Coprogettazione: a che punto siamo?


Ugo De Ambrogio | 22 Novembre 2018

Il tema della coprogettazione riscuote in questo momento un particolare interesse. Il mio intervento si costruisce intorno a tre capitoli: l’origine storica della coprogettazione, integrata da alcune definizioni di contesto; a che punto siamo con la coprogettazione; quali sfide pone la coprogettazione pensata in senso ampio, ovvero come interazione tra pubblico e terzo settore.

 

L’origine della coprogettazione

Partiamo dal primo elemento, ragionando sui termini che sono stati utilizzati. Fino a un certo punto si è parlato di “progettazione partecipata”, da un determinato momento – che arriva quasi 10 anni dopo le prime indicazioni normative – si è cominciato a parlare con intensità di coprogettazione. Il percorso che ha portato alla nascita e sviluppo della coprogettazione può essere schematizzato in tre fasi. Negli anni Ottanta nascono i processi di esternalizzazione, dove il pubblico è il committente con funzione di regolazione dei rapporti amministrativi, di controllo della qualità dei servizi e di programmazione. Il terzo settore è invece il fornitore, con funzioni di gestione dei servizi coerente agli impegni contrattuali assunti. Gli strumenti dell’esternalizzazione sono gli appalti e i contratti di servizio. Alla modalità di esternalizzazione subentra, non come alternativa ma in modo complementare, la modalità di progettazione partecipata, che ha i suoi primi stimoli con la legge 285/1997 che finanziava solo progetti fatti insieme tra pubblico e terzo settore, e che porta poi ad una solida esperienza nei piani di zona, che hanno come caratteristica quella di avere il pubblico con funzione di policy maker, ovvero di definizione delle politiche e di conduzione di percorsi di consultazione progettuale, e il terzo settore con una funzione consulenziale e di advocacy in quanto testimone privilegiato dello sviluppo dei bisogni di determinate categorie di persone di un determinato territorio. In seguito alla crisi incomincia a prendere piede la coprogettazione, dove l’ente pubblico, pur mantenendo la titolarità delle politiche pubbliche del proprio territorio, e il terzo settore, sono partner, condividendo il potere decisionale sulle scelte progettuali e con assunzione, da parte del terzo settore, del rischio di impresa. Gli strumenti utilizzati sono i patti e i tavoli coprogettuali. Quello che cambia è che a seguito delle difficoltà che il sistema pubblico si trova a dover fronteggiare – con risorse calate a picco negli anni successivi alla crisi – l’idea di mettersi in partenariato e superare il tradizionale rapporto committente-fornitore viene interpretata come un’idea con potenzialità, un possibile volano per fronteggiare la crisi del welfare.

 

Le parole della coprogettazione

Le parole chiave della coprogettazione sono patto, partnership, metodo, corresponsabilità e innovazione. Per delineare un quadro di riferimento relativo alla coprogettazione in modo da allinearci al linguaggio che la caratterizza, possiamo fare riferimento a tre definizioni. La prima definizione possiamo prenderla a prestito dalla DGR IX/1353 del 2011 di Regione Lombardia che ci parla di coprogettazione come di una modalità di affidamento e gestione della realizzazione di iniziative e interventi sociali attraverso la costituzione di una partnership tra pubblica amministrazione e soggetti del privato sociale. Si tratta di una definizione impostata dal punto di vista contrattuale e amministrativo, è pertanto utile integrarla con una seconda definizione, che affronta maggiormente l’aspetto metodologico: la coprogettazione come un metodo per costruire politiche pubbliche coinvolgendo risorse e punti di vista diversi, provenienti da soggetto pubblico e terzo settore. Infine un’ultima definizione che vede la questione anche dal punto di vita organizzativo e relazionale: la coprogettazione è una partnership costruita per sviluppare esperienze innovative, da membri di organizzazioni diverse, che prevede partecipazione, coinvolgimento, impegno ed appartenenza per la costruzione di una nuova aggregazione organizzativa finalizzata alla realizzazione di un obiettivo comune. Viene quindi sottolineato l’elemento di partnership e di assunzione paritaria di onori ed oneri tra soggetti. Quando parliamo di soggetto pubblico e terzo settore non dobbiamo però dimenticare che facciamo riferimento a due soggetti con funzioni diverse: il rischio d’impresa di una cooperativa sociale che partecipa a una coprogettazione è diverso dal ruolo di titolarità d’intervento dell’ente pubblico, che è comunque il soggetto che definisce cosa e come coprogettare.

 

I fondamenti giuridici

Un po’ di riferimenti giuridici. La coprogettazione ha la sua prima definizione nella legge 328/2000, nel DPCM 33/2001, che è uno degli atti attuativi della 328 e che per la prima volta cita le “istruttorie di coprogettazione” per promuovere le esperienze di progettazione congiunta tra pubblico e terzo settore in particolare per interventi sperimentali e innovativi. Vi sono poi altri riferimenti più recenti che spingono in questa direzione: la delibera 32/2016 dell’Anac, che dà spazio ad un’idea di coprogettazione diversa dalla logica che regola gli appalti, e l’art. 55 del Codice del terzo settore, approfondita in altri contributi.

 

La coprogettazione come antidoto al neo-assistenzialismo

Ciò dal punto di vista giuridico. Si tratta ora di capire cosa sia avvenuto in questi anni nel nostro Paese. A livello nazionale da una decina di anni si sono sviluppate, essenzialmente a macchia di leopardo, una serie di esperienze di coprogettazione tra loro molto diverse e non sempre facili da interpretare e ricostruire. Citando Remo Siza, possiamo affermare che un problema che si sono posti i sistemi di welfare più consapevoli negli anni immediatamente successivi alla crisi è stato quello di non tornare all’assistenzialismo degli anni passati (ciò che Siza definisce “neoassistenzialismo”), una deriva in cui era ed è molto facile cadere. Il rischio che si vuole contrastare è quindi che al sistema degli interventi e servizi alla persona sia attribuita esclusivamente una funzione assistenziale, sostenuta da risorse scarse; o, in altre parole, che al welfare sia affidato un ruolo marginale di gestione passiva delle condizioni più̀ drammatiche in termini di povertà̀, non autosufficienza o disabilità grave.

La coprogettazione, da questo punto di vista, è una strategia di mantenimento e rinnovamento del welfare, che contrasta queste derive neo-assistenzialistiche. Innovare i modelli erogativi con patti di coprogettazione è coerente con indirizzi quali il privilegiare i servizi e gli interventi alle erogazioni economiche, modificare ed allargare il perimetro delle risorse finanziarie, investire in valutazione e riprogettazione efficiente ed efficace, preservare e sviluppare la funzione programmatoria, innovare i modelli erogativi anche con patti di coprogettazione.

 

La coprogettazione nelle Regioni

Da una ricognizione, pur incompleta, emerge che negli ultimi anni in tutti i territori del nostro Paese sono stati realizzati atti o esperienze formative di promozione della coprogettazione, sia di tipo regionale che territoriale. Ci mancano informazioni sul Veneto e sulla Valle d’Aosta, ma tutte le altre regioni – fra leggi regionali, regolamenti, linee guida avviate o in fase di avviamento, iniziative formative – si sono date da fare nella logica della coprogettazione. Si tratta di una coprogettazione che riguarda tutti i livelli e che in alcuni casi è promossa direttamente dagli enti locali, e in altri come opportunità fornite dalle regioni o dalle fondazioni bancarie o di comunità che promuovo bandi in cui si chiede al pubblico e al terzo settore di mettersi assieme coprogettando.

 

Coprogettazione, innovazione, (co)investimento

Fino all’art. 55 tutte le indicazioni, regolamenti e linee guida sulla coprogettazione, si rifanno alle istruttorie di coprogettazione per interventi sperimentali e innovativi evocate dalla 328/2000 e insistono sull’elemento sperimentale ed innovativo: ha senso coprogettare utilizzando modalità diverse da quelle degli appalti tradizionali quando siamo in presenza di attività innovative. Ma cosa significa ciò? È necessario e in che misura? Ne parleremo meglio in seguito. È bene però ora mettere in evidenza alcune convinzioni errate ma non infrequenti sulla coprogettazione: coprogettare non significa evitare selezioni e procedure di evidenza pubblica, che caratterizzano invece i bandi di coprogettazione al pari degli appalti; non significa risparmio per le pubbliche amministrazioni, poiché la coprogettazione costa, in primis dal punto di vista delle energie e comunque si accompagna a scelte di (co)investimento sul welfare e non di risparmio.

 

I rischi della coprogettazione

Diversi sono poi i rischi della coprogettazione. Innanzitutto l’incontro tra il pubblico e il terzo settore è un incontro tra culture organizzative diverse, che può indurre pregiudizi e svalutazioni reciproche: se si lavora assieme bisogna poterlo fare in un quadro di fiducia reciproca. Un altro rischio è quello di indurre nel terzo settore matrimoni di interesse che non funzionano: ci si aggrega per vincere un bando, ma non si cura la relazione interna tra i soggetti che hanno modi di agire e metodologie diverse. Altri rischi sono il configurarsi di situazioni di monopolio, di partnership asimmetriche, e di sottovalutazione degli aspetti metodologici, che possono produrre scarsa qualità progettuale, incomprensioni e risentimenti. Non basta infatti mettere le persone attorno al tavolo per fare una buona coprogettazione: coprogettare richiede competenze, energie e metodo.

 

Le sfide della coprogettazione

Le sfide della coprogettazione sono molteplici. Essa è un incontro tra diversi per cui è necessario passare dal pregiudizio al riconoscimento dell’altro come risorsa: essere partner significa stare in relazione, riconoscersi reciprocamente, accordare fiducia gli uni agli altri, e costruire un linguaggio e identità comuni. Si tratta anche di un incontro tra competenze diverse, attraverso l’integrazione di competenze amministrative, progettuali, metodologiche, gestionali e valutative: c’è quindi bisogno di atti amministrativi, metodo progettuale e gestione degli interventi che la sostengano con forza. L’ultima sfida è rappresentata dal riconoscimento del valore degli interventi realizzati in termini di innovazione di processo e di prodotto: si possono considerare innovativi quegli interventi che innovano dal punto di vista non solo dei contenuti, ma anche dei processi.  Gli effetti virtuosi della coprogettazione – quando decolla – sono l’integrazione e la mobilitazione di competenze, culture organizzative, e approcci professionali; la trasformazione dei matrimoni di interesse in convivenze basate sulla fiducia reciproca; la realizzazione di interventi e politiche innovative efficaci e flessibili; la promozione di una cultura della collaborazione e della fiducia, antidoto di una serie di tendenze individualistiche diffuse.

 

IRS e la coprogettazione

Le azioni che IRS promuove per sostenere e consolidare la coprogettazione si concretizzano in esperienze di formazione congiunta, finalizzate alla costruzione di un linguaggio comune, e di costruzione di figure di project manager, accompagnamento e cura della fase di cogestione attraverso monitoraggio e valutazione partecipati in modo da conoscere assieme gli esiti degli interventi. Infine, si mira a costruire una comunità di pratiche che sia in grado di monitorare e promuovere le esperienze più significative attraverso la stimolazione del dibattito e della cultura della coprogettazione, mettendo in evidenza le buone prassi a cui ispirarsi. In conclusione, per riprendere uno spunto tratto dal lavoro con un gruppo della scuola IRS, la coprogettazione è “un viaggio che soggetti diversi fanno insieme per esplorare una nuova strada e arrivare a una meta comune, ciascuno portando il proprio bagaglio”.

 

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