Ma l’emergenza non è solo sanitaria


Sergio Pasquinelli | 10 Marzo 2020

In collaborazione con Redattore Sociale

 

C’è qualcosa di paradossale in queste lunghe giornate di confino domestico. Da un lato la verità amara di un’emergenza lunga che ci obbliga a rintanarci, chiudere, prendere le distanze, che ci riporta alle istituzioni totali, come le case di riposo blindate anche ai parenti più stretti. Dall’altro la necessità vitale di sentirci parte di una comunità, di una società: di essere legati gli uni agli altri, perché è da questo sentire che discendono comportamenti responsabili, la sopportazione di questa condizione, e il contagio potrà calare.

 

La conta delle conseguenze sarà lunga. C’è un’economia sociale in ginocchio. Dario Colombo, dirigente della cooperativa sociale Il Melograno dell’hinterland milanese: “abbiamo l’80 per cento dei nostri operatori a casa o con una forte riduzione dell’orario di lavoro, stiamo parlando di 500 persone: sono quelle che operano nelle scuole, nei centri di aggregazione, nei centri diurni, nei servizi domiciliari, servizi chiusi o fortemente ridotti”.

Le centrali cooperative calcolano, nella sola Lombardia, un danno di almeno 1 milione di euro al giorno, tra appalti e servizi sospesi: occorre da subito attivare meccanismi di cassa integrazione in deroga e altre misure di sostegno. Legacoopsociali ha avanzato una serie di richieste al governo di estrema urgenza.

 

A fianco dell’emergenza sanitaria Mirella Silvani, presidente dell’Ordine lombardo degli assistenti sociali, segnala come “stiano emergendo crescenti elementi di stress sociale, che riguardano bisogni nuovi, come il numero crescente di persone confinate in casa, perché positive al virus o semplicemente per motivi precauzionali, che tuttavia si trovano senza aiuti”. Si veda qui l’intervista pubblicata su welforum.it.

Procurare la spesa agli anziani soli, confinati al proprio domicilio è diventato un tema: le reti di prossimità a volte si attivano, a volte vacillano.

Che cosa lascerà sul campo questo virus? Le conseguenze rimarranno in termini di grado di fiducia, prossimità delle relazioni, cooperazione tra cittadini: dimensioni forzatamente modificate in queste settimane che non verranno resettate dalla sera alla mattina. Perché se è vero che nelle zone rosse la condivisione di una stessa condizione può avere innalzato la densità delle relazioni e l’aiuto reciproco (si veda questa testimonianza da Codogno) altrove le distanze create dovranno essere ricucite, si dovrà raddrizzare la curva discendente della fiducia nell’altro, della prossimità.

Senza contatto umano e relazioni faccia a faccia, il welfare di comunità muore.

Dovremo rimarginare le molte solitudini che il virus ha scoperchiato, l’isolamento forzato di queste settimane, persino nella prospettiva di un virus endemico. Accettare l’incertezza come parte della vita, scoprendo con occhi nuovi quanto davamo per scontato, quasi per banale. La possibilità di un viaggio, di un semplice abbraccio, senza l’ansia da contagio sarà qualcosa che riscopriremo piano piano. Torneremo dolcemente alle nostre abitudini, ma con un sapore nuovo. E forse, la sensazione di una rinascita.

 

Fondazione Cariplo crea un fondo per le comunità in difficoltà

Fondazione Cariplo ha costituito un fondo di 2 milioni di euro per mitigare gli effetti indesiderati nei confronti degli enti non profit, causati dalle misure di contenimento del COVID-19.

Fondazione Cariplo interverrà in collaborazione con le Fondazioni di comunità, enti che per la loro vicinanza con il territorio sanno meglio intercettare bisogni e soluzioni delle comunità e che nei vent’anni dalla loro nascita si sono dimostrate capaci di promuovere la cultura del dono, della partecipazione e della solidarietà. Le fondazioni di comunità si stanno già organizzando in tal senso. Alcune di loro, in particolare quelle di Lodi e di Bergamo hanno annunciato a loro volta l’avvio di iniziative e di fondi speciali a cui Fondazione Cariplo darà il proprio apporto.

Ad essere particolarmente in difficoltà sono gli Enti del Terzo Settore che gestiscono servizi e attività interessate dai provvedimenti presi in questi giorni a tutela della salute pubblica come i servizi non residenziali a supporto delle famiglie (asili nido, scuole materne, centri per anziani e per altre tipologie di fragilità) e moltissime attività culturali e di socializzazione. Qui per maggiori dettagli.

 

È online la mappa dei contagi in Italia

Il Dipartimento della Protezione Civile, allo scopo di garantire una sempre più efficace e trasparente comunicazione istituzionale, ha realizzato una mappa interattiva per la visualizzazione della situazione relativa al monitoraggio sanitario sul Coronavirus in Italia.

Da oggi, è possibile consultare una cartina geografica dell’Italia e individuare i casi dei contagi, indicati con un pallino rosso. La visualizzazione del numero dei contagi può essere fatta con un dettaglio che va dal livello regionale alla singola provincia. I dati vengono aggiornati giornalmente alle ore 18, in contemporanea alla conferenza stampa che viene trasmessa attraverso i canali social del Dipartimento della Protezione Civile.

Coronavirus e stigma sociale: “le parole contano”

“Le parole contano”. Lo ribadisce una volta di più l’Oms che, in collaborazione con IFRC (International Federation of Red Cross e Red Crescent Societies) e Unesco, ha redatto una vera e propria guida, rivolta alle istituzioni governative, ai media e alle organizzazioni che lavorano nel campo della nuova malattia da coronavirus, per prevenire e affrontare lo stigma sociale. Frutto, quest’ultimo, di un’imprudente e scorretta associazione tra la malattia e particolari luoghi o etnie, che passa attraverso espressioni quali “virus cinese” o “virus di Wuhan” o “virus asiatico”.

Ma anche parlare di “casi sospetti” o “sospetti Covid-19” come pure di persone che “trasmettono Covid-19”, che “infettano gli altri”, può alimentare lo stigma e al tempo stesso una maggiore riluttanza a farsi curare o a sottoporsi a screening, test e quarantena. Anche enfatizzare gli sforzi per trovare un vaccino e un trattamento, si legge nella guida, può aumentare la paura e dare l’impressione che non siamo in grado di arrestare le infezioni. Infine, lo stigma può essere favorito da una conoscenza insufficiente relativamente a come il nuovo coronavirus viene trasmesso e trattato e come si può prevenire l’infezione. Di conseguenza, occorre diffondere, con linguaggio semplice privo di termini clinici, informazioni accurate e specifiche in relazione a: le aree interessate, la vulnerabilità individuale e di gruppo a Covid-19, le opzioni di trattamento, cosa fare per avere assistenza sanitaria e informazioni sulla malattia”.

È donna il 52% degli immigrati in Italia: in crescita negli ultimi 15 anni

La presenza di donne immigrate in Italia è cresciuta negli ultimi 15 anni di oltre il 140%. Provengono soprattutto da Romania, Albania e Marocco. Al 1° gennaio 2020 le donne adulte straniere regolarmente residenti nel paese sono due milioni e 235 mila (contro i poco più di due milioni e 46mila uomini).

Lo stima l’Ismu che diffonde i dati aggiornati (elaborazione Istat), in occasione della festa dell’8 marzo: è donna il 52,4% degli adulti immigrati, mentre prevale la componente maschile (51,9% del totale) si analizza la popolazione minorenne straniera. Una crescita dovuta sia all’aumento dei ricongiungimenti familiari (per lo più femminili), sia all’allargamento ad Est dell’area di libera circolazione europea, che ha comportato l’incremento di nuovi flussi esteuropei: soprattutto, anche se non solo, di assistenti domiciliari e “badanti”.

Focus Lombardia. La maggior parte è coniugata (55,3%), più di una su quattro è nubile, mentre le divorziate e separate sono il 13,6% ( vedove il 4,7%). Due immigrate su tre hanno un titolo di studio di scuola secondaria superiore (per lo più ottenuto in patria) e più di una su cinque possiede una laurea. È la fotografia delle donne straniere in Lombardia scattata da Ismu, che ha elaborando i dati dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità. Le donne immigrate rappresentano il 49,6% del totale della popolazione immigrata presente in Lombardia. Le attività lavorative maggiormente svolte sono quelle in ambito domestico (33,6%).