Brexit, migranti, violenza sulle donne e spese mediche


Sergio Pasquinelli | 11 Dicembre 2018

In collaborazione con Redattore Sociale

Brexit goodbye?

Theresa May ha annunciato il rinvio del necessario voto parlamentare sull’accordo sulla Brexit, preso con Bruxelles, prevedendo una sonora bocciatura. Ma le UE ha negato la possibilità di rinegoziarlo.

Si profila dunque una Brexit senza accordi. Quali le conseguenze “sociali”? Le ha iniziate a descrivere Chiara Crepaldi su questo sito: “I lavoratori europei nell’ambito dei servizi sociali nel Regno Unito sono stimati in circa 95.000, la maggior parte dei quali addetti alla cura alla persona”. Senza accordi diventa molto incerto il destino di questi lavoratori, così come quello delle persone bisognose di assistenza, che rischieranno di trovarsi privi di cure.

In assenza di accordo salta l’accesso alle prestazioni sanitarie tra Regno Unito e UE: “i cittadini europei e quelli britannici residenti in Europa non avranno più accesso alle cure in regime di reciprocità e diventerà molto difficile per i cittadini britannici con malattie croniche e con disabilità spostarsi in Europa”.

 

Migranti: via la protezione umanitaria, è corsa ai permessi per lavoro

I titolari della protezione umanitaria, abolita dal decreto Salvini, cercano nuove strade per rimanere in Italia legalmente. Avvocati e sindacalisti suggeriscono la conversione in permesso per lavoro. Bove (Cisl): “È l’unica strada possibile”. Guariso (Asgi): “Ci sarà corsa a lavori e contratti dubbi per uscire dal vicolo infernale della legge”.

Il decreto sicurezza, convertito nella legge 132/2018, abolisce la protezione umanitaria sostituendola con un “permesso per protezione speciale”, che dà diritto alla permanenza in Italia per un solo anno, rinnovabile più volte. Ogni 365 giorni c’è quindi il rischio per i richiedenti di essere sottoposti a un nuovo parere della commissione e a perdere il diritto a restare nella penisola. Cosa succede oggi per chi ha già la protezione umanitaria? C’è il caos normativo, ma operatori dell’accoglienza e stranieri titolari di quel permesso, che già lavorano o hanno lavorato in passato, stanno tentando una nuova strada: convertire la protezione umanitaria in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Sta accadendo, dalla Lombardia al Veneto.

“È vero. Lo dice la legge perché c’è una norma transitoria che spiega come il titolare di protezione umanitaria la possa convertire a scadenza, o anche prima, in permesso per motivi di lavoro”, spiega l’avvocato Alberto Guariso dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Questo è un principio generale che vale per tutti i permessi di soggiorno salvo quelli turistici – prosegue Guariso – e in questo momento è l’unico modo per evitare il vicolo cieco del nuovo permesso per protezione speciale introdotto dal decreto Salvini che invece non è più convertibile: una persona ogni anno deve sottoporsi al parere della commissione e potrebbe essere mandata via”. “È l’unica strada possibile – conferma Maurizio Bove, responsabile immigrazione per la Cisl di Milano –: ed è quella che noi stiamo caldeggiando: nel momento in cui hanno un lavoro è meglio che convertano il prima possibile questo permesso di soggiorno per affrancarsi dal rischio di perderlo in seguito, visto che la protezione umanitaria appena scade non verrà più rinnovata”.

 

Violenza sulle donne

Secondo l’Istat sono quasi 50 mila donne hanno chiesto aiuto ai Centri antiviolenza nel 2017.  Di queste 29.227 hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. Il numero medio di vittime prese in carico (115,5) è massimo al Nord-est (170,9) e minimo al Sud (47,5). Il 26,9 è straniera e il 63,7% ha figli.

Il consiglio dei ministri ha approvato, alla fine di novembre, il cosiddetto ‘codice rosso’, il disegno di legge recante “Modifiche al Codice di Procedura Penale: disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Si tratta di un provvedimento del Ministero della giustizia e di quello della pubblica amministrazione che accelera lo svolgimento delle indagini, le procedure di giustizia, ivi compresa l’audizione delle vittime dei reati di maltrattamenti di violenza sessuale, di atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito delle relazioni di convivenza.

 

Più di 13 milioni di italiani limitano le spese mediche

Oltre 500 mila persone non hanno potuto permettersi cure mediche e farmaci di cui avevano bisogno quest’anno, mentre circa 13,7 milioni di italiani hanno limitato le spese per visite e accertamenti. È quanto emerge dal Rapporto 2018 “Donare per curare: povertà sanitaria e donazione farmaci”, realizzato dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus.

A causa di spese più urgenti (perché non rinviabili), le famiglie povere destinano alla salute solo il 2,54% della propria spesa totale, contro il 4,49% delle famiglie non povere. In particolare, possono spendere solo 117 euro l’anno (con un aggravio di 11 euro in più rispetto all’anno precedente), mentre il resto delle persone può spendere 703 euro l’anno per curarsi (+8 euro rispetto all’anno precedente). Per le famiglie indigenti, inoltre, la quota principale della spesa sanitaria è destinata ai medicinali: 12,30 euro mensili, pari al 54% del totale. Il resto delle famiglie destina ai farmaci solo il 40% della spesa sanitaria, perché investe maggiormente in prevenzione. In tal senso, è particolarmente sintomatica le spesa delle persone in stato di indigenza per i servizi odontoiatrici: 2,35 euro mensili, contro 24,83 euro del resto della popolazione.

La strategia del risparmio nelle spese sanitarie, che riguarda di fatto oltre 5 milioni di famiglie, si configura quindi come “un vero e proprio comportamento di massa”. Nel triennio 2014-16 la percentuale di italiani, tra le famiglie non povere, che ha limitato il numero di visite e accertamenti è passato dal 24 al 20%. La quota, invece, è aumentata tra le famiglie povere, passando dal 43,4% al 44,6%. “Nonostante questa strategia di contenimento della spesa sanitaria a proprio carico – si legge nel Rapporto -, i dati ufficiali indicano una progressiva divaricazione tra la spesa pubblica (in riduzione) e quella privata (in aumento). In particolare, la quota di spesa per assistenza farmaceutica non sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale e a carico totale delle famiglie sfiora il record storico, passando al 40,6% rispetto al 37,3% dell’anno precedente”.