I soldi per la povertà si possono trovare… nei soldi per la povertà


Maurizio Motta | 24 Ottobre 2017

Può sembrare che questo titolo proponga un “gioco delle tre carte,” oppure getti fumo con frasi ad effetto. Pur chiedendo scusa a chi trova il titolo un po’ provocatorio, propongo di riflettere sulle risposte che contiene.

E’ iniziata in Parlamento la sessione di bilancio, che condurrà ad approvare il quadro delle risorse finanziarie per il prossimo anno, welfare incluso. Tra le esigenze di spesa sono (finalmente) previsti due nuovi impegni:

  • il REI, che implica risorse da erogare agli utenti e anche per irrobustire l’infrastruttura dei servizi locali.
  • Il Piano contro la povertà, i cui contenuti sono da definire, ma che è adempimento previsto dalla legge.

Sul REI molti commenti hanno già fatto rilevare la necessità di impegnare più risorse, sia per ampliare la platea dei possibili fruitori (ora molto “stretta” in categorie specifiche), sia per erogare importi che siano più efficaci nell’innalzare i redditi inadeguati. Peraltro lo stesso D.Lgs che attiva il REI (15/9/2017, n. 147) all’articolo 2, prevede “…la progressiva estensione della platea dei beneficiari e il graduale incremento dell’entita’ del beneficio economico, nei limiti delle ulteriori risorse eventualmente disponibili a valere sul Fondo Povertà”. E se il Piano contro la povertà non sarà (come speriamo) un mero documento di analisi o di rassegna di ciò che già esiste, è evidente che richiede anche impegni finanziari dedicati.

 

Dunque si torna alla domanda cruciale: dove si trovano nuove risorse per la povertà?

La possibile risposta del titolo poggia su queste evidenze: vi sono molto risorse finanziarie già disponibili proprio entro i segmenti del welfare dedicati alla povertà, e dunque è possibile dirottare ai nuovi impegni (REI e Piano Povertà) parte di quelle risorse, riducendo la necessità di trovare nuove risorse “fuori dal welfare”, sebbene questa necessità rimanga nell’orizzonte delle scelte indispensabili, e non ci si possa accontentare di finanziare la lotta alla povertà con i riordini che qui si delineano.

 

Ma quali sono i “luoghi e modi” di possibile risparmio e riconversione di risorse in uso contro la povertà? Ne segnalo due:

 

1) Soldi per i poveri erogati a non poveri

Le più diffuse e costose prestazioni nazionali contro la povertà, come pensioni/assegni sociali INPS per gli anziani, integrazione al minimo e maggiorazione delle pensioni, vengono erogate valutando esclusivamente il reddito dell’anziano e del coniuge, mentre non vengono considerati né il valore dei beni mobiliari ed immobiliari che posseggono, né i redditi ed i patrimoni di altre persone diverse dal coniuge che pure compongono il nucleo familiare. Quindi questi interventi, pur essendo espressamente interventi dedicati al contrasto della povertà (e questo scopo finanziati dalla fiscalità generale), sono erogati non solo a famiglie povere, con effetti redistributivi gravemente distorti, ben documentati con molte e successive evidenze empiriche1.

Dunque per promuovere migliore equità distributiva sarebbe necessario introdurre nuovi criteri per erogare le prestazioni INPS citate, valutando una condizione economica che oltre ai redditi includa il patrimonio (mobiliare ed immobiliare), e di tutti i componenti del nucleo anagrafico, anche se non utilizzando usando il solo ISEE poiché contiene alcuni rischi nella misura della povertà.

Questo riordino potrebbe prevedere che le prestazioni assistenziali dell’INPS siano erogate considerando la condizione economica dell’intero nucleo familiare anagrafico, inclusiva di redditi e patrimoni (mobiliari e immobiliari). Un simile riordino, del quale purtroppo non si vedono al momento promotori nell’arena politica, produrrebbe i seguenti effetti:

  • non toccherebbe in alcun modo i “diritti acquisiti”. Per rendere più praticabile la proposta potrebbe anche essere sufficiente prevedere che chi già fruisce delle attuali prestazioni possa continuare a fruirne, e solo chi le richiede per la prima volta debba avere una condizione economica che meglio identifica la povertà del nucleo. Certo è rilevante definire bene a quali prestazioni applicare questo nuovo criterio, e (anche qui soltanto per rendere più praticabile la proposta) si potrebbe iniziare con gli assegni sociali.
  • Non significa in alcun modo “mettere le mani sulle pensioni”. L’oggetto di questo riordino non sono infatti pensioni retributive, contributive, o di invalidità, ma solo prestazioni indipendenti dai contributi versati, la cui natura è esclusivamente di supportare i redditi inadeguati per evitare la povertà.
  • Non implicherebbe nessun costo pubblico, nemmeno organizzativo. Ed al contrario consentirebbe di generare un risparmio cumulativo nel tempo, soltanto evitando di assegnare nuovi assegni sociali a chi povero non è. Risparmio che potrebbe essere destinato a finanziare prestazioni più efficaci contro la povertà, come il reddito minimo (comunque lo si chiami), con l’effetto di ottenere risorse per il welfare dall’interno del welfare stesso, solo introducendovi un riordino interno che è a costo zero. Non è una efficace spending review?

 

2) Ricomporre il caos delle attuali prestazioni

Se provate a scrivere un elenco delle erogazioni monetarie (o riduzioni di tariffe) che oggi sono operative a livello nazionale per le famiglie povere, in breve metterete in file più di una ventina di interventi diversi. Per brevità elenchiamo i principali: pensioni/assegni sociali, integrazioni al minimo, maggiorazioni delle pensioni, carta acquisti, contributo per spese per l’affitto dell’abitazione, assegno per nuclei con un nuovo nato e/o con almeno 3 figli minori di età, contributi a nuclei con minori sino ai 3 anni di età (c.d. bonus bebè), bonus gas (riduzione delle bollette del gas), bonus elettricità (sui consumi di energia elettrica), riduzioni Irpef (anche per incapienti) se hanno pagato affitti superiori a soglie definite, nonché il SIA e (da dicembre 2017) il REI.

Questa compresenza di interventi genera molti effetti critici:

  1. impone che i poveri siano costantemente competenti sul mix di prestazioni che possono richiedere, e su dove e quando richiederle. Ed anche che possano recarsi in diverse sedi in diversi momenti e scadenze (ai Comuni, ai CAF, all’Inps ecc). Capacità che non sempre i più fragili riescono a mettere in opera, col rischio che il sistema pubblico contro la povertà non raggiunga proprio quegli utenti che dovrebbero essere l’obiettivo primario delle sue offerte, e quindi che i più deboli non arrivino nemmeno a richiedere interventi ai quali avrebbero diritto.
  2. Operatori e servizi che “ricevono i poveri” (pubblici o del terzo settore) non riescono né a conoscere costantemente la complessa e mutevole mappa delle prestazioni, né tanto meno ad informare compiutamente i cittadini di tutto ciò che potrebbero richiedere.
  3. Le erogazioni economiche si fondano su criteri di accesso molto diversi, anche rispetto a “come si legge la povertà”, generando un sistema con diversi gradi di diritti in base alle singole prestazioni, spesso senza razionali motivazioni.
  4. Le prestazioni sono frantumate in molti rivoli diversi ed erogate da attori e amministrazioni differenti. Dunque non è possibile né mettere in gioco contro la povertà un budget unitario, né gestirlo in un servizio che lo possa utilizzare per un progetto organico di supporto.

Ed inoltre la coesistenza di diversi interventi gestiti da soggetti differenti moltiplica i costi di organizzazione delle prestazioni contro la povertà, perché sono gestite da amministrazioni diverse (Inps, Comuni singoli e associati, erogatori dell’energia elettrica e del gas, etc.), e quindi ogni gestore deve allestire e poi mantenere il suo specifico sistema di erogazione, inclusi i sistemi informativi connessi.

 

Dunque un importante riordino dovrebbe consistere nella ricomposizione delle attuali molte e frammentate prestazioni entro un più organico e unificato “reddito minimo”. E’ una sfida che richiede revisioni profonde della mappa degli interventi e delle funzioni ora distribuite tra molti (troppi) soggetti, ed è un orizzonte previsto anche nella di legge delega sul contrasto alla povertà approvata nel 2017.

Ma anche se questa ricomposizione di interventi ora spezzettati fosse messa in opera con lo scopo di ottenere una lotta alla povertà più efficace, che cosa ha a che vedere con il recupero di risorse finanziarie? La ricomposizione entro un “reddito minimo unificato” implicherebbe l’eliminazione progressiva dei sistemi informativi oggi costruiti (e mantenuti) per gestire singoli interventi, ed anche la riconversione di risorse umane e strumentali (come quelle logistiche, destinate alla pluralità di sedi operative), con un loro ricompattamento entro un unico processo utente/servizio/intervento. Certo questo “risparmio” richiede più tempo e gradualità, è più complesso da gestire, e dipende da quali interventi si ricompongono. Ma non per questo è una “fonte di risorse” da dimenticare.

  1. Una elaborazione dell’Istituto Ricerca Sociale di Milano e del Centro Analisi Politiche Pubbliche dell’Università di Modena ha evidenziato che se si dividono tutte le famiglie italiane in 10 gruppi di uguale numerosità (decili di famiglie) e si ordinano per ISEE crescenti, ai 4 gruppi più ricchi di famiglie va il 23% di queste prestazioni pubbliche dedicate alla povertà: integrazioni al minimo delle pensioni, quattordicesima per le pensioni basse, maggiorazioni sociali delle pensioni, pensioni e assegni social, carta acquisti, assegno per i 3 figli minori. Ossia i 4 gruppi più ricchi di famiglie, che in linea di massima non dovrebbero ricevere spesa pubblica dedicata ai poveri, ricevono 4,6 miliardi su 18miliardi spesi per quelle prestazioni (in Costruiamo il welfare dei diritti, numero speciale di «Prospettive Sociali e Sanitarie», n° 2, primavera 2016). Dati analoghi sono stati espressi dal Presidente dell’ISTAT in audizione parlamentare del 9/11/2016. Inoltre espone diversi materiali sul tema l’ultimo rapporto sulla povertà della Fondazione E. Zancan “Poveri e così non SIA”, Il Mulino, 2017. E ancora, per ricordare una fonte istituzionale, la Relazione tecnica al disegno di legge delega sul contrasto alla povertà (poi approvata dal Parlamento il 15/3/2017, n°33) ricorda che dati riferiti al 2012 evidenziano come dei 17,4 miliardi di Euro destinati al contrasto alla povertà tramite pensioni/assegni sociali e integrazioni al minimo delle pensioni, 6 miliardi sono erogati a fruitori tra il sesto e il decimo dei gruppi di famiglie in ordine crescente di condizione economica. Cioè il 38% di questi interventi per i poveri vanno ai fruitori meno poveri.