranti

Spunti di riflessione a partire da una ricerca IRS


Nell’ambito del progetto PINA-Q: Promozione di percorsi di inclusione attiva nel settore agricolo di qualità1, finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione 2014-2020 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS) ha realizzato uno studio2 finalizzato ad esplorare il fenomeno dell’agricoltura sociale quale veicolo di inclusione socio-lavorativa dei migranti, potenziali vittime di sfruttamento lavorativo e caporalato in agricoltura. In questo articolo, dopo una breve contestualizzazione del fenomeno in Italia, presentiamo alcuni dei principali risultati emersi dal lavoro di ricerca, dedicando particolare attenzione al tema della sostenibilità economica ti tali pratiche.  

Il rischio di sfruttamento lavorativo migrante in agricoltura

Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto nel biennio 2018-2020 sarebbero 180 mila i lavoratori particolarmente vulnerabili, soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato. Il primo quaderno “Geografia del caporalato”3, presentato nel marzo 2022 ad integrazione del prossimo Rapporto su agromafie e caporalato dell’Osservatorio, mette in evidenza come il fenomeno dello sfruttamento lavorativo sia trasversale a tutto il nostro Paese, sfatando così il mito di una sua maggiore concentrazione nel Sud Italia. La ricerca individua infatti 405 aree caratterizzate da sfruttamento lavorativo sistematico, di cui oltre la metà localizzate nelle Regioni del Centro-Nord, con il primato delle aree agricole del Mantovano e del Pavese in Lombardia, e dei Colli Euganei, dei campi del Vicentino e del Polesine in Veneto. Lo sfruttamento lavorativo, definito come

l’insieme di forme illegali di intermediazione, reclutamento e organizzazione della manodopera al di fuori dei canali di collocamento regolari, in violazione delle disposizioni in materia di orario di lavoro, minimi salariali, contributi previdenziali, salute e sicurezza sul lavoro, nonché a condizioni di vita degradanti imposte ai lavoratori approfittando del loro stato di vulnerabilità o di bisogno

risulta particolarmente elevato nel settore agricolo per via di alcuni fattori: l’impiego massiccio di manodopera per brevi periodi e in luoghi isolati rispetto ai centri abitati, il ricorso a servizi di trasporto e ad alloggi inadeguati alle esigenze dei lavoratori e la precaria condizione giuridica di molti migranti coinvolti. Sono infatti proprio migranti e richiedenti asilo i soggetti più vulnerabili ed esposti al rischio di sfruttamento e caporalato in agricoltura. Sempre secondo l’Osservatorio sarebbero oltre 400 mila i migranti esposti al rischio di ingaggio irregolare nel settore agricolo, di cui 130 mila in condizioni di grave vulnerabilità. Anche in questo caso sono diversi i fattori che, correlandosi tra loro, rendono la popolazione straniera più sensibile al fenomeno4. Innanzitutto la pregressa condizione sociale ed economica di molti migranti che, fuggendo da situazioni di estrema povertà, presentano la necessità di trovare in tempi rapidi un impiego per poter inviare rimesse al proprio paese di origine. Costituiscono fattori di rischio anche la scarsa conoscenza della lingua italiana e del territorio, e dunque il massiccio ricorso alle reti di connazionali per la ricerca del lavoro, e i lunghi tempi di attesa per il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno, che scoraggiano i datori di lavoro a stipulare contratti regolari. Inoltre, secondo il Rapporto Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, pubblicato nel luglio 2022 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dalla Fondazione Cittalia dell’ANCI, nel nostro Paese sarebbero almeno 10 mila i lavoratori agricoli migranti a vivere insediamenti informali, ossia luoghi di privazione dei diritti e sfruttamento, in molti casi presenti da diversi anni, privi sia dei servizi sociosanitari essenziali sia di quelli volti a favorire l’integrazione.  

L’agricoltura sociale come veicolo di inclusione dei migranti

Come la popolazione migrante può dunque, in campo agricolo, essere inserita in progetti lavorativi dignitosi e regolari, protetti da forme di sfruttamento e caporalato? Quali strumenti sono oggi disponibili nel nostro Paese? Al fine di garantire una maggiore efficacia di contrasto al fenomeno del caporalato ed armonizzare le diverse norme esistenti in materia, è stata introdotta la Legge n. 199/2016 contenente disposizioni relative al contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento lavorativo in agricoltura, che punisce chiunque si avvantaggi di prestazioni lavorative attraverso lo sfruttamento del lavoratore in stato di bisogno e svolga (o si avvalga) di forme di intermediazione illecita. Nel febbraio 2020 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha inoltre approvato il primo Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato con l’obiettivo di promuovere legalità e dignità del lavoro, potenziando gli investimenti nelle filiere agroalimentari. In tale contesto, non possiamo poi non citare la procedura di emersione dei rapporti di lavoro, avviata nel giugno 2020 dal Ministero dell’Interno ai sensi dell’articolo 103, comma 1, del Decreto-legge 34/2020. Sono state presentate in totale oltre 207 mila domande di emersione, di cui quasi 30 mila relative al lavoro subordinato nel settore agricolo. Tuttavia, sappiamo bene come il processo di regolarizzazione non sia semplice e come il sistema presenti lacune e rallentamenti burocratici: l’aggiornamento del monitoraggio di Ero Straniero pubblicato i giorni scorsi sottolinea come, a fine marzo 2022, solo 105.000 permessi di soggiorno (circa il 50% del totale) siano in via di rilascio da parte delle prefetture, annoverando ancora decine di migliaia di pratiche da finalizzare. Infine, ma non per importanza, nel contrasto allo sfruttamento lavorativo e nella promozione dell’inclusione socio-lavorativa degli stranieri meritano un’attenzione specifica le pratiche di agricoltura sociale. Alla pari di persone con disabilità, lavoratori svantaggiati e minori in età lavorativa inseriti in progetti di riabilitazione e sostegno sociale, anche migranti e rifugiati diventano, per legge, destinatari delle misure di inserimento socio-lavorativo dell’agricoltura sociale. È una delle novità introdotte dalla Legge di conversione del DL Aiuti, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 15 luglio scorso. Nata come strumento di inclusione rivolto a persone con disabilità o che necessitano di percorsi terapeutici-riabilitativi, il ricorso all’agricoltura sociale sta crescendo sempre più anche nell’inclusione socio-lavorativa della popolazione migrante: le realtà italiane di agricoltura sociale impegnate in attività riguardanti i migranti sono oggi circa il 12% del totale, mentre quelle relative ai rifugiati oltre il 19%. Tali attività non consistono solo nella contrattualizzazione dei lavoratori stranieri, ma anche in percorsi di inclusione sociale, supporto abitativo, mediazione culturale, orientamento e formazione. Le modalità di coinvolgimento dei soggetti svantaggiati variano a seconda della tipologia prevalente di bisogno: rispetto ai migranti lo strumento più largamente adottato è il tirocinio extracurriculare.  

L’agricoltura sociale tra inclusione e sostenibilità

Si parla molto dell’impatto generato dall’agricoltura sociale in termini di inclusione dei soggetti fragili (migranti e non), mentre meno indagata è la questione relativa alla sostenibilità – economica, sociale ed ambientale – di tali esperienze. A partire dalle buone pratiche mappate e dagli approfondimenti qualitativi effettuati, possiamo affermare come una delle chiavi di volta dell’agricoltura sociale consista nell’integrazione tra il valore economico e il valore sociale delle esperienze messe in campo: “per via delle fluttuazioni dei mercati e delle incertezze climatiche, l’agricoltura è un settore fuori dal controllo umano tantoché spesso il segno con cui viene identificata è il meno. Anche il settore sociale ha segno meno: svantaggio ed esclusione, marginalità, disuguaglianze, scarsità di risorse. In matematica però meno per meno fa più: l’agricoltura sociale è più perché sviluppa benefici per entrambi i settori”. Queste le parole che, nel corso di un’intervista, un esperto di agricoltura sociale ha utilizzato per descrivere il fenomeno. Le esperienze di agricoltura sociale, quando presentano uno sguardo attento sia allo sviluppo di pratiche inclusive sia alla produzione di reddito, sono in grado di generare un circolo virtuoso in cui tutti i soggetti convolti, come esemplificato nella figura sottostante, traggono vantaggio. Le persone svantaggiate – in questo caso i migranti – aumentano il loro benessere grazie ad una maggiore inclusione ed integrazione sociale, le aziende agricole possono contare su una manodopera quasi immediatamente produttiva, i servizi pubblici – servizi sociali e di accoglienza in primis – risparmiano/condividono i costi relativi alle progettazioni e prese in carico, e i luoghi in cui le attività sono localizzate si rivitalizzano e ripopolano.    width=   Sappiamo bene però quanto sia difficile identificare con precisione i ricavi derivanti dalle attività di agricoltura sociale, in particolare per quei servizi volti alla promozione dell’inserimento di lavoratori svantaggiati, e quanto sia necessario disporre di una solida stabilità finanziaria per poter avviare tali attività. In Italia infatti, a differenza di altri paesi in Europa, i fondi propri rappresentano la fonte prevalente per la copertura degli oneri necessari agli investimenti nelle attività di agricoltura sociale in oltre il 65% dei casi, mentre il peso delle risorse pubbliche è pari solo al 19%. Alle difficoltà di accesso al credito si aggiungono quella di accesso alle terre e la mancanza di regolamenti attuativi uniformi a livello nazionale. Quali attenzioni possono dunque essere messe in campo per garantire sostenibilità economica alle esperienze di agricoltura sociale rivolte all’inclusione socio-lavorativa di migranti (e non solo)? A quali strumenti si può ricorrere? A partire dalle esperienze mappate ed approfondite abbiamo individuato tre aspetti sui quali occorre prestare attenzione:

  1. la creazione di reti mediante il coinvolgimento di molteplici soggetti portatori di specifiche competenze e interessi (es. aziende agricole, cooperative sociali), che deve essere favorita in particolare a beneficio degli attori più piccoli e con disponibilità economiche più ridotte;
  2. l’investimento nella formazione, sia di operatori che di lavoratori inseriti nelle attività, attraverso il coinvolgimento all’interno della rete di soggetti competenti nella formazione delle persone fragili;
  3. la cura dell’aspetto relazionale con i consumatori finali, attraverso attività di sensibilizzazione ed alleanze mutualistiche tra agricoltori e consumatori.

Altrettanti sono gli strumenti, che a titolo esemplificativo, abbiamo selezionato quali facilitatori della generazione di esperienze economicamente sostenibili di agricoltura sociale:

  1. la vendita diretta dei prodotti (es. in azienda, online, GAS) che, implicando un minor numero di passaggi sul mercato, porta all’abbassamento dei costi e alla produzione di un margine economico che può essere reinvestito nel sostegno degli inserimenti socio-lavorativi;
  2. il bilancio partecipativo, che consiste nella divisione di una parte degli utili generati dalla vendita dei prodotti agricoli e nel suo reinvestimento – anche attraverso il coinvolgimento diretto dei consumatori – nell’attivazione di nuovi progetti di inclusione socio-lavorativa e/o nel coinvolgimento di nuovi soggetti all’interno della rete di attori;
  3. il prefinanziamento dell’annata agricola che, mediante la definizione di un bilancio preventivo, ricorre allo strumento dell’asta solidale (anonima) volta a coprire interamente i costi della produzione, permettendo inoltre di effettuare una distribuzione equa dei prodotti agricoli tra i soci sostenitori indipendentemente dalla cifra versata da ognuno, sviluppando così con un’attenzione non solo alla sostenibilità economica ma anche a quella ambientale e sociale.

In quanto strettamente connesse alle caratteristiche geografiche e sociali dei territori in cui sono collocate, è evidente come non tutte le esperienze di agricoltura sociale siano facilmente replicabili oltre il proprio ambito originario di attuazione. La presenza di risorse umane debitamente formate, la disponibilità di risorse economiche pubbliche e private, il coinvolgimento all’interno delle reti di soggetti con una forte stabilità economica, e l’intervento di comunità territoriali ed amministrazioni locali collaborative e sensibili al tema sono le principali condizioni in grado di favorire la replicabilità delle esperienze, e dunque da ricercare e promuovere qualora si intenda avviare attività di agricoltura sociale.

 

Un approfondimento di questo articolo, a cura degli stessi autori è uscito nel numero 1 – Inverno 2023 di Prospettive Sociali e Sanitarie

  1. Il progetto PINA-Q persegue l’obiettivo di promuovere condizioni di regolarità lavorativa nel settore agricolo per i cittadini di Paesi Terzi, valorizzando forme “virtuose” di agricoltura capaci di rivitalizzare le aree rurali colpite dallo spopolamento.
  2. La ricerca è stata realizzata a partire da un’analisi documentale di fonti secondarie, integrata dalla realizzazione di una mappatura di buone pratiche a livello nazionale, alcune delle quali approfondite mediante interviste qualitative semi-strutturate a testimoni privilegiati.
  3. Cappellini M., La geografia del nuovo caporalato si sposta nei campi del Nord, Sole24ore, 18 marzo 2022
  4. Per un approfondimento si veda: De Blasis F., Pitzalis S., Lavoro migrante e sfruttamento, pubblicato su Welforum il 9 aprile 2019.