Dopo la fase Rem: riformiamo il Reddito di Cittadinanza


A cura di Tortuga | 29 Marzo 2021

Secondo le stime provvisorie dell’Istat, nel 2020 l’Italia ha visto un incremento di un milione di individui in povertà assoluta. L’aggravarsi della condizione di molte famiglie ha avuto un carattere eterogeneo, ed è stato più acuto per nuclei con minori, residenti al Nord, stranieri e giovani1. Alla luce di questi dati, che confermano un’esplosione del fenomeno della povertà provocata dalla pandemia e dalle sue conseguenze per l’economia, è necessario riflettere sulla risposta che le politiche sociali possono dare una volta usciti dall’ottica emergenziale. Per il momento, il Decreto Sostegni riconferma il Reddito di Emergenza (Rem) e rifinanzia il Reddito di Cittadinanza (RdC), lasciando invariato la sua architettura.

Il Rem, nato come strumento di supporto straordinario da esaurirsi entro l’estate, è stato rinnovato per tutto il 2020, e con il dl Sostegni sarà riconfermato per altre tre mensilità. La misura era stata proposta in origine da Forum Disuguaglianze Diversità, Asvis e Cristiano Gori come intervento di potenziamento temporaneo del già esistente Reddito di Cittadinanza (RdC). Secondo la proposta, il Rem avrebbe dovuto costituire un’estensione del RdC per rendere il sussidio in grado di rispondere alla straordinarietà della situazione. Opzione che non sarebbe risultata più onerosa di quella poi implementata, secondo le stime di Irpet. Con una certa lungimiranza, la proposta originale metteva in guardia contro il “rischio di un infinito breve periodo”, rischio che si è poi effettivamente concretizzato nel secondo semestre del 2020. Inoltre, la necessità stessa di introdurre una misura complementare al RdC, strumento universale e strutturale di contrasto alla povertà, porta inevitabilmente a chiedersi: non è forse il caso di riformare il RdC per renderlo più efficace?

In questo articolo analizzeremo il Rem per capire come migliorare il RdC, alla luce di questa esperienza che necessariamente si concluderà nel medio periodo, ma che ci lascia diverse lezioni importanti per il futuro della lotta alla povertà. In questa analisi, esamineremo sia il beneficio monetario del RdC, che l’offerta di servizi che lo accompagnano, servizi altrettanto necessari per rispondere adeguatamente alle esigenze dei cittadini in povertà.

 

L’esperienza del Rem: riformiamo il RdC monetario

Il governo stimava, basandosi sui dati di gennaio 2020, che i potenziali nuclei beneficiari del Rem fossero 870 mila. A questi vanno però sottratti coloro che tra gennaio e novembre 2020 (scadenza per la terza e ultima tranche di Rem) hanno avuto accesso al Reddito di Cittadinanza. Otteniamo quindi una potenziale platea di circa 700 mila famiglie.

 

 

Dal grafico si evince come, ad oggi, il Rem sia stato erogato in tre tranches successive, corrispondenti alle due proroghe della misura. Notiamo come il numero di domande sia sceso per l’erogazione estiva, quando tutti i beneficiari hanno dovuto presentare domanda di rinnovo – probabilmente a seguito di un miglioramento della situazione economica di alcune famiglie, contestualmente alla riapertura delle attività produttive. Per la terza erogazione di novembre-dicembre, invece, i già beneficiari hanno ricevuto automaticamente il rinnovo, quindi le nuove 79 mila domande accolte vanno aggiunte alle precedenti 253 mila. Possiamo così arrivare a una misura grezza di take-up: su 700 mila potenziali beneficiari, il 47% ha ricevuto almeno due mensilità. Perché più di una famiglia su due è rimasta esclusa? E perché il numero di domande respinte è rimasto sostanzialmente stabile, tra le 170 e le 160 mila unità?

In primis, per il Rem vi è stato uno sforzo comunicativo inferiore rispetto al RdC, diluito e confuso tra la molteplicità degli interventi di sostegno degli ultimi mesi.

Inoltre, come per il RdC, il criterio dell’Isee ha rappresentato un’onerosa barriera burocratica. L’Isee è un importante criterio di accesso alle prestazioni sociali, e in tempi non emergenziali è bene usufruire di questo indicatore. Allo stesso tempo, la necessità di presentare l’Isee è uno dei tanti elementi che rendono il processo di domanda a queste misure di welfare estremamente complesso, quasi impossibile da compiere in autonomia, soprattutto per le persone più marginalizzate, le stesse che più necessitano di essere raggiunte da questi interventi. Infatti, la maggior parte di queste domande viene fatta con l’assistenza di Caf e patronati.

Per il Rem si sarebbe potuto soprassedere la presentazione dell’indicatore, data la natura straordinaria della misura e la necessità di arrivare alle famiglie aventi diritto in maniera tempestiva e capillare. Per politiche strutturali come l’RdC, è bene che esistano paletti simili – la domanda da porre è se l’onere di presentazione debba ricadere sul cittadino. L’agenzia delle entrate, difatti, ha la possibilità di raccogliere e utilizzare informazioni per la misurazione dell’Isee e verificare il diritto al RdC. Tale opportunità era stata sottolineata dalla proposta Asvis e Forum DD per poter informare i cittadini sul loro diritto al Rem, individuando però come ostacolo quello della privacy. Per rendere più agibile l’accesso al RdC, perché non far presentare al richiedente una semplice autorizzazione alla raccolta e elaborazione dei propri dati da parte della pubblica amministrazione? Un elemento indubbiamente positivo, invece, è che il Rem sia riuscito a raggiungere i poveri di nazionalità extracomunitaria, grandi esclusi del RdC, con tassi rispettivamente del 22%, del 26% e del 42% per le tre diverse tranche (26% in aggregato). Infatti, è stato rimosso dal Rem il limite di dover risiedere in Italia da dieci anni, criterio che rende tutt’oggi il RdC una misura fortemente discriminatoria, se si considera che gli stranieri costituiscono il 30% della popolazione in povertà assoluta in Italia, e solo l’11.6% dei beneficiari del RdC. Problema ancor più rilevante a fronte dell’incremento di stranieri in povertà assoluta avuta luogo nell’ultimo anno: + 3.7% di incidenza nelle famiglie di soli stranieri, rispetto a una media nazionale dell’1.3%.

Un altro punto meritorio del Rem è quello di aver adottato una scala di equivalenza meno piatta rispetto al RdC, che quindi offre un sostegno più adeguato alle famiglie numerose. Infatti, un vulnus cruciale del RdC è la relativa generosità nei confronti di single e nuclei familiari ristretti a discapito di quelli più numerosi, nonostante in questi ultimi l’incidenza di povertà assoluta sia maggiore. È positivo notare che i decisori politici abbiano iniziato a tenere in considerazione questa criticità, da tempo nota agli esperti[2].

Vi sono quindi tante lezioni da trarre dall’esperienza del Rem e da trasferire in una riforma globale del RdC. In primis, va ripensata la componente monetaria del RdC, al fine di renderlo più inclusivo nei confronti di stranieri e famiglie numerose. Inoltre, vanno semplificate le procedure burocratiche, per rendere la misura più accessibile. Inoltre, il Rem, come abbiamo visto, è una misura esclusivamente monetaria, scelta comprensibile data la natura emergenziale della misura. Ma l’aspetto dei servizi alla persona del RdC è imprescindibile, e va rafforzato.

Potenziamo il RdC dei servizi

La comunicazione politica di promozione del RdC si è a lungo concentrata sull’aspetto di politica attiva di lavoro e sul ruolo dei Centri per l’Impiego (Cpi). Tuttavia, di recente, abbiamo assistito ad un cambio di narrazione: il RdC viene ora proposto primariamente come misura di contrasto alla povertà tramite l’inclusione sociale. È un riallineamento auspicabile, data l’importanza di scindere le misure volte al contrasto della povertà dalle politiche attive per il lavoro. Potenziare queste ultime è ovviamente importante, ma richiede un intervento a parte che non va confuso con la lotta alla povertà. La povertà è un fenomeno multidimensionale e non unicamente riconducibile alla disoccupazione[3]. Infatti, può riguardare aspetti vari come le condizioni abitative, la disabilità, l’istruzione, le dipendenze e le problematiche di salute fisica o psicologica. Inoltre, non tutti i richiedenti RdC sono alla ricerca di lavoro (ad esempio persone affette da disabilità limitanti, o giovani che potrebbero formarsi o studiare), e un lavoro può non bastare a sfuggire alla povertà. Basti pensare che l’incidenza della povertà in Italia tra famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio o un lavoratore assimilato è del 10,2% secondo i dati Istat del 2019. Il fenomeno dei “working poor” continua ad aggravarsi durante l’attuale crisi dovuta alla pandemia: nel 2020, l’incidenza della povertà assoluta è cresciuta soprattutto tra famiglie con persona di riferimento occupata.

I soli trasferimenti monetari, quindi, non bastano per far fronte alla complessità di problematiche individuali che possono colpire una persona in povertà: per questo sono necessari servizi alla persona di qualità.

Gori, nel suo libro “Combattere la povertà”, spiega come il welfare italiano sia sbilanciato storicamente verso stanziamenti monetari, a discapito dei servizi alla persona (che siano asili nido, centri per l’impiego, o interventi domiciliari destinati agli anziani), rendendoci quindi uno dei paesi europei con l’offerta più limitata di servizi. Ma negli ultimi anni, il RdC e il Rei hanno fatto storia nel panorama del welfare italiano, proprio per il peso dato ai servizi alla persona. La quota del Fondo Povertà da dedicare ai servizi sociali ammonta a 587 milioni di euro nel 2020 (615 dal 2021). A questo si aggiunge il Pon Inclusione del Fondo Sociale Europeo, pari a 162 milioni annui dal 2019 al 2021. Gori indica che in nessun ambito della spesa sociale c’era mai stato un fondo nazionale di tale dimensione dedicato ai servizi alla persona. Per i Cpi sono stati stanziati 551 milioni di euro nel 2020 e 570 nel 2021.

Grazie a questi fondi, gli stanziamenti monetari del Rdc possono quindi essere accompagnati da un percorso di inserimento sociale e/o lavorativo. Ma come funziona di preciso questo sistema?

I beneficiari del RdC vengono smistati tra Centri per l’Impiego, dove firmano un Patto per il Lavoro; e i comuni, un altro percorso personalizzato presso i servizi sociali riassunto in un Patto di Inclusione.  Le linee guida del Patto di Inclusione auspicano una stretta collaborazione tra i servizi sociali e gli altri enti od organismi competenti per l’inserimento lavorativo, l’istruzione e la formazione, le politiche abitative e la salute, ecc.

Questi interventi offerti alle fasce più vulnerabili della popolazione devono continuare ad essere rafforzati. L’Alleanza contro la Povertà, ad esempio, propose di rimettere i comuni al centro di questo sistema di presa in carico dei beneficiari, come accadeva con il Rei, dove tutti coloro che ricevevano un contributo finanziario erano presi in carico dai servizi sociali come primo approdo (e poi eventualmente indirizzati anche verso altri enti). Con il RdC, invece, gli individui idonei sono smistati tra servizi sociali e Cpi: ad esempio, il 49% dei beneficiari viene indirizzato solo ai Cpi, e quindi non si interfaccia con i servizi sociali dei comuni come primo approdo (potrebbero poi essere reindirizzati verso i servizi sociali in seguito). Viene quindi meno il riconoscimento della multidimensionalità della povertà, che non dipende solo dall’inserimento lavorativo. L’importanza di questi interventi di inserimento sociale appare ancor più evidente nell’attuale crisi causata dal coronavirus, che secondo stime preliminari dell’Istat avrebbe prodotto un milione di poveri in più in Italia nel 2020. Questo potrebbe portare ad un sovraccarico dei servizi sociali, una situazione che andrebbe monitorata con attenzione, in particolare per capire se siano necessari fondi addizionali per far fronte a quest’aumento della povertà.

 

I servizi per i giovani

Inoltre, manca una riflessione e un’analisi più approfondite sul tipo di interventi da proporre e gli effetti di questi interventi sui beneficiari. Questa mancanza di monitoraggio dei servizi alla persona è esemplificata dal poco spazio dedicato ai servizi alla persona nel Rapporto Annuale 2020 sul Reddito di Cittadinanza.

In particolare, sarebbe utile riflettere ulteriormente sulla presa in carico dei giovani nell’ambito del RdC. Come si evince dal grafico, circa il 47% dei beneficiari del RdC sono under-35 e questa fascia di età è anche la più colpita dalla povertà assoluta e dall’attuale crisi economica causata dal covid. In aggiunta, quasi tre quarti di questi giovani beneficiari sono potenziali Neet, cioè non hanno un impiego e non frequentano una scuola né un corso di formazione.

 

 

È quindi fondamentale capire quali sono i servizi (di inserimento lavorativo, educativo, e sociale) dedicati ai giovani nell’ambito del RdC. Attualmente, le linee guida sul Patto di Inclusione danno alcune indicazioni su come vengono presi in carico giovani percettori del RdC:

Ma l’importanza delle misure menzionate in favore delle nuove generazioni (e non solo) richiederebbe un’analisi più attenta e dettagliata del tipo di interventi forniti, e degli effetti sui beneficiari. A due anni di distanza dall’introduzione del RdC, le uniche informazioni pubbliche prodotte dal governo sul percorso fornito dai servizi alla persona sono percentuali aggregate di adesione: questi non possono essere gli unici strumenti disponibili per valutare l’efficacia di una misura così cruciale. È necessario conoscere l’effettiva attuazione delle pratiche indicate, gli effetti che le stesse hanno sortito. Solo così si può elaborare un giudizio di merito e capire come migliorare quello che già è in campo.

La piattaforma GePI, che permette agli assistenti sociali dei comuni di gestire i Patti per l’inclusione sociale e di condividere queste informazioni con amministrazioni centrali e servizi territoriali come i Cpi, potrebbe contenere i dati necessari per svolgere questa analisi. Nel rispetto della privacy, questa piattaforma può rappresentare il punto di partenza per una valutazione di esito del RdC dei servizi. Mettere a disposizione i dati anonimizzati al mondo della ricerca, è una misura a costo zero, che può però contribuire significativamente al contrasto alla povertà.

 

Conclusione

In ultima analisi, le strade da intraprendere per revisionare il RdC sono principalmente quella di riformare la componente monetaria e potenziare la parte dei servizi. La componente finanziaria va aggiustata, correggendone alcuni requisiti (come i 10 anni di residenza in Italia e la barriera burocratica dell’Isee) e cambiandone la scala di equivalenza per evitare di sfavorire le famiglie numerose. Inoltre, è necessario potenziare la parte dei servizi alla persona per affrontare la complessa multidimensionalità della povertà, slegando il RdC dalla ricerca di lavoro come fine principale, e rimettendo al centro di questo sistema i servizi sociali comunali. Molte di queste proposte si allineano alle prime dichiarazioni di Chiara Saraceno, l’esperta di welfare chiamata in questi giorni dal ministro del Lavoro Orlando a far parte del Comitato per la valutazione del RdC: seguiremo con interesse gli sviluppi di questa valutazione e la potenziale riforma del RdC che potrebbe scaturirne.

  1. Per un approfondimento si rimanda al recente articolo di Mesini e Gnan pubblicato su welforum.it