E ora la parola ai fatti

Pregi e difetti del Reddito di cittadinanza, con qualche suggerimento per il futuro


Stefano Toso | 8 Aprile 2019

Con la conversione in legge del decreto n. 4/2019 si conclude un percorso avviato quasi sei anni fa con il d.l. n. 1148/2013, il disegno di legge con cui nella precedente legislatura il M5S proponeva l’istituzione di una misura denominata reddito di cittadinanza (RdC), ciò che si sarebbe rivelato il cavallo di Troia con cui il Movimento ha scardinato gli equilibri politici del nostro paese. Può quindi essere utile dare uno sguardo retrospettivo ai punti di forza e di debolezza di questa misura, per poi concludere con qualche suggerimento per il futuro.

 

I punti di forza. Il RdC sostituisce il Reddito di inclusione (Rei), una misura concepita dai tre precedenti governi di centro-sinistra (Letta, Renzi e Gentiloni) ma introdotta solo nel dicembre 2017. Pur ispirato alle migliori pratiche esistenti da tempo in Europa, il Rei aveva un difetto fondamentale: era sotto finanziato. A meno di un consistente incremento della sua dotazione, non era quindi possibile che tale istituto potesse alleviare la povertà assoluta, in aumento nell’arco di un decennio, da valori prossimi al 3% nel 2006 a livelli quasi tripli nel 2017 (8,4%). Ben venga quindi una misura più generosa e non molto diversa, come concezione, dal Rei se non per il fatto di essere riferita a una soglia di povertà mediamente più alta. A regime il RdC dovrebbe assorbire circa 8 miliardi annui, al lordo degli accantonamenti previsti per il Rei per il biennio 2019-2020: un importo elevato per i fragili equilibri della finanza pubblica italiana ma non molto distante da quanto si calcola sia necessario per contrastare con efficacia la povertà assoluta (8-10 miliardi).

 

Se con il RdC siamo di fronte al più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri mai effettuato in Italia, non mancano punti di debolezza e vere e proprie incoerenze di progettazione. L’equivoco più macroscopico è filologico e riguarda la denominazione dell’istituto.

Se le parole hanno ancora un senso, per reddito di cittadinanza o reddito di base – i due termini sono sinonimi – si deve intendere «un trasferimento pubblico in moneta erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare». E’ questa la definizione che ne dà il Basic Income Earth Network, il network che ne propone da una trentina d’anni l’applicazione su scala mondiale. Un’idea antica, suggestiva ma che non ha mai trovato applicazione duratura, se si esclude l’Alaska, sia per una questione morale (“Perché sussidiare chi fa surf sulle spiagge di Malibu?” diceva John Rawls) sia per gli enormi costi che tale misura pone a carico del bilancio pubblico. Invocato come antidoto agli effetti negativi che la nuova rivoluzione tecnologica potrà produrre sul mercato del lavoro, il reddito di cittadinanza, correttamente inteso, non è oggi nell’agenda politica di alcun governo al mondo. Compreso il nostro.

 

Un secondo aspetto controverso della riforma consiste nel dietro-front che il M5S ha compiuto rispetto al citato disegno di legge del 2013, che fino a tre mesi fa rappresentava la riflessione più avanzata del Movimento sul tema. Partito con l’obiettivo ambizioso di abolire la povertà relativa – nel d.l. 1148/2013 l’importo massimo del sussidio per un single privo di reddito, vale a dire 780 euro mensili, coincideva con la soglia di povertà relativa stimata da Eurostat per l’Italia nel 2009 – il Movimento ha modificato il tiro, privilegiando la lotta alla povertà assoluta.

Che differenza c’è tra i due concetti di povertà? Il discorso sarebbe lungo. Basti dire che la povertà assoluta indica una forma di deprivazione economica più grave di quella relativa. E infatti, mentre Istat stima in 5,1 milioni il numero di individui poveri assoluti, quelli in condizioni di povertà relativa sono 9,4 milioni. Una bella differenza, non solo per quanto concerne i soggetti potenzialmente interessati da un provvedimento di sostegno del reddito, ma anche in termini di risorse pubbliche necessarie al suo finanziamento. Non per niente la spesa annua della proposta grillina del 2013 era stimata dai 15 ai 29 miliardi di euro, a seconda che si includesse o no nel reddito disponibile delle famiglie il valore dell’affitto imputato dell’abitazione di residenza, se di proprietà. L’aver virato verso un obiettivo meno ambizioso – ma che ci ha comunque fatto rischiare l’apertura di una procedura di infrazione per debito pubblico eccessivo – non ha impedito che il mantra dei 780 euro mensili (per chi vive in affitto) abbia continuato a trovare posto nel testo di legge.

 

L’aver tenuto duro sui 780 euro mensili per il single ha originato un ulteriore equivoco: il RdC aiuta meno chi ha più bisogno. Un esempio? I soggetti con elevati carichi di famiglia. In Italia il 20,9% dei nuclei con almeno tre figli minori sono poveri assoluti, contro valori che vanno tra il 4,6 e il 5,9% a seconda che la persona sola abbia più o meno di 65 anni. E tuttavia l’importo massimo del sussidio per una famiglia, ad esempio, di cinque componenti è di soli 1.280 euro, un valore incoerente con qualsiasi scala di equivalenza impiegata in Italia e in altri paesi europei per calibrare gli aiuti economici a favore delle famiglie povere di diversa numerosità. L’iniquità di trattamento riguarda anche i nuclei composti di soli stranieri, sebbene l’incidenza di povertà assoluta tra questi ultimi sia ben più alta di quella dei nuclei di soli italiani: il 29,2% la prima, il 5,1% la seconda.

 

Perché mai gli stranieri saranno svantaggiati dalla riforma? Il motivo è semplice: lo stringente requisito sugli anni di residenza in Italia ai fini dell’accesso al RdC (dieci, di cui gli ultimi due continuativi) penalizza i soggetti di più recente immigrazione, anche se poveri. Diverso sarebbe stato il caso se si fosse adottato il requisito, più generoso, vigente per il Rei (due anni) o quello stabilito nel d.l. grillino n. 1148/2013, in cui si prevedeva all’art. 4 che avrebbero avuto diritto al reddito di cittadinanza tutti gli ultra diciottenni, residenti nel territorio nazionale (senza limiti temporali), inclusi gli extracomunitari provenienti da Paesi che hanno stipulato convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia. Un cambiamento di rotta politica evidente, anche se poteva andare peggio: nel «Contratto per il governo del cambiamento» il diritto al reddito di cittadinanza era limitato ai soli cittadini italiani!

 

E che dire del ventaglio di obiettivi (politica attiva del lavoro, contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, diritto all’istruzione, alla formazione e alla cultura) attribuiti a una misura che nelle migliori esperienze internazionali è solitamente impiegata per favorire la fuoriuscita dall’area della marginalità sociale più estrema di soggetti che non riescono a pagare il canone di affitto e/o le bollette di servizi pubblici  essenziali, che presentano situazioni di disagio psico-fisico o i cui figli non hanno completato l’obbligo scolastico? Non è certo con un istituto come questo, stante l’attuale arretratezza dei Centri pubblici per l’impiego e la cronica carenza di domanda di lavoro al Sud, che si può pensare di combattere la disoccupazione.

 

L’elenco delle incoerenze potrebbe continuare ma veniamo all’oggi. Le correzioni apportate nelle settimane scorse dai due rami del Parlamento al decreto n. 4/2019 non hanno intaccato i vizi di fondo della nuova misura, che si appresta ora a navigare in mare aperto, senza che ci sia stato il tempo di poter valutare con opportune sperimentazioni, anche a livello locale, le tante incognite che attendono la riforma. Che suggerimenti dare per il futuro?

Diversi sono i profili su cui pare opportuno intervenire. Uno riguarda il riequilibrio degli importi massimi del sussidio per le varie tipologie familiari, con la riduzione di quello del single che vive in appartamento di proprietà (ora di 500 euro mensili) e il contemporaneo innalzamento di quelli previsti per le famiglie numerose. Va, in altre parole, resa più ripida la scala di equivalenza impiegata per calcolare gli importi massimi del RdC. Perché poi non differenziare tali importi in base ai parametri (numerosità ed età dei membri della famiglia, area geografica e densità abitativa del comune di residenza) con cui Istat stima da un ventennio la povertà assoluta? In questo modo si terrebbe conto del diverso costo della vita nelle macro-aree geografiche e non si scoraggerebbe la mobilità Nord-Sud. Un altro suggerimento riguarda il progressivo allentamento del criterio della residenza, ora fissato, come noto, in 10 anni di cui gli ultimi due continuativi. La modifica andrebbe a vantaggio degli immigrati poveri di ultimissima generazione, oggi esclusi dal RdC. Il governo si è impegnato a potenziare, non senza qualche tensione tra Stato e Regioni, i Centri pubblici per l’impiego assumendo innanzitutto tremila nuovi addetti, che dovrebbero assistere i beneficiari del RdC nella ricerca di un lavoro. Perché non investire maggiori risorse pubbliche anche in politiche per la formazione professionale e nell’alternanza scuola-lavoro? Sempre con riferimento al tema dell’occupazione, perché non abbassare l’aliquota marginale di sottrazione del sussidio che grava su ogni euro aggiuntivo di reddito prodotto sul mercato, così da ridurre la trappola della povertà, ovvero il disincentivo a lavorare in chi beneficerà del RdC? L’aliquota è ora pari all’80% ma potrebbe essere ridotta ed essere portata, ad esempio, in prossimità del 50%.

Sembra che il ministro Luigi Di Maio, in visita negli Stati Uniti, abbia salutato la conversione del d.l. n. 4/2019 scrivendo sui social che siamo di fronte a «un nuovo modello di welfare». Al ministro del Lavoro piace esagerare, si sa. A nostro parere, invece, è in gioco il consolidamento delle ancora gracili politiche di lotta alla povertà nel nostro paese.