Il calo delle adozioni internazionali


Katia Montebello | 11 Dicembre 2017

L’adozione internazionale, ossia l’adozione di minori di nazionalità diversa da quella degli aspiranti genitori, fino alla fine degli anni ’70 ha rappresentato nel nostro paese una rarità statistica.

L’esiguità dei casi era tale che nel 1967 la legge n. 431 che riordinava la materia delle adozioni nazionali introducendo importanti elementi di innovazione, non estendeva i suoi benefici ai bambini adottati all’estero, per i quali le Corti d’Appello si limitavano a ratificare le sentenze emesse dalle autorità straniere senza entrare nel merito.

La situazione iniziò a cambiare a partire dagli anni ’80, quando il fenomeno subì un improvviso incremento passando da poche decine a centinaia (circa 300 nel 1982) e in breve tempo migliaia (6000 nel 1991) di domande di adozione internazionale presentate ogni anno dalle coppie italiane1.

L’aumento esponenziale fece emergere contraddizioni e criticità riconducibili all’assenza di un’adeguata disciplina a cui provvide in prima istanza la legge n. 184 del 1983 che equiparava l’adozione internazionale a quella nazionale, imponendo ad entrambe le medesime garanzie di protezione per l’adottato. Restò però irrisolto un problema fondamentale: i Tribunali per i Minorenni italiani, infatti, non avendo giurisdizione fuori dai confini nazionali, non potevano entrare nel merito delle verifiche di competenza delle autorità straniere. Ne derivava che, a fronte di una equipollenza teorica, la tutela del minore adottato all’estero risultava di fatto meno efficace: si pensi ad esempio all’accertamento del reale stato di abbandono da parte della famiglia naturale che poteva ovviamente essere verificato in Italia, così come previsto dalla legge, ma non certo controllato nel paese di provenienza del bambino straniero.

A ciò si aggiungevano tutte le complicazioni derivanti dalla cosiddetta “adozione fai da te”, ossia dalla totale assenza di regolamentazione nella parte estera dell’iter adottivo: gli aspiranti genitori che sceglievano di adottare in una nazione diversa dalla propria dovevano infatti procedere in completa autonomia, senza alcuna guida né supporto da parte delle istituzioni.

Talvolta essi trovavano un valido sostegno in onesti intermediari o nelle nascenti associazioni di genitori adottivi, ma più spesso finivano in balia di personaggi torbidi e senza scrupoli che allo scopo di conseguire facili guadagni, trasformavano l’esperienza estera in un incubo per le coppie, oppure commettevano dei crimini pur di procurare un bimbo rispondente ai loro desideri. Bambini rapiti, sottratti alle famiglie con l’inganno, comprati o commissionati ancora prima del loro concepimento: il ventaglio delle possibili aberrazioni era purtroppo molto ampio.

Al ritorno in Italia, poi, le neonate famiglie venivano lasciate sole ad affrontare tutte le problematiche del processo di reciproco adattamento e di inserimento sociale del minore adottato.

Non avendo ricevuto alcuna formazione preventiva e non potendo contare su servizi di consulenza e sostegno post-adozione, esse faticavano comprensibilmente a trovare adeguata soluzione alle proprie difficoltà, tanto da far registrare un preoccupante aumento dei casi di “restituzione”, ossia di fallimento adottivo con allontanamento del minore dalla nuova famiglia ed il successivo ricollocamento presso Comunità e Centri di accoglienza.

Più numerosi ancora erano poi i casi in cui il disagio, pur raggiungendo livelli severi, rimaneva all’interno della famiglia in forma di malessere cronico2.

 

L’Italia non era l’unico paese a confrontarsi con le ricadute negative di un istituto giuridico di per sé meritevole come l’adozione internazionale, erano infatti decine le nazioni coinvolte, considerando sia quelle di provenienza che quelle di destinazione dei minori. E le difficoltà avevano una radice comune, ovvero l’assenza di un’adeguata normazione della materia e di un accordo transnazionale sui parametri di condotta da seguire.

Sulla base di tale consapevolezza, nel 1990 i rappresentanti di 96 Stati si riunirono nella città de L’Aja e, dopo 3 anni di lavori, il 29 maggio del 1993 approvarono il testo definitivo della “Convenzione sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale” La Convenzione dell’Aja, che rimane a tutt’oggi il riferimento legislativo più efficace ed avanzato in materia, muove da un principio fondamentale: l’adozione può essere fatta esclusivamente nell’interesse superiore del minore ed a tale scopo sono previsti precisi obblighi sia per il Paese d’origine che per quello di accoglienza del bambino adottato.

In Italia la Convezione de L’Aja venne ratificata con la Legge n. 476 del 31 dicembre 1998, grazie alla quale il nostro Paese chiuse il controverso capitolo delle “adozioni fai da te” e si dotò di un sistema istituzionale conforme alle disposizioni internazionali.

Intanto il numero di minori stranieri accolti continuò a crescere fino a toccare la punta massima nel 2010 con il rilascio, da parte della CAI (Commissione Adozioni Internazionali), di 4130 autorizzazioni all’ingresso.

Subito dopo, tuttavia, a partire dal 2011 e poi in modo ancora più marcato dal 2012, abbiamo assistito, sempre secondo i dati della CAI, ad una brusca inversione di tendenza che è arrivata a segnare un calo del 40% nell’arco dei 4 anni successivi.

 

Davanti ad una riduzione così rapida ed evidente è impossibile non interrogarsi sulle cause della crisi; di certo possiamo escludere la diminuzione dei minori adottabili dal momento che i rapporti internazionali – compresi quelli dell’Unicef – non ne segnalano alcun calo. Per contro, i dati sulle adozioni nazionali non riportano un incremento tale da giustificare una così drastica riduzione delle domande rivolte all’estero, ed anche il crescente successo del ricorso alle tecniche di PMA (procreazione medicalmente assistita) non basta a spiegare il fenomeno.

È verosimile invece che possa esservi un rapporto con la congiuntura economica negativa, il conseguente peggioramento del tenore di vita della popolazione e il depotenziamento dei servizi di sostegno alle famiglie. Va inoltre considerato che nei periodi di crisi economica non è solo l’oggettiva diminuzione delle risorse materiali a modificare i comportamenti e gli stili di vita, ma anche la diffusa sensazione di instabilità, di insicurezza, di pessimismo e preoccupazione per il futuro.

Un’altra variabile influente è rintracciabile nelle condizioni poste dalla maggior parte dei Paesi esteri: tempi di attesa da calcolarsi nell’ordine degli anni, informazioni sulla storia e sulle condizioni di salute del bambino scarsamente attendibili, elevata incertezza rispetto all’iter burocratico immancabilmente punteggiato di imprevisti, ritardi e difficoltà aggiuntive.

 

Il crollo statistico della disponibilità all’adozione internazionale ha prodotto e continua a produrre conseguenze rilevanti rispetto alla protezione dell’infanzia, riducendo la possibilità di trovare una nuova famiglia ai minori in stato di abbandono e provocando un decremento degli investimenti nelle attività di cooperazione e nei progetti in favore dell’infanzia disagiata nei paesi di provenienza dei minori, attività a cui la Convenzione dell’Aja obbliga i Paesi aderenti.

La ricerca di possibili correttivi praticabili in ambito di politica nazionale per contrastare la diminuita propensione all’accoglienza porta senz’altro ad auspicare uno “snellimento” dell’iter adottivo realizzato attraverso l’eliminazione di tempi morti e lungaggini burocratiche, ma facendo nel contempo attenzione a non sottrarre tempo e spazio alle attività di formazione e informazione delle coppie. Allo stesso modo, una riduzione dei costi sarebbe quanto mai opportuna, ma non dovrebbe tradursi in un minor impiego di figure professionali qualificate con conseguente scadimento qualitativo e quantitativo dei servizi offerti.

 

Dunque la speranza è quella di una riforma che renda l’esperienza adottiva meno esosa e stressante per gli aspiranti genitori senza penalizzare gli elementi di garanzia e tutela ora presenti.

Rispetto ai problemi correlati alle procedure estere sarebbe inoltre opportuno ipotizzare un’attribuzione di competenze oltre che alla CAI anche ad altri dicasteri, come il Ministero degli Esteri, dal momento che le problematiche relative alle adozioni internazionali sono spesso più assimilabili ad affari di geopolitica che a mere questioni sociali.

In altre parole, occorrerebbe un processo di razionalizzazione capace di eliminare le contraddizioni senza rischiare la riproposizione – in forma diversa ma in medesima sostanza – delle situazioni disfunzionali per il cui superamento è stata necessaria la sottoscrizione da parte di 96 nazioni della Convenzione dell’Aja del 1993.

 

Il testo costituisce una sintesi dell’articolo della stessa autrice “Il calo delle adozioni internazionali: perché avviene e come si può intervenire” pubblicato su Welfare Oggi 4/2017.

  1. Luigi Fadiga, L’adozione, Il Mulino, 1999
  2. “Percorsi problematici dell’adozione internazionale”, studio pubblicato nel 2003 dalla Commissione per le Adozioni Internazionali in collaborazione con L’Istituto degli Innocenti.