Ci sono talune scelte, in un procedimento di amministrazione condivisa, in cui gli aspetti tecnici si combinano con elementi che influiscono in modo significativo nel definire la sostanza della collaborazione; ciò avviene, ad esempio, quando, nel definire i criteri per individuare i partecipanti ad un tavolo di coprogettazione, ci confrontiamo con forze contrapposte che ci portano l’una a privilegiare orientamenti inclusivi, l’altra orientamenti selettivi.
Da una parte, quando coprogettiamo, tendiamo a valorizzare gli aspetti inclusivi: il desiderio di avere quante più possibili sensibilità e competenze che si integrano nei tavoli, comprese quelle di soggetti di dimensioni minori sino al limite dell’informalità, nella convinzione che uno degli elementi che fanno la differenza rispetto ad una gara d’appalto sia proprio la ricchezza degli sguardi diversi che si combinano e ci consentono di immaginare interventi altrimenti impensabili. Questo ci porta a desiderare livelli di selettività bassa e ad avere quindi un gruppo di partecipanti molto ampio. Dall’altra parte, vi sono ragioni che spingono verso orientamenti più selettivi, sia pratiche che di merito: pratiche, in quanto un tavolo di lavoro molto articolato e composito da una parte è stimolante, dall’altra rischia di essere complesso e difficile da gestire; di merito, perché comunque si avverte l’interesse pubblico nel collaborare con e tra soggetti competenti, in grado di contribuire validamente allo. Questo ci porta, al contrario, ad immaginare livelli di selettività severi e un numero di partecipanti ristretti o, nell’ipotesi più radicale, un solo soggetto che la pubblica amministrazione individua come partner, con cui da quel momento in poi ha luogo la coprogettazione. Va premesso che, a tutela dell’interesse pubblico, forme di selettività – blande o severe – sono in ogni caso presenti e che un tavolo di lavoro in una coprogettazione (e di altri strumenti di amministrazione condivisa come la coprogrammazione) non è mai una sorta di “assemblea pubblica” aperta a chiunque in quel momento desideri prendervi parte: è una fase di un procedimento amministrativo che coinvolge soggetti ben definiti, che assumono impegni reciproci e con l’amministrazione e quindi vanno definiti e formalizzati. Ma, di qui in avanti, le diverse opzioni a disposizione per selezionare i partecipanti al tavolo rappresentano una delle scelte che chi immagina il percorso di amministrazione condivisa deve adottare, nella consapevolezza che non esistono opzioni “giuste” in assoluto, ma che è invece necessario affrontare in modo consapevole e motivato delle scelte, sapendo che essere determineranno aspetti successivi importanti dell’esperienza di collaborazione.
Il momento centrale diventa quindi quello dell’Avviso, in cui l’ente che guida il procedimento è chiamato a fare alcune scelte, sia relativamente al numero di partecipanti, sia ai criteri per individuarli. E, semmai ve ne fosse bisogno, va rimarcato come tali scelte sono sottoposte a tutti i principi generali che ispirano l’azione amministrativa: la partecipazione ad una coprogettazione (o anche ad una coprogrammazione, dove pure l’esito non è quello di attribuire compiti e risorse ai soggetti partecipanti) non avviene sulla base di inviti personali o scelte discrezionali, ma sulla base di procedimenti amministrativi di evidenza pubblica guidati da criteri che devono reggere l’onere di un’analisi delle motivazioni laddove fossero impugnati da parte di un soggetto che vi risultasse escluso. È l’avviso pubblico, quindi, a indicare se a coprogettare insieme all’amministrazione vi sia un singolo soggetto o, al contrario, un numero tendenzialmente indeterminato di enti che soddisfano requisiti assai modesti, ad esempio il semplice possesso di esperienza nell’ambito di attività oggetto di progettazione comune; e sono ovviamente prevedibili tutte le ipotesi intermedie, con gradi diversi di selettività. Ciascuna delle possibili scelte porta con sé implicazioni di cui essere consapevoli. Partiamo dal caso di selettività massima: l’amministrazione sceglie di coprogettare con un solo soggetto. Si tratta di una scelta, sino a qualche anno fa abbastanza diffusa e che ora tende a diventare minoritaria, che in molti casi rischia di portarci ad una situazione di fatto non dissimile da quella di un affidamento attraverso appalto, perché tende a sviluppare gli orientamenti competitivi del Terzo settore locale e non quelli collaborativi. In sostanza, può diventare nei fatti un procedimento di appalto che si caratterizza per una certa maggiore apertura dell’oggetto di lavoro, dove non sono dettagliate (come invece avviene in un appalto) le prestazioni da svolgere, ma si lascia al tavolo di lavoro biunivoco (amministrazione e soggetto selezionato) la scelta di come operare. In sostanza, tende per alcuni aspetti ad assomigliare, al di là dei diversi presupposti di partenza, ad un appalto concorso con uno spazio più ampio (e condiviso con l’ente pubblico) per la progettazione. Conseguenze di questo approccio sono, generalmente:
- delle barriere selettive piuttosto alte, simili per consistenza del fatturato e requisiti di esperienza, a quelle che sarebbero poste in un appalto, dal momento che il soggetto selezionato, oltre che contribuire con il proprio patrimonio di idee, sarà necessariamente chiamato a gestire gli importi economici connessi;
- una richiesta di specificazione abbastanza dettagliata del modo con cui l’ente intenderebbe operare, qualcosa di non troppo dissimile dal “progetto” richiesto in una gara d’appalto. È vero che, diversamente da questa ultima circostanza, si apre, dopo l’individuazione del soggetto, una fase di lavoro con l’amministrazione finalizzata appunto a delineare il progetto definitivo, ma in ogni caso l’esigenza selettiva porta a voler acquisire elementi chiari su quale sia l’impostazione che caratterizza una certa proposta, in modo da selezionare il proponente più affine agli indirizzi dell’amministrazione.
Una variabile decisiva, che può allontanare questo tipo di procedimento dall’essere, nei fatti, un quasi-appalto sotto mentite spoglie, è una variabile riferita al contesto locale: la propensione, cioè, dei soggetti locali a reagire a questa sollecitazione pubblica scegliendo autonomamente di non dare vita a confronti competitivi, ma di aggregarsi in modo collaborativo. E dunque, con uno o più soggetti guida che giocano la loro leadership non in senso muscolare ma facendosi aggregatori di forze composite della comunità locale. Certo, non va nascosto che questo possibile esito virtuoso è affidato alla propensione collaborativa (e, aggiungiamo noi, alla lungimiranza) dei soggetti leader, che giocano la partita in condizioni di forza: loro, da un punto di vista formale, non hanno bisogno di altri per partecipare, mentre gli altri hanno bisogno di loro. Il fatto che questo gioco possa comporsi non secondo i tradizionali canoni competitivi, ma secondo schemi inclusivi e collaborativi auto-prodotti da dinamiche virtuose del Terzo settore locale, dipende dal capitale sociale del territorio e dal livello di relazioni che sussistono tra i soggetti locali.
Se da un certo punto di vista questa soluzione potrebbe apparire spuria, non va trascurato un dato di realtà: al di là delle caratteristiche del procedimento amministrativo, nei fatti una parte significative delle buone prassi collaborative che tanto welforum quanto altri soggetti portano ad esempio negli articoli e nei momenti pubblici seguono appunto proprio questo schema: un’alleanza forte tra una pubblica amministrazione illuminata e un terzo settore che si coagula (nei fatti, al di là del grado di selettività dei procedimenti) intorno ad un soggetto leader territoriale che gioca il suo ruolo in modo non muscolare, ma inclusivo e collaborativo; e questo non ha solo l’effetto di “semplificare” le linee di relazione (ente pubblico con soggetto leader; soggetto leader con una pluralità di soggetti coinvolti), ma anche di produrre progetti che hanno come elemento di pregio l’essere fortemente integrati e non una mera giustapposizione di interventi diversi agglomerati insieme. Le esperienze della Valle di Susa, di Mantova, di Rho e di Lecco possono senz’altro essere descritte in questi termini. Per inciso: si noti come non si tratti in nessun caso di contesti metropolitani, dove per definizione la presenza di più leadership in competizione renderebbe più difficile questo schema; e forse non è un caso che le esperienze collaborative di successo nelle metropoli siano assai più rade.
Ma si consideri ora l’ipotesi alternativa, per certi versi quella più autenticamente coerente con uno stile collaborativo. Barriere di accesso per essere ammessi alla coprogettazione basse e di conseguenza tavoli più affollati chiamati ad elaborare il progetto definitivo. La ricchezza che può derivare da questa soluzione è quella di includere sensibilità e visioni che senza dubbio in procedimenti di affidamento sarebbero state trascurate o marginali: la piccola associazione con limitate capacità gestionali, ma che porta elementi di lettura dei bisogni che sfuggono ad altri soggetti che, essendo impegnati da anni sul fronte gestionale, tendono ad esprimere visioni più istituzionalizzate, come ha ben messo in luce nei suoi contributi Luca Fazzi. Il risultato, nel caso di gruppi di lavoro ben gestiti, può senz’altro essere altamente creativo e innovativo. In questo caso – ma in parte anche nel precedente – diventa centrale domandarsi quale tipo di elaborato richiedere all’ente in fase di istanza di partecipazione. Ovviamente una risposta limite è “nessuno”: non vi è altro requisito che il fatto di operare, anche in termini minimi, nel settore di attività, scelta ragionevole ad esempio qualora gli importi economici – ad esempio derivati da un piccolo finanziamento di cui l’amministrazione gode grazie all’intervento di una fondazione – sono limitati e dove dunque le esigenze di selettività sono di fatto inesistenti. Se però invece si ritenesse opportuno qualificare maggiormente la scelta di partecipanti, cosa è opportuno chiedere loro di esprimere oltre ai requisiti di esperienza?
Una prima risposta potrebbe, tradizionalmente, riguardare il “cosa vorresti fare nell’ambito del progetto”, nell’ipotesi quindi di acquisire delle – anche abbozzate – idee progettuali da valutare in termini di coerenza con gli intenti dell’amministrazione. Anche se ciò corrisponde ad una prassi consueta in bandi e appalti e anche se generalmente si è portati a ritenere elemento positivo e tutelante per l’amministrazione il fatto che tali progetti siano il più possibile circostanziati, non è quasi mai una scelta giusta. In un contesto plurale come un tavolo di coprogettazione ampio e articolato il fatto che ciascuno giunga avendo in mente una propria idea ben definita – e una conseguente aspettativa di ruolo e di riconoscimento economico – non rappresenta un presupposto virtuoso. Al contrario, porta a tavoli di lavoro che, stanti le aspettative già ben formate dei partecipanti, rischiano di ridursi a spazi di contrattazione, nell’infelice setting in cui se le risorse sono sufficienti, si tratta di frazionarle per dare spazio alle singole proposte preconfezionate, se le risorse sono insufficienti diventa necessario contrattare i margini di rinuncia di ciascuno, non sempre con esiti apprezzabili. Qual è il problema? È che se si immagina, come è coerente fare in questo caso, che il procedimento si qualifichi per la ricchezza delle diverse sensibilità e visioni, queste vanno valorizzate e liberate nel lavoro comune, non imbrigliate dalle aspettative di ciascuno e dalle conseguenti trattative. Quindi: meglio evitare di chiedere “progetti”, semmai si possono valutare le istanze di partecipazione sulla base di elementi che ci aiutano a capire le potenzialità dei diversi soggetti nel lavoro che si dovrà poi sviluppare: la capacità di sviluppare analisi dei bisogni ulteriori a quelle del documento progettuale iniziale, i contatti di rete esistenti, la capacità di mobilitazione delle energie anche informali dei territori, ecc. Questo, per individuare chi partecipa alla coprogettazione; mentre le classiche valutazioni sull’adeguatezza dei progetti possono essere riservate al prodotto o ai prodotti finali dei tavoli di lavoro, quando si tratterà di valutare se effettivamente il progetto definitivo frutto del confronto tra i partecipanti è soddisfacente. In conclusione: questa breve analisi di uno degli aspetti che qualificano una coprogrammazione o una coprogettazione (“chi coinvolgo nei tavoli?” “sulla base di quali criteri?”) mette in evidenza come l’estrema flessibilità e libertà connessa a questi procedimenti renda le scelte né scontate, né casuali. Si tratta, quindi, in questo e in altri casi, di operare con la consapevolezza che a guidare le scelte non è una (inesistente) necessità tecnica e amministrativa, ma ragionamenti circostanziati che l’amministrazione che guida il procedimento è chiamata a fare.