Non autosufficienza: cosa succede se la riforma fallisce


Il decreto attuativo della delega sulla non autosufficienza (l. 33/2023) è stato bocciato dalla Conferenza delle Regioni per «mancata previsione di risorse finanziarie aggiuntive e strutturali». Lo stanziamento del governo è infatti unicamente volto a sostenere la sperimentazione della prestazione universale. Anche Anci ha espresso una mancata intesa. Le Regioni esprimono parere sfavorevole sull’impianto complessivo del provvedimento e sul mancato impegno a sostegno delle molteplici attività e funzioni assegnate a livello decentrato e dello «sforzo assunzionale che il provvedimento comporta per le Regioni e gli Ambiti Territoriali Sociali». Il parere negativo unanime delle Regioni su un provvedimento dello Stato è un evento raro, che inciderà pesantemente sull’attuazione della riforma.

Al decreto, che ha fatto parlare di “riforma tradita”, abbiamo dedicato due interventi qui e qui. Certamente vanno valorizzati alcuni elementi che l’atto contiene, soprattutto riguardo alla valutazione multidimensionale unificata. Ma su tanti altri aspetti l’atto, varato dal governo il 25 gennaio e che va approvato definitivamente entro il mese di marzo, depotenzia lo spirito innovatore della legge delega, in una semplificazione al ribasso che mortifica le aspettative di cambiamento. Sono molti i passaggi in cui i contenuti si annacquano in una prosa pleonastica, che aggiunge poco o nulla all’esistente: basti leggere l’articolo 25, pomposamente intitolato “Servizi di comunità, modelli di rete e sussidiarietà orizzontale” qui, per chiedersi che cosa si propone davvero di nuovo.

Semplificare, ridurre al minimo il cambiamento e gli oneri relativi, è l’intento palese nella proposta di prestazione universale, che di universale non ha più nulla, relegata a una parte marginale dei non autosufficienti: ultra-ottantenni, ultra-poveri, gravissimi e residenti a casa, tutti elementi che evidenziano un eccesso di delega rispetto alla legge 33, che non prevede nessuno questi elementi. In una sperimentazione che riguarderà per due anni meno del 2% degli anziani invalidi totali, circa 25.000 su un totale di 1,6 milioni.

A questo punto si aprono due possibilità. Nella prima, la meno probabile, il governo prende sul serio il tema di dove trovare nuove risorse, e di come utilizzarle, e questo richiede interventi sostanziali sul testo, uno sforzo progettuale, un disegno di riforma reale. È ciò che induce a ritenere meno probabile questa strada, anche per i tempi stretti a disposizione. D’altra parte, senza una riprogettazione ricadiamo nel grave errore già compiuto col PNRR, quello di nuove risorse per potenziare servizi lasciandoli esattamente così come sono, con tutti i limiti che presentano, cosa che è successa nella Missione 6, per i servizi domiciliari: si aumentano le portate ma il cuoco rimane lo stesso.

Per rimanere a questi servizi, nel passaggio dalla legge delega al decreto attuativo viene di fatto cancellata la prevista riforma dell’assistenza a casa. Si sarebbe dovuto introdurre un modello di servizi domiciliari specifico per la non autosufficienza, oggi assente nel nostro Paese. Rimane, invece, solo il coordinamento tra gli interventi sociali e sanitari erogati dagli attuali servizi domiciliari mentre sono assenti aspetti decisivi quali la durata dell’assistenza fornita e i diversi professionisti da coinvolgere.

La seconda possibilità, molto più probabile, è che il governo tiri dritto, perché i pareri di Regioni e Comuni sono solo consultivi. Viene così approvato un decreto legislativo che contempla 17 successivi decreti operativi e 5 linee guida che non vedranno la collaborazione attiva di Regioni e Comuni. Provvedimenti quindi che oscilleranno tra un esercizio di stile a impatto zero e interventi con efficacia territoriale comunque limitata, ritardata, poco condivisa. Non un bell’inizio, per un governo che ha il protagonismo regionale come sua bandiera. È questo l’esito immeritato che rischia un bel disegno di riforma, che lungo la strada ha trovato – ahimè –  istituzioni, attori e competenze uniti nel ridurne al minimo l’impatto.

Una riforma (semi) fallita per i non autosufficienti è una tragedia per l’Italia tutta intera. Per le famiglie di oggi e quelle di domani, dove gli anziani saranno sempre più soli, con aiuti familiari sempre più ridotti, e con pensioni sempre più magre. Non c’è molto da girarci intorno, tutte le analisi convergono su questi elementi. Arrivare impreparati al welfare di domani avrà ricadute su tutte le generazioni. Ma la politica del day by day pensa ad altro.


Commenti

Il fallimento di una seria presa in carico dei malati non autosufficienti a casa e nelle strutture residenziali era già contenuto nella legge 33, il decreto non ha fatto altro che formalizzare ciò (con tutti i limiti che la legge lasciava, anzi per certi versi “imponeva”). Su questo stesso sito il 17 febbraio 2023 (pochi giorni prima dell’approvazione della legge) Maurizio Motta smontava nell’articolo “Riforma per la non autosufficienza e assistenza domiciliare” il presunto impianto “universale” delle cure domiciliari: “Il disegno di legge – poi diventato legge 33 – poggia sull’idea che gli interventi domiciliari mirati alla tutela negli atti della vita quotidiana debbano essere compito dei soli servizi sociali”, che infatti intervengono con risorse limitate ai poverissimi, “o delle famiglie”, cioè senza intervento pubblico. Maurizio Motta criticava la legge (in disaccordo con molti, anche consulenti scientifici di questo sito e protagonisti di Organizzazioni/Patti e Tavoli tecnici ministeriali che hanno scritto ampi pezzi della norma), perchè già quella conteneva tutto. Pochi giorni dopo l’approvazione della norma – disegno di legge Draghi, poi ereditato senza sostanziali modifiche dall’esecutivo Meloni e approvato dal Parlamento – il presidente Emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick commentò: “Uscire dal terreno sicuro del sanitario e del socio-sanitario, come prospettato dalla legge33/2023, equivale a una sottrazione di tutele per i malati cronici non autosufficienti, che invece devono essere mantenuti nella dimensione di tutela sanitaria per tutte le loro esigenze”. Il decreto era ancora di là da venire, ma tutto ciò che non va nella “riforma” era già stato scritto.